RILEGGENDO IL GATTOPARDO DI GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA – Giovanni Teresi
Opera di grande valore artistico, costituisce uno dei casi editoriali più noti della storia dell’editoria italiana del ‘900. Rifiutato per due volte da Vittorini, apprezzato da Moravia, il manoscritto andrà in stampa nel 1958, un anno dopo la morte dell’autore.
Vincitore del premio strega nel 1959, Il Gattopardo sarà oggetto di una grande discussione da parte della critica letteraria italiana. Che cosa ci faceva un romanzo di stampo ottocentesco in un Italia post-bellica? Conosciamo bene le figure predominanti di quel periodo storico: da Vittorini a Pavese, da Lukàcs a Sciascia. Su tutto il fronte, la cultura era di carattere progressista.
Tre sono i temi essenziali de Il Gattopardo. Il primo tema è senza dubbio quello del “trasformismo“, perfettamente identificato nel giovane nipote del principe, Tancredi Falconieri. “Perché tutto rimanga com’è, è necessario che tutto cambi”.
Personaggio non lontano da Consalvo Uzeda de I Viceré di De Roberto, Tancredi è un uomo ambizioso che intende mantenere il ruolo di prestigio che i suoi natali gli hanno conferito, tradendo solo apparentemente la classe sociale a cui appartiene. Il principe Falconieri è il trionfo dell’immobilismo politico e sociale che sfilerà dinanzi agli occhi del principe Salina. Salina capirà suo nipote e non lo biasimerà mai, anzi, al contrario, finanzierà economicamente le sue iniziative, ma non lo appoggerà.
Siamo al secondo importante nucleo tematico del romanzo: il rifiuto etico del trasformismo. Quando un funzionario del nuovo governo sabaudo, Chevalley, scende in Sicilia per offrire al principe un posto nel nuovo senato, Salina rifiuta. Nel discorso dell’aristocratico, non c’è né apologia del trasformismo né rimpianto per il passato, ma una semplice decisione di rimanere dalla parte dei vinti.
L’ultimo tema del romanzo è l’esistenza della verità. “Alla verità ufficiale, cento anni dopo Lampedusa oppone questo romanzo che nasconde – […] – la verità della sua classe perdente, seppellita sotto le palate di terra che il tempo e i tanti Sedara hanno lasciato cadere” (Anile e Giannice, Operazione Gattopardo, Feltrinelli 2013).
Potremmo continuare ore parlando di questo romanzo, delle sue sottili tematiche, della bellezza della prosa o del dibattito nato in seguito alla sua pubblicazione. Ma non vogliamo annoiarvi con questo nostro articolo. Oggi ricorrono i 60 anni dalla pubblicazione del romanzo e abbiamo semplicemente voluto omaggiare quello che può essere considerato il capolavoro del ‘900 italiano.
Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, oltre che essere un celebre romanzo che conta una famosa riproduzione cinematografica, nata dal genio di Luchino Visconti, è da sempre un libro che offre spunti di riflessione.
Giuseppe Tomasi da Lampedusa, compone Il Gattopardo nel 1956, anno che precede la sua morte: il romanzo narra della vita di Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, negli anni compresi fra il 1860, data dello sbarco dei Garibaldini in Sicilia e il 1883, anno della sua morte. La vicenda del Gattopardo è ambientata in Sicilia e prende avvio nel 1860, nel momento del collasso del Regno dei Borboni.
Don Fabrizio, principe di Salina e proprietario terriero di una tenuta vicino Palermo, è il classico rappresentante della ceto aristocratico, ovvero di quella classe sociale che sta assistendo impassibile al proprio inesorabile declino. La vicenda si apre infatti nel maggio di quell’anno, durante la spedizione dei Mille: il principe Salina saluta con scetticismo e malcelato disprezzo l’arrivo delle truppe di Garibaldi, che consegneranno il potere ai Savoia e che segnano la fine di un’epoca e la rapida ascesa della classe borghese. Se Don Fabrizio contempla con disincanto questo passaggio storico, suo nipote, Tancredi Falconeri, esponente di una gioventù più dinamica e cinica al tempo stesso, si arruola volontario tra le fila dell’esercito sabaudo.
Quando lo zio esprime delle riserve in merito, Tancredi risponde con la celebre frase: Questo motto – emblema del trasformismo politico e appunto dell’abitudine gattopardesca della classe politica – spiega da subito che, di fronte al cambiamento epocale che sta per avvenire, Tancredi incarna l’abilità della vecchia classe dirigente nel conservare i propri privilegi, sfruttando le nuove opportunità della modernità. Se infatti Don Fabrizio (intellettuale colto ed appassionato di astronomia) può solo rammaricarsi della scalata sociale dei borghesi, che egli considera alla stregua di parvenus, Tancredi si innamora della bellissima Angelica, figlia di Don Calogero Sedara, un mezzadro rapidamente arricchitosi e divenuto sindaco di Donnafugata, residenza estiva dei Salina.
Qui la scena si sposta nel mese di agosto, quando, benché Don Calogero sfoggi già la fascia tricolore, Don Fabrizio si illude dell’immutabilità della Storia. A smuovere queste sue convinzioni arriva la passione amorosa tra i due giovani. Questo legame, pur fondato su una bruciante passione, è anche funzionale alla conservazione del potere dei Salina: Tancredi (che non dispone di grandi beni personali) troverà nelle ricchezze della famiglia Sedara un ottimo strumento per coltivare le proprie ambizioni politiche. Simbolicamente, la loro unione segna il tramonto dei Salina: Concetta, figlia di Don Fabrizio ed innamorata di Tancredi, vedrà deluse tutte le proprie aspettative. In effetti, Tancredi ed Angelica si assomigliano molto: sono giovani e belli, esponenti rampanti di una nuova società in cui passione e calcolo si sposano alla perfezione.
Emblematica la scena in cui Don Fabrizio, assecondando i desideri del nipote, chiede per lui in sposa Angelica: il discorso di Don Calogero Sedara, aprendosi con un iniziale elogio della potenza dell’amore, passa a più venali considerazioni economiche circa la dote della figlia. Al trionfo di Tancredi, che fa rapida carriera nell’esercito regolare e gode dell’amore di Angelica (celebre la scena del loro inseguimento nel palazzo di Donnafugata), fa da contraltare l’immobilismo, voluto e distaccato al tempo stesso, del principe Salina. Quando il cavaliere piemontese Aimone de Chevalley, segretario della prefettura, esponente del parlamento sabaudo gli offre la nomina regia a senatore (e quindi l’ingresso nella “nuova” Italia unita), Don Fabrizio rinuncia, indicando Don Calogero al proprio posto. Da questo incontro hanno origine le sue riflessioni sul “desiderio di immobilità voluttuosa” che caratterizzerebbe l’animo siciliano e che, nel caso del protagonista, lo fa tendere, con piacere e dolore, al passato e alla morte. Nonostante tutti i dubbi, il principe invita i concittadini a votare per l’annessione.
La vicenda si sposta per seguire il ritorno a casa di padre Pirrone, cappellano dei Salina ed esponente del clero reazionario e conservatore del regno borbonico: questa parentesi è funzionale a rappresentare i cambiamenti storici intervenuti nel Regno delle Due Sicilie in seguito al moto unitario. Al vento della Storia sembra sempre insensibile: la narrazione delle vicende principali riprende con la descrizione di una futile e fastosa scena di ballo, che diventa simbolo del desiderio sotterraneo di oblio e di morte del principe; Don Fabrizio, infatti, morirà nel 1883, in una camera d’albergo di ritorno da un viaggio napoletano. Per il principe, la Morte ha le fattezze di una bellissima donna, giovane e velata, vagheggiata da sempre. Nel frattempo, Tancredi è divenuto deputato.
Con uno stacco temporale di molti anni, l’ultima scena è ambientata nel 1910: le figlie di Don Fabrizio (Concetta, Caterina e Carolina, tutte rimaste nubili) sono intente a rivendicare il valore delle mille reliquie false accumulate nella cappella di famiglia, simbolo del potere ormai vuoto dei Salina. Dopo una visita del cardinale, tutto verrà buttato tra i rifiuti. Subisce la stessa sorte anche la pelliccia del cane alano Bendicò, amico fedele di Don Fabrizio e ultimo segno della decadenza dell’antica casata. Il romanzo si chiude con l’arrivo in automobile di Angelica, pronta a organizzare i festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario della spedizione dei Mille.
Il gattopardo che dà il titolo al romanzo è lo stemma araldico della casata dei Salina e compare anche su quello dei Tomasi di Lampedusa. Dal punto di vista zoologico, si tratta di un servalo (Leptailurus serval) o gattopardo africano, un felino selvatico di media corporatura (il maschio adulto pesa tra i 10 e i 18 chilogrammi), il cui habitat prevalente è la savana.
Giovanni Teresi