di Paolo Protopapa
“I teologi sono lupi”, ci diceva Antimo Negri, acuto e caustico cattedratico di Filosofia teoretica a Lecce mezzo secolo fa. Il teologo – aggiungeva – per passione e mestiere, discute e discute e discute argutamente, come solo i teologi sanno fare ad un livello di alta specialità e dottrina. Non può, dunque, fare eccezione Vito Mancuso, costantemente presente nel discorso pubblico sulle grandi questioni religiose, ma anche etiche e civili di pregnanza spirituale. In un ambito non altrettanto largo, ma non certo inquinato di ‘informativismo’ mediatico prevalentemente ideologico, io tendo, però, a ricordare il vecchio (per trascorsa temporalità), anche se assai lontano dal mio punto di vista, Arrigo Colombo. Studioso e professore presso la Facoltà di Magistero nell’Ateneo salentino, fu eroico, rigoroso e problematico educatore. Lo rivedo nella memoria di un dibattito di circa un quarantennio addietro a Casarano, sinceramente inquieto e limpidamente filosofo, teso ad accarezzare appassionatamente, con postura intellettuale ereticamente laica, il fascino – irrinunciabile per gli uomini generosi – dell’Utopia e dell’azzardo. Inquietanti, certo, perché inquieti, questi seri uomini di pensiero.
“I teologi sono lupi”, dicevamo con Antimo Negri, perché essi plasmano i loro agnellini ‘ab ovo’, quando la mente dei giovani dilettanti è dotata di debole ‘lògos’ e di troppo ‘pàthos’. In effetti nei giovani non può che prevalere l’apprensione emotivamente ingenua e, diremmo, innocente perché acerba. Per fortuna (ma la traccia originaria è difficile da sradicare!) nel tempo ci si può emendare e provvedere criticamente, seppure con ardue terapie sia tecniche, sia teoreticamente modificabili nel processo conoscitivo della ricerca verso nuovi approdi di verità plausibili. L’Ateismo è (sarebbe) una trappola, perché (traduco, diciamo, ‘teosoficamente’!) ti costringe “a parlare di un problema che non esiste”. Nel senso che Dio è problema inesistente in quanto non-problema.
Ecco il punto. Se non parlassimo dei problemi ‘che non esistono’, sarebbe, tuttavia – mi permetto di chiosare – addirittura impossibile parlare di quelli che esistono.
Se, d’altra parte, “ciò di cui non si può dire, è meglio tacere” (L. Wittgenstein.), allora dovremmo fare probabilmente un altro mestiere. E ciò perché, a mio parere, per arrivare alle cose (o problemi) che non esistono, ovvero “a ciò che non è dicibile”, occorre comunque parlarne. A tal proposito non vorrei scomodare, ma ritengo utile farlo, il greco Protagora che definisce “l’uomo misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono”. Come, però, parlarne, specialmente delle cose che non sono? E cosa significa il lemma ‘non sono’? Ecco: questo mi sembra il passo dirimente. Altrimenti ci sbarazzeremmo fin troppo facilmente financo del ‘Protreptico’, ‘Esortazione alla filosofia’ di Aristotele. Il quale sostiene che – e secondo molti giustamente! – “non si sfugge comunque dal filosofare, perché comunque e in ogni caso bisogna filosofare”. Filosofare e ragionare, parlare e argomentare sono sinonimi e implicano la complessa gradualità metodologica della teoresi.
Pertanto, il pertinente accenno al marxiano “Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice”, può essere cosa utile e saggia in questo genere di discussioni difficilmente decidibili. Anche perché il confinamento logicistico della critica alla religione condiziona negativamente la svolta che la prassi sociale gioca storicamente nel più generale processo di secolarizzazione.
Se ne può in ogni caso dedurre che l’ateismo (ma tanta parte del materialismo moderno, da Ludwig Feuerbach a…Michel Verret ecc.) venga anche da lì, dalla condizione plurimillenaria del parlarsi e reciprocamente del contra/dirsi. Il che non si configura affatto come trappola. Qualora lo fosse; e, qualora, la teoria critica non fosse, invece, ‘ad auxilium’ della laicità anti-confessionale della società, saremmo tutti imprigionati nella mastodontica trappola di gran parte di quel pensiero umano che vorremmo fosse almeno tendenzialmente critico e anti-dogmatico, educandoci scientificamente ad esserlo. Sul presupposto onesto, in tale circostanza, che “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”.
Dobbiamo sperare, in questo aspetto cruciale, di non esserci infilati nella ‘trappola’ tanto esorcizzata del nichilismo conoscitivo. Dal momento che, essendoci affidati nientemeno che a Cristo o a qualcuno che gli somigli nell’iperbolica pronuncia di una tale, universalmente inesorabile affermazione di umano fallibilismo, ci saremmo consegnati al nemico. “Umano, troppo umano” avrebbe detto Fredrick Nietzsche.
Paolo Protopapa