Soprani non più in carriera. Capitolo 9: FRANCA FABBRI

Ritratto di Franca Fabbri ai tempi in cui cantava come Violetta
di Emilio Spedicato
Nuova Callas, da cantante ad insegnante
Nel mio primo libro su 108 personaggi della lirica (“Abbiamo amato Puccini“) appare il soprano Franca Fabbri, incontrata nel 2008 su segnalazione del tenore Renato Cazzaniga. Ne è nata un’amicizia, una collaborazione a livello musicale e culturale. Nella sua casa ho intervistato artisti come Ferdinando Dani, Antonio De Roma, Tiziana Fabbricini, Eleonora Filipponi, Irini Karaianni, Carlo Meregalli, Francesca Pacileo, Mayuko Sakurai… e insieme siamo andati a intervistare a casa loro Lella Cuberli, Teodoro Rovetta, Gillo Dorfles, Annamaria Prandelli…
Nella casa di Franca notevole è un Pleyel a tre quarti di coda a lei donato dalla sua manager, Emy Erede, consorte del direttore Alberto Erede, padre di Marco, mio collega di studi al Liceo Manzoni di Milano e al corso di laurea in fisica dell’Università di Milano. Pianoforte accordato dopo molti anni da uno straordinario musicista e accordatore russo, Vladimir Papykin. Incontrato da me all’uscita dall’Osservatorio Astronomico di Brera, mentre seduto a un lato della strada suonava un violino dal suono meraviglioso che era stato trovato a Berlino durante l’occupazione dei russi.
Nel corso della nostra prima intervista Franca diceva di avere chiuso con la lirica e di non avere alcuna intenzione di insegnare, scelta di molti cantanti lirici quando lasciano le scene. Ma la vita offre cambiamenti e sorprese. Ora Franca ha scoperto di essere una buona insegnante di bel canto.
Nel seguito due pagine in cui ripercorre velocemente episodi della sua vita sino ai giorni presenti, che la vedono a diretto e positivo contatto con i suoi giovani allievi.
Terribili furono gli anni che seguirono la morte di mio padre [primo clarinetto alla Scala]: in casa non correva un soldo e mia mamma, con noi figli aggrappati alle sue gonne, si vide costretta a cercare il necessario per sfamarci mentre infuriava la guerra.
Ricordo nitidamente quella sera del 1943 a Milano: atterrita, correvo con mia mamma sotto le bombe, io da una parte, lei dall’altra, a cercare mia sorella sordomuta, smarrita per strada fra cumuli di macerie ed incendi dovunque.
Fu allora che la mamma, per poter lavorare, prese la decisione di metterci al sicuro in un istituto: io andai all’orfanotrofio delle Stelline, antica istituzione ambrosiana fondata da San Carlo Borromeo. L’edificio, dall’aspetto conventuale, era costituito da quattro chiostri chiusi da porticati in vetro e grandi finestroni; vi era anche un giardino, bellissimo, con tanta rigogliosa vegetazione. Lì, nelle ore di ricreazione, mi nascondevo dietro quelle grandi piante ed inseguivo i miei sogni, esibendo un’infantile mimica teatrale.
Sognavo di diventare una grande cantante. E che si avverasse quanto scrive Tagore:
“Arriverà il mattino, le ombre della notte svaniranno
e la tua voce in rivoli dorati inonderà il cielo”.
Dopo aver lasciato il collegio, suddivisi il mio tempo fra lavoro e studi musicali.
Era il 1963 quando ebbi la fortuna d’essere prescelta da Luchino Visconti per il ruolo di Violetta in Traviata a Spoleto. Si apriva il periodo più importante della mia vita.
Vent’anni fecondi e formativi, ma brevi, poiché ben altri doveri m’attendevano a casa; reggere entrambi gli impegni mi era diventato troppo faticoso.
Il tempo passava veloce e ritrovandomi presto completamente sola, mirai di nuovo al palcoscenico. Lieder, melologhi, letture di testi classici o d’ispirazione sacra, readings poetici, presentazioni etc. divennero i miei nuovi cavalli di battaglia.
Ma la gioia più grande mi è stata data dall’incontro, in età avanzata, coi giovani.
Ho ascoltato il suggerimento dell’amico Maestro Ferdinando Dani, già responsabile degli eventi culturali, concerti e visite guidate, alla casa dei musicisti “Fondazione G. Verdi”,
e cominciai a spiegare il canto ai giovani, affidandomi alla mia naturale sensibilità ed esperienza artistica.
Questi ragazzi vivono sogni che già furono miei, ma non mi sarei mai aspettata di scoprire in me tanto appagamento spirituale né di vivere così intensamente quella simbiotica unione che si sviluppa fra il maestro e l’allievo. Mi impegno soprattutto sulla dizione ed interpretazione, per l’emozione ed il piacere che provo nel veder nascere e svilupparsi un’opera intera. È un lavoro di fine cesello, come se fatto… a mano, in grado però di appagare l’udito, proprio come l’opera di un bravo pittore sa compiacere lo sguardo.
Non amo iniziare i cantanti, preferisco che abbiano già idea di cosa vuol dire cantare.
Di solito, infatti, chi è agli inizi vive una condizione di incertezza: curiosità, legittimo desiderio di affermazione potrebbero presto cedere il passo a disillusioni e sconforto di fronte alle inevitabili difficoltà dell’impegno, spingendo il giovane alla rinuncia.
Ho comunque la certezza che la donna sia più risoluta e persegua con maggiore convinzione i propri obiettivi malgrado gli ostacoli di natura pratica che potrebbe incontrare. Penso ad esempio alla maternità o ai pregiudizi sociali.
Certo, nel rapporto fra insegnante ed allievo, sono necessari intesa e fiducia reciproca.
Il fattore umano è determinante, e poiché ognuno di noi ha un suo modo di sentire la musica, è necessario “cercarci” esplorando ciascuno l’animo dell’altro, senza dimenticare che, seppure con sfumature diverse, entrambi abbiamo la musica nel cuore.
Questa è la vera forza che ci avvicina e che, se supportata da costante impegno, può darci le più grandi soddisfazioni.