Recensione del libro di Pompeo Maritati “Dove vanno le navi?”

di ADA SERENA ZEFIRINI
Ci sono romanzi che non si leggono, si ascoltano. Parlano piano, come le onde che sussurrano contro lo scafo d’una nave ferma in porto, e dentro quelle parole, in bilico tra memoria e desiderio, si nasconde il battito dell’anima di chi scrive. Dove vanno le navi? di Pompeo Maritati è proprio uno di questi libri. Un’opera che non si impone, ma si lascia trovare. Come una conchiglia sulla battigia o come una lettera che il mare restituisce intatta dopo averla custodita tra le sue correnti.
Leggere questo libro è come affacciarsi su un porto del Pireo, a respirare il profumo di sale e di sole, a spiare la vita che scorre nei vicoli assolati e tra le barche ancorate. Ma soprattutto è entrare, con rispetto e pudore, in una dolce storia d’amore che ha la grazia delle cose autentiche e la malinconia di ciò che il tempo ha trasformato, ma mai cancellato.
I protagonisti – Cristina e Dionisi – non sono eroi epici, ma esseri umani imperfetti, due ragazzini fragili, pieni di contraddizioni e di coraggio. Si incontrano in un tempo che non è quello delle favole, ma quello della vita reale, dove l’amore non è un fulmine a ciel sereno, ma una fiamma che cresce lentamente, inconsapevolmente sin dalla loro infanzia, e che è tenuta viva tra le intemperie quotidiane, le rinunce, le distanze. Eppure, tra loro nasce qualcosa che va oltre le circostanze, oltre i confini geografici e quelli imposti dalla razionalità.
Pompeo Maritati racconta questa storia con una scrittura limpida, dolce, a tratti poetica. Non cede mai al melodramma, non alza mai la voce, e proprio per questo riesce a commuovere profondamente. Ogni parola sembra scelta con cura, ogni dialogo sembra contenere un sottotesto più profondo, e ogni silenzio, ogni attesa, ha un suo ruolo specifico. L’autore ci mostra che l’amore vero non è quello perfetto, ma quello che sopravvive alle intemperie, che si ostina a esistere anche quando sembra impossibile.
Il porto è più di uno sfondo. È un simbolo, un luogo dell’anima. Le navi che vanno e vengono rappresentano le possibilità della vita, le scelte fatte e quelle mancate, i ritorni e gli addii. C’è in queste pagine una malinconia struggente, ma anche una speranza sottile, come la luce dorata che danza sull’acqua al tramonto.
Uno dei temi centrali del libro è il tempo. Il tempo che passa e che cambia tutto, ma anche il tempo che conserva, che tiene vive le memorie e i sentimenti. Cristina e Dionisi si cercano, si trovano, si perdono e si rincorrono in un tempo che non è mai lineare. Il passato si intreccia al presente, i ricordi riaffiorano come onde, a tratti dolci, a tratti impetuose. Ma ogni pagina suggerisce che, nonostante tutto, certi legami non si spezzano mai davvero. Come se certe anime fossero fatte per ritrovarsi, come se alcune domande – come quella del titolo – non avessero una risposta univoca, ma solo un viaggio da compiere. Dove vanno le navi? non è solo la domanda geografica di chi guarda l’orizzonte, ma anche la domanda esistenziale di chi si interroga sul senso dei propri passi, delle proprie scelte, dei propri sogni.
Maritati sa evocare la Grecia con una delicatezza particolare. Non descrive, evoca. I colori delle case, i profumi delle taverne, il rumore dei passi sui ciottoli, le preghiere sussurrate in una lingua antica: tutto costruisce una scenografia viva e intima, mai folcloristica. Si sente che l’autore ama quei luoghi, che li conosce nella loro anima, e che ci conduce lì non da turisti, ma da pellegrini della memoria.
Ma più ancora del paesaggio esteriore, è quello interiore che conquista. Cristina è un personaggio dal carattere poliedrico, pieno della gioia di vivere. Non è che una ragazzina viva, vera. Le sue paure, i suoi dubbi, la sua forza silenziosa: tutto di lei vibra di umanità. E Dionisi, con la sua capacità di attendere, di credere ancora, di lasciare spazio al tempo, è una figura maschile rara, lontana dagli stereotipi.
C’è una scena in particolare – non la rivelerò per non togliere la sorpresa a chi leggerà – che racchiude tutta la poesia e la potenza del romanzo. Una scena in cui il silenzio vale più di mille parole, in cui lo sguardo dei protagonisti dice ciò che la voce non osa, in cui il mare diventa confidente e complice. È in quel momento che ho capito quanto questo libro non fosse solo una storia, ma un’esperienza.
Alla fine della lettura, ci si sente come dopo un viaggio in barca: un po’ stanchi, un po’ trasformati, con ancora addosso il profumo del mare e nel cuore un misto di nostalgia e gratitudine. Perché Dove vanno le navi? non è un romanzo da dimenticare. È uno di quei libri che tornano nei pensieri nei momenti più impensati, come una melodia ascoltata una volta e mai più dimenticata.
In un’epoca in cui si corre e si consuma tutto in fretta, Maritati ci invita a rallentare, ad ascoltare, a sentire. A ricordare che ogni amore ha una geografia segreta, fatta di attese, di partenze e approdi, e che non sempre serve sapere dove si va per sentire che si è nel posto giusto.
È raro oggi imbattersi in un romanzo che riesca a toccare corde così profonde senza mai alzare il tono, senza mai strillare la propria importanza. Questo libro lo fa con la naturalezza delle cose necessarie. E quando lo si chiude, ci si accorge che la domanda del titolo è rimasta dentro di noi, come una bussola silenziosa: dove vanno le navi? Dove vanno i nostri sogni, le nostre speranze, le parole che non diciamo? Forse non conta la risposta. Forse conta solo avere il coraggio di salpare.
Pompeo Maritati, con questo piccolo gioiello, ci ricorda che ogni vita è un viaggio e ogni viaggio è una possibilità d’amore. Che le navi partono, sì, ma a volte tornano. E che nel cuore di ognuno c’è un porto in cui qualcuno, da qualche parte, ci aspetta ancora.