Lunetta Milù
Ci sono libri che, più che letti, si respirano. Libri che non si limitano a raccontare una storia, ma aprono uno spiraglio sull’anima dell’autore, lasciando che chi legge vi entri in punta di piedi, accolto come un ospite caro in una casa di ricordi e di emozioni. Dove vanno le navi? di Pompeo Maritati è proprio questo: un diario segreto sussurrato tra le pagine, una carezza sul cuore, un piccolo miracolo di dolcezza e malinconia che commuove, avvolge, accompagna.
Ambientato negli anni Cinquanta, tra il calore del Mediterraneo e l’intima penombra delle case di famiglia, il romanzo non è soltanto una ricostruzione storica, ma una dichiarazione d’amore — per le proprie radici, per la memoria, per le persone che, pur avendo lasciato la scena della nostra vita, continuano a viverci dentro come voci leggere del passato che non si spegne.
Al centro della vicenda, Dionisi e Cristina, due giovani anime che si rincorrono nelle vie assolate del Pireo, un porto che è più di un luogo: è simbolo di partenza e ritorno, di addii e di promesse sussurrate al vento. Un porto, come quello della vita, dove ogni nave è una speranza, una possibilità, un sogno che prende il largo. E in mezzo a loro, come un faro che illumina anche le notti più buie, la figura meravigliosa e indimenticabile della nonna. Una donna di altri tempi, che con la sua saggezza antica e il suo amore incondizionato incarna quella generazione silenziosa che ha sofferto e amato senza chiedere nulla in cambio, lasciando ai nipoti il dono di una memoria da custodire come un bene prezioso.
Maritati, con la sua scrittura sobria e al tempo stesso profondamente poetica, cesella ogni parola come fosse una goccia di mare. Non c’è eccesso, non c’è ostentazione. Solo sincerità. Solo amore. Solo verità. L’autore non si nasconde dietro il velo della finzione narrativa, anzi: nel finale struggente del libro, si concede in tutta la sua umanità, rivelando che ciò che abbiamo letto non è solo frutto d’immaginazione, ma il riflesso autentico di un frammento di vita realmente vissuto.
Così, Cristina non è solo un nome, ma una presenza viva nel cuore del narratore. Una bambina incontrata durante le estati trascorse al Pireo, una compagna di giochi, di risate, di sguardi complici e ingenui, che la vita — impietosa e imprevedibile — ha poi allontanato. Ma il cuore, si sa, è una casa senza porte chiuse: e ciò che ha amato, non smette mai di abitare lì.
La narrazione assume perciò un valore doppio: da un lato ci fa viaggiare nel tempo, restituendoci con struggente delicatezza l’atmosfera di un’epoca perduta, dall’altro ci invita a riflettere su ciò che resta, su ciò che davvero conta.
Nel tessere la storia, Maritati non dimentica mai di celebrare la terra che fa da sfondo al racconto: la Grecia, con il suo Pireo, il suo mare parlante, le sue strade polverose e piene di vita. È una Grecia che non ha bisogno di descrizioni ridondanti: la si sente, la si vede, la si ascolta tra le righe. È la Grecia che parla attraverso i ricordi, che vive nei colori dell’infanzia, che resta sospesa tra mito e realtà.
La nonna, figura toccante e centrale, è il cuore pulsante del libro. Lei rappresenta la memoria viva, la saggezza che consola, il calore che non si spegne mai. E proprio in lei si incarna quella nostalgia che è quasi una seconda pelle per chi è cresciuto lontano dalle proprie radici. Una nostalgia che non è solo mancanza, ma anche appartenenza. Un sentimento che avvolge, che tiene legati a un luogo e a un tempo, che si tramanda con le parole, con i silenzi, con gli sguardi.
E se la nave è la metafora della vita, del viaggio, dell’allontanarsi, del cercare nuovi orizzonti, allora le storie come questa sono le ancore che ci impediscono di perderci. Sono le mappe che ci riportano a casa. Non importa quanto lontani siamo andati: c’è sempre un ricordo, un nome, un’estate lontana che ci guida indietro, verso ciò che siamo stati, verso chi ci ha amato, verso quel “noi” che credevamo dimenticato.
La storia che avete letto, non è solo un racconto nato dalla mia fantasia, scrive Maritati nell’ultima pagina. Ma è il ricordo di qualcosa che è realmente accaduto. E in queste parole c’è tutta la verità che rende questo libro speciale: è una testimonianza, una confessione, un atto d’amore. Non si può leggere senza sentirsi coinvolti, senza provare un nodo in gola, senza desiderare di scrivere — anche noi — la nostra storia perduta.
Perché alla fine, tutti abbiamo avuto una Cristina. Tutti abbiamo avuto un porto da cui siamo partiti. Tutti abbiamo avuto una nonna che ci ha insegnato a guardare il mare come si guarda la vita: con stupore, con timore, ma anche con infinita speranza.
Dove vanno le navi? non è solo un libro da leggere. È un libro da vivere, da sentire, da portare con sé. È il canto sommesso della memoria, il sussurro di un amore che ha attraversato il tempo, la celebrazione di tutto ciò che, pur svanendo, continua a esistere dentro di noi.
Un’opera commovente, dolce, autentica. Uno specchio in cui riflettersi, un mare in cui perdersi, una nave su cui salire per cercare, ancora una volta, ciò che abbiamo lasciato indietro.
E alla fine, forse, capiremo davvero dove vanno le navi. Forse vanno là dove il cuore le richiama. Là dove l’amore non ha bisogno di parole. Là dove i ricordi diventano eternità.