Ragazze e ragazzi della generazione now: Edoardo Lazzari (terza e ultima puntata)

di Enrico Conte
Edoardo Lazzari, 33 anni, l’ho incontrato in treno, è salito a Mestre, direzione Trieste.
Si è seduto accanto al finestrino, continuando ad indossare un cappotto largo e lungo di loden verde militare, sembra un ufficiale dell’esercito dei soviet anche per un berretto leggermente inclinato. Ne ho visti, simili, quando ai varchi con la Yugoslavia in provincia di Trieste, negli anni ’80 del ‘900, c’erano i graniciari, le guardie di confine che, arcigne, controllavano le frontiere della guerra fredda.
Intorno a noi silenzio, solo il rumore del treno e un leggero brusio per un gruppo di ragazzi in fondo alla carrozza. Lui, sguardo puntato sul vetro che lo riflette, osserva il paesaggio che corre, è assorto, ma non assente dalla relazione con il compagno di viaggio che lo sta guardando incuriosito.
E non è diffidente, nonostante lo osservi con insistente sfacciataggine.
D. Da dove viene? gli chiedo.
Venezia, mi risponde, dove ho studiato e dove lavoro come curatore indipendente e ricercatore in diverse Istituzioni culturali come, per esempio, la Peggy Guggenheim Collection, mentre sto terminando un dottorato di ricerca alla Sapienza di Roma. Mi sono formato tra lo IUAV nei corsi di Arti performative e l’università Paris 8 Vincennes-Saint-Denis. Ora navigo a vista nel mondo del precariato artistico e culturale. Sono stato da poco invitato a partecipare a una fellowship curatoriale in una nuova fondazione privata in città dal nome di una Scuola Piccola Zattere. Le fondazioni derivanti da grandi holding industriali sono una delle tante piaghe di Venezia, stanno privatizzando l’intero patrimonio di edifici storici, ma non è possibile evitarle ed è per questo che ho accettato. Inoltre, la direttrice artistica, è un’ottima curatrice con uno sguardo attento e posizionato sulle politiche locali. E’ importante entrare dentro questi luoghi per cercare di “manometterli”, attivando movimenti di pratiche virtuose e coscienti.
Mi sembra una gran bella sfida, gli dico, potrà formulare i suoi suggerimenti e le sue proposte, non pensa?
Lo è. Faccio parte di quel humus sotterraneo che a Venezia ha deciso di viverci e ha deciso di fare una sorta di resistenza culturale. Per molto tempo ho preso parte ad azioni collettive dal basso, come la costruzione di un Festival di teatro universitario in uno spazio pubblico, poi la gestione dalCovid in uno spazioculturale indipendente attento a costruire un’offerta culturale militante e non ripiegata dalle stagioni della grande eventistica.
Il “Bardalino”, così si chiamava, è stato chiuso a causa della proprietà che ha preferito darlo in locazione agli enti stranieri, mordi e fuggi di tutta la produzione satellitare della Biennale di Venezia, che sta 5-6 mesi al massimo spendendo cifre folli e lasciando il deserto dietro di sé. Bisogna fare un’inversione di rotta netta, altrimenti siamo già spacciati.
D. Quali sono le più grandi differenze tra quegli anni ‘70 del secolo scorso e adesso?
Questa è una domanda complessa e stratificata. Nel mio ambito di studi, le epistemologie della performance, gli anni ’70 sono stati e sono ancora un enorme bacino di sperimentazione da cui continuiamo ad attingere e a cui spesso guardiamo con molta nostalgia e desiderio di riattivazione. Anche io personalmente nutro una grande stima nei confronti di movimenti artistico politici che hanno nutrito quegli anni, però, allo stesso tempo, mi è evidente che il tempo in cui ci muoviamo è radicalmente mutato. Non si può assumere e incorporare nella propria pratica una radicalità di cinquanta anni fa, ma si può abbracciare le complessità e stare con i problemi e nei paradossi, seguendo le filosofie materialiste contemporanee, che altro non sono che una diretta filiazione di ciò che muoveva quegli stessi movimenti.
In Tv girano vecchi cantanti, più che un’operazione nostalgia, mi sembra un modo per riempire un vuoto di offerta culturale. Non pensa che siano anacronistici?
Mi ritengo fortunato per aver smesso di guardate la tv o perlomeno di averla persa come oggetto di frequentazione quotidiana dal momento in cui sono uscito di casa e ho iniziato i miei studi universitari.
E’ strano perché se si dovesse parlare di una operazione nostalgia le teche Rai sono stracolme di materiale interessantissimo. La televisione italiana negli anni è stata una fonte inesauribile di operazioni di ricerca e approfondimento da un punto di vista artistico e culturale. Se non sbaglio, è recente che l’intero Istituto di fonologia della Rai sia stato completamente smantellato. Una Istituzione che negli anni d’oro ha sostenuto e prodotto le ricerche di professionisti dell’avanguardia e grandi sperimentazioni nazionali e non come Luigi Nono, Demetrio Stratos, ma anche John Cage!
Quanto alla sensazione di anacronismo direi che mi sembra comprensibile. Allo stesso tempo mi piace immaginare queste situazioni come momenti di fratture temporali, dove possono accadere cose inaspettate. Mi piace anche da un punto di vista professionale provare a mettere in frizione elementi che apparentemente non hanno niente da a che fare l’una con l’altra.
Aggiungo un piccolo estratto da un libricino del filosofo Giorgio Agamben “Che cos’è il contemporaneo?” Che ho sempre ritenuto di grande ispirazione:”La contemporaneità è una singolare relazione con il proprio tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa”.
Dall’Italia, e non solo dal Mezzogiorno, vanno all’estero molti ragazzi: cosa cercano che non trovano a casa? E cosa farebbe per trattenerli o attrarli sul suo territorio di residenza?
Quando, nel 2010, sono andato via da Lecce, non c’era esattamente qualcosa che si cercava fuori, ma era piuttosto un’abitudine, una prassi. Tra i mie amici solo una piccola percentuale è rimasta dopo le scuole, poi molti sono rientrati per il desiderio di tornare.
Si parte per le strutture formative e per le possibilità che sono di più, e di maggior rilievo.
Per trattenere ragazzi mi viene in mente un progetto di politiche giovani attivato dal Comune di Roma, si intitolava “Torno subito” e che prevedeva di presentare un programma di mobilità professionale che partiva da un tirocinio fatto all’ estero e che richiedeva di fare, poi, una seconda fase nel Comune di provenienza. Con questo progetto so che molte persone hanno ricominciato a lavorare a Roma.
A suo avviso qual è il divario più evidente che c’è tra Nord e Sud del Paese?
Da dove iniziare!!
Se avesse la possibilità di valorizzare l’arte contemporanea a Lecce, da cosa partirebbe?
Bisognerebbe in primo luogo partire da una mappatura della scena locale indagando anche pratiche artistiche emergenti. Nonostante l’importanza di figure come Ezechiele Leandro ed Edoardo De Candia, recentemente studiate e valorizzate con mostre, bisognerebbe passare ai linguaggi multidisciplinari che intreccino arte visiva, performance, suono e nuovi media.
Si potrebbe pensare a un percorso che non si limiti al formato espositivo tradizionale, ma che includa momenti partecipativi e sperimentali: residenze artistiche, laboratori aperti, interventi site specific nei paesaggi urbani e rurali del Salento.
Altra direzione connettere Lecce al Mediterraneo, esplorando questioni geopolitiche e sociali come migrazioni, identità, sostenibilità attraverso progetti collaborativi tra artisti e comunità locali
Un approccio che intrecci ricerca territoriale e iniziative formative innovative, ridefinendo il ruolo dell’arte contemporanea in un contesto dato, rendendola un luogo generativo vivo, tra il locale e il globale. Scambio di esperienze, idee e pratiche non mancano.
Basterebbe metterle in risalto, ascoltarle e sostenerle, adeguatamente.
Mentre scendo dal treno, arrivato a Trieste, sul mio smartphone compaiono la faccia truce di Trump e quella inquietante di Musk.
E’dalla fine del Covid che ho la sensazione di essere scivolato, attraverso un vortice, in un altro mondo ma, questa volta, è proprio un’altra dimensione della quale in tanti non ci siamo accorti. Eppoi, non è che il passaggio di epoca avvenga con un toc toc, scusate…posso entrare?
Forse eravamo troppo presi dal desiderio di desideri infiniti, o da quello che Franco Cardini (nel suo ultimo “I confini della storia”) chiama “il più grande peccato della modernità, il non voler riconoscere il limite”, inteso come “una mancanza da superare ad ogni costo” (Tommaso Codignola). Come fanno, d’altronde, Trump, Musk e i suoi amici della rete, e noi con loro.
Sono grato, molto grato, nei confronti di questi ragazzi, Ginevra Leganza, Pier Lorenzo Pisano, Edoardo Lazzari che hanno risposto alle mie domande su di untreno che corre. Mi hanno restituito il senso di una vita dove conta predisporsi a salire e scendere da un predellino, pur di inseguire i propri sogni.
Lecce 22 gennaio 2025
Enrico Conte
Redazione di Trieste
Il Pensiero Mediterraneo
