Spezzare il pane della scienza pedagogica secondo una insegnante leccese dei primi Novecento

Briciole Didattiche
di Giuseppe Caramuscio
La pubblicazione, nel 1912, di Briciole didattiche. Note e osservazioni d’una giovine maestra non costituisce certo una novità assoluta nel paesaggio editoriale della Lecce primi Novecento. L’umiltà del titolo con cui Lucia Starace licenzia alle stampe il suo lavoro non deve trarre in inganno. Difatti quest’agile libro, a metà strada tra l’autobiografia professionale e il reportage condotto sul campo, va ad incrementare una pubblicistica di settore abbastanza consolidata anche in Terra d’Otranto, progressivamente implementata fra Otto e Novecento da non pochi insegnanti-scrittori. Maria Attisani-Vernaglione, Maria De Matteis, Aristide Guidotti, Oronzina Quercia-Tanzarella, Edoardo Spezzaferri – solo per citare gli autori più fecondi – pubblicano con una certa continuità racconti edificanti, libretti “di premio” destinati agli allievi della scuola elementare, testi delle proprie conferenze magistrali, riflessioni su temi pedagogici di predominante interesse, prontuari di didattica ad uso dei colleghi. Mentre i docenti della scuola superiore (quelli dell’istruzione classica in modo precipuo) coltivano elettivamente gli studi filologico-letterari, gli insegnanti della scuola primaria si assumono il compito di rielaborare le quotidiane esperienze in aula, di validarle alla luce delle più accreditate teorie filosofico-pedagogiche, di socializzarle alla comunità educante. Se il dibattito sul ‘cosa’ e soprattutto sul ‘come’ insegnare infatti appare tautologico in un settore della formazione autoreferenziale e quasi impenetrabile dalla critica, la scuola di base è chiamata a misurarsi con le sfide di una scuola tendenzialmente di massa: dall’applicazione dei programmi ministeriali alla numerosità delle classi, dalle diffuse difficoltà di apprendimento all’inadeguatezza degli spazi e dei sussidi didattici.
Dunque si costituisce, distribuendosi in misura abbastanza omogenea sull’area nazionale, una variegata letteratura in cui potremmo collocare, benché inediti, anche materiali grigi come le preziose ed eleganti scritture di servizio degli insegnanti (programmi, relazioni). Rimasta nell’ombra sino a quarant’anni fa, è stata rimossa dall’oblio grazie agli storici dell’educazione e della scuola, che hanno guardato con più attenzione a scritti poveri nella veste ma densi di contenuti e carichi di passione educativa, tirati a spese degli autori magari da artigianali torchi domestici e oggi scovati nelle biblioteche locali . Né va dimenticato che in Terra d’Otranto, come nel resto d’Italia, svolgono attività di consulenza e di aggiornamento (oggi diremmo di “formazione continua”) a vantaggio di maestre e maestri alcuni periodici dalla breve vita: L’Educatore Salentino (1877-1880), il più letto con le sue mille copie di tiratura, e il più longevo perché prosegue dal 1883 al 1884 con L’Educatore Pugliese; La Maestra Educatrice, un settimanale nato da un’insegnante torinese trasferitasi a Lecce (1879-1880); Il Consigliere del Maestro elementare (1881-1882) e altri di cui si hanno informazioni molto frammentarie .
Davanti a tanta fertilità editoriale e giornalistica è dovere dello storico porsi alcune domande:
1 – Perché tanti insegnanti scrivono?
2 – Quando?
3 – Come e per chi scrivono questi coscienziosi insegnanti-pubblicisti? Quale l’impatto sui colleghi?
4 – Che cosa scrivono?
6 – Quale valore di verità possiamo attribuire alla loro testimonianza? Come vanno letti i loro scritti a distanza di oltre un secolo?
1 – Perché?
Esiste da sempre un legame profondo, non del tutto esplorabile, tra la passione per l’insegnamento e la scrittura. Gli insegnanti animati da tale energia, diventati scrittori, non possono non portare con sé le esperienze vissute tra i banchi di scuola. Chi educa i propri allievi a saper oggettivare punti di vista sul reale – senza dissimulare l’emergere delle emozioni – per coerenza deontologica è chiamato a dimostrare di saper fare altrettanto. È sin troppo ovvio ribadire che chi scrive è perché ne sente il bisogno, quasi obbligato a obbedire a qualcuno che gli “detta dentro”, alla maniera romantica. La scrittura è l’equivalente di una confessione, ma filtrata, non scagliata grezza in faccia al lettore . Significativo è il fatto che la nostra maestra adotti un approccio autobiografico, sia nell’incipit che in molti passi strategici del testo. Lucia non scrive alla fine della carriera, ma a pochi anni dal suo inizio: non stila un conto consuntivo, ma al contempo un primo bilancio e un preventivo. Ella stessa dichiara l’uso catartico della propria scrittura, per vincere l’insicurezza, per razionalizzare gli eventi, per chiarirsi le idee. Scrivendo di sé, potrà comprendere meglio il mondo esterno attraverso il racconto della formazione e maturazione del proprio mondo interiore: «Lo stupore non mi conduceva a quella serie ordinata di considerazioni pedagogico-didattiche le quali mi avrebbero fatto trovare la ragione vera di ciò che era oggetto della mia meraviglia».
La scrittura, rievocando i ricordi, la aiuta a scoprire le cause di certi accadimenti attraverso il confronto (ad es. fra i differenti metodi adottati da due maestre). Alternando argomentazione a narrazione – l’una a sostegno dell’altra – non fa trapelare la cronaca esterna all’aula, se non nella indefinita prefigurazione delle progressive sorti dell’Umanità. Avvertendo di vivere una transizione storicamente decisiva (non solo per la scuola), la maestra leccese vuole con urgenza imprimere sulla carta la sua eredità da lasciare ai contemporanei e al futuro.
2 – Quando?
Ignoriamo i motivi contingenti che hanno indotto la Starace a preferire il 1912 quale anno della pubblicazione del suo primo (e unico) lavoro pedagogico. Al contrario, conosciamo bene come il neonato Regno d’Italia abbia inteso celebrare il fresco cinquantenario della sua istituzione (1911): con il pretesto di tutelare i propri interessi economici in Tripolitania e in Cirenaica, dichiara guerra all’Impero Ottomano, in realtà per impadronirsi di quelle vastissime regioni oggi (poco) unificate sotto il nome di “Libia”. È la più vigorosa proclamazione del diritto/dovere dell’Italia all’espansione coloniale, aspirante potenza fra le vecchie potenze, che coincide con l’apogeo dell’età giolittiana e con il decollo industriale nel nostro Paese. Nello stesso anno di uscita delle Briciole il governo Giolitti estende il suffragio elettorale ai maschi trentenni e a coloro che, a 21 anni compiuti, abbiano assolto all’obbligo di leva o conseguito almeno la licenza elementare del grado inferiore (la seconda classe). Anche al più modesto fra i titoli di studio, pertanto, è riconosciuto valore giuridico quale requisito per l’esercizio della cittadinanza attiva. Garanti della formazione del cittadino si fanno scuola e caserma, luoghi dell’inoculazione dei vaccini patriottici contro le idee socialiste e anarchiche in circolazione nell’Italia prefascista.
Divenuta gradualmente un luogo di socializzazione interclassista, la scuola elementare nel corso del primo cinquantennio unitario ha richiesto diversi interventi del legislatore per adeguarsi ad una domanda di istruzione proveniente dalla piccola borghesia e dal proletariato più evoluto. A tale scopo, la scuola primaria non assolve più solo alla funzione di fornire i primi rudimenti della conoscenza ma anche di gettare le basi per i gradi successivi del percorso formativo. La società italiana comincia a toccare con mano gli effetti positivi della scolarizzazione, pur avviata e gestita fra enormi difficoltà finanziarie e organizzative. All’aumento dei bambini che ottemperano all’obbligo scolastico corrisponde – sia pure in misura inferiore – l’incremento del tasso di alfabetizzazione, in proporzioni disomogenee sul territorio nazionale. La Starace coglie le trasformazioni in atto al suo tempo nel constatare che «la distinzione precisa [tra scuola urbana e scuola rurale] è impossibile: la popolazione delle scuole urbane è quasi sempre un misto di campagnolo e di cittadino». I risultati incoraggiano i decisori politici, che con la legge Orlando del 1904 prolungano l’obbligo scolastico fino al dodicesimo anno di età, prevedendo l’istituzione di un “corso popolare” (finalizzato all’avviamento al lavoro) formato dalle classi quinta e sesta nei Comuni superiori a quattromila abitanti. Non basta. Ai primi del secolo, acquista maggior vigore la domanda di “avocazione” (presa in carico) della scuola elementare da parte dello Stato, sostenuta in particolare dai sindaci dei Comuni meridionali, di cui è capofila il sindaco di Casarano (Lecce).
La richiesta viene finalmente soddisfatta nel 1911 dalla legge Daneo-Credaro che statalizza la scuola elementare, stabilendo la perequazione degli stipendi di maestre e maestri e venendo in soccorso delle amministrazioni municipali impossibilitate a sostenere convenientemente le spese scolastiche e non, comprese quelle per i “fanciulli bisognosi”. Quando Lucia Starace fissa sulla carta stampata i momenti più significativi della propria testimonianza professionale, la scuola italiana è dunque attraversata dai medesimi fermenti già esperiti dalle Nazioni da tempo avviate sul cammino dello sviluppo economico e civile. Il disposto legislativo è accompagnato dall’intervento di prestigiosi nomi della cultura e della pedagogia nazionale, che fanno sentire la propria voce a proposito della revisione dei programmi, sulla struttura dell’impianto formativo, intorno alle metodologie d’insegnamento da adottare e circa l’opportunità dell’insegnamento della Religione. I provvedimenti del primo decennio del XX secolo fanno seguito ad altre tre operazioni di riforma dei programmi di studio, effettuate nel 1860, nel 1867 e nel 1888, caratterizzate dall’aumento crescente della lunghezza e dell’articolazione dei contenuti di insegnamento .
A un siffatto panorama così ricco di riflessioni, di proposte e di attuazioni reali, insegnanti come Lucia Starace non vogliono far mancare il proprio contributo. La Nostra, al pari di tante sue colleghe e suoi colleghi, avverte lucidamente l’importanza del suo tempo e del ruolo fondamentale giocato dall’istituzione scolastica ai fini del progresso collettivo. Nel 1912 si vive ancora nell’atmosfera inebriante della Belle Époque, alla quale la cultura positivistica assicura un solido patrocinio teoretico avallato da numerose e rilevanti innovazioni tecnico-scientifiche.
- Come e per chi scrivono questi coscienziosi insegnanti-pubblicisti? Quale l’impatto sui colleghi?
Pur nella coerenza ideale e stilistica che lo informa, il testo di Lucia appare piuttosto come la collazione di più osservazioni effettuate a distanza di tempo l’una dall’altra, il che non deprezza il suo valore, anzi lo esalta evidenziandone il carattere di personale costruzione progressiva. Ne risulta un effetto complessivo di montaggio, smontaggio e di ricomposizione ragionata, una sorta di album fotografico in cui alle sue allieve sono dedicati non pochi scatti in primo piano nel loro intervento diretto, individuale o collettivo. Sono raffigurati in una foto di gruppo dai contorni meno nitidi le componenti più fragili della scolaresca, cui è data indirettamente voce rilevandone problematiche caratteriali e sociali.
Inizialmente lo sguardo dell’autrice si concentra sul proprio io, di cui riporta le proprie impressioni, percezioni, riflessioni in grado tuttavia di porsi in interlocuzione indiretta con i responsabili politici della scuola, verso i quali rivolge garbati richiami. Innanzitutto sulle condizioni materiali delle sedi scolastiche: «Ma tolti i centri popolosi, tolti pochi Comuni benemeriti, gli altri hanno scuole disadorne e, sovente, antigieniche, anti-didattiche». Disapprova il sovraccarico dei programmi ministeriali che, deragliando verso un eccesso di contenuti di istruzione, determinano nelle piccole menti un nocivo «surmenage intellettuale» e trascurano il primario fine educativo della scuola. Né manca di biasimare il comportamento di quei genitori, che fanno ogni sacrificio «per mantenere alle scuole i loro figli, sperando di tirarne su un avvocato, un medico, un ingegnere; ma, il più delle volte, non ne fanno che degli infelici, sprezzanti il mestiere del padre, e non abili, né disposti ad applicazioni migliori». Lucia non approfondisce le motivazioni di questo problema – che oggi chiameremmo di “disorientamento scolastico e professionale” – che, mutatis mutandis, ha mantenuto una certa attualità. Elementi di criticità sono ravvisabili anche nell’azione didattica, allorquando gli insegnanti pretendano dai piccoli allievi prestazioni intellettuali e comportamentali soddisfacenti pur adottando strategie pedagogico-didattiche non adeguate all’età. Due le cause di tale fenomeno: l’abuso di metodi estranei alle caratteristiche infantili e le «eccessive pretese da parte degli insegnanti, [che] non capiscono la vivacità scambiandola per cattivi istinti». Se sono queste le più esplicite posizioni critiche, forse non sarebbe fuor di luogo considerare tali anche quelle più allusive: alcune esemplificazioni che la Nostra trae dalla vita didattica possono rappresentare, per via positiva, altrettanti rilievi indiretti a pratiche inadeguate.
Non va trascurata la possibilità di un altro approccio all’opuscolo della Starace, anche questo storicamente connotato e approfondito dalla letteratura più recente. Briciole didattiche può essere annoverato a pieno titolo nelle scritture femminili, particolarmente feconde in molti ambiti, letterari e di vita, a partire dall’Ottocento . Le pagine del libretto sono impregnate del senso materno, della sensibilità femminile di cui il legislatore intende avvalersi per trasmettere in forma accettabile gli indirizzi politici del nuovo Stato e che le maestre sussumono con zelo. Una più approfondita analisi stilistica potrebbe rivelarci molto di questo ruolo femminile, inedito per l’Italia, che sposta i tradizionali compiti femminili dalla famiglia all’ambito pubblico. Un confronto con la scrittura degli autori di sesso maschile ci farebbe constatare meglio la differenza rispetto alla percezione femminile che si traduce in differenza di modalità educativa. Il garbo con cui Lucia espone le sue riflessioni è tale da darci l’impressione di sentirla parlare. Insegnare per lo più in classi femminili – almeno da quanto riferito nel libretto – e quindi abituarsi ad una relazione simmetrica dal punto di vista del genere e ad obiettivi peculiari della formazione femminile, non impedisce all’autrice di riferirsi alla “virilità” fra i valori da perseguire e da coltivare, intesa come forza d’animo nel lavoro, nella vita associata e soprattutto nella difesa della Patria.
Se non è difficile presumere a quali destinatari (reali e/o potenziali) siano rivolte le Briciole, allo stato attuale della ricerca è molto arduo identificare l’impatto che il suo opuscolo possa aver provocato nel mondo scolastico leccese. Occorrerà compulsare archivi pubblici e privati, e soprattutto la pubblicistica sia generalista che specialistica per rintracciare l’eventuale circuito delle conoscenze fra le quali la maestra abbia fatto circolare la sua pubblicazione, come in uso all’epoca. I pochi indizi di cui disponiamo riguardano la tipografia leccese di cui si è servita, la “Regia Tipografia Editrice Salentina F.lli Spacciante”, la più affermata a Lecce fra Otto e Novecento, e le due biblioteche che tuttora accolgono copia dell’opuscolo: la Provinciale “N. Bernardini” (probabilmente per rispetto dell’obbligo istituzionale di consegna da parte degli autori del luogo) e la Biblioteca dell’Associazione “Pernix Apulia di Eugenio Selvaggi” di Manduria
3 – Che cosa?
Le riflessioni di Lucia Starace gravitano intorno a due nuclei tematici: il primo (intenzionalmente) sin troppo esplicitato sin dalle prime pagine, è sintetizzato nel binomio “educare/istruire” che l’insegnante-scrittrice punta a coordinare, pur nella conclamata superiorità morale della prima componente. La sua posizione è conforme all’orientamento ministeriale dominante alla sua epoca, maturato nel corso del primo mezzo secolo unitario. Da allora e, più in generale, lungo tutta la storia della scuola elementare italiana è visibile l’alternanza di programmi ispirati all’uno o all’altro polo di tale dialettica, con una certa prevalenza dell’indirizzo educativo . Procede sottotraccia e in funzione complementare l’altro nucleo che, nella definizione del quadro etico in cui collocare l’azione didattica, sottende il dritto della medaglia formativa ossia la laicità dell’insegnamento. Lo scritto della maestra leccese non può non risentire di una fase storica in cui i rapporti fra Stato italiano, Vaticano e cattolici, pur non ancora normalizzati, progrediscono verso il disgelo, di cui tappa fondamentale sarà il patto elettorale “Gentiloni” siglato nel 1913. I governi liberali e la Chiesa si ritrovano tacitamente concordi nell’assegnare priorità alla formazione civica e morale, entrambi preoccupati del decadimento del costume che si rivela nell’aumento della criminalità (anche minorile) e della prostituzione, nell’allentamento dei legami familiari, nella crescente permeabilità popolare alla propaganda socialista. Non si rinviene, nelle Briciole, alcun richiamo esplicito alla dottrina cristiano-cattolica, il cui insegnamento rimarrà facoltativo (solo su richiesta delle famiglie) fino alla riforma Gentile (1923). Dal discorso religioso tuttavia il testo mutua la semantica: così gli educatori si elevano a «veri apostoli» della civiltà, che esercitano una «ardua e benefica missione», la scuola è un «santuario», un «tempio civile», e «quanto ha di bello la vita» è l’oggetto della fede. La revisione programmatica del 1905 crede ancora nell’insostituibilità di un insegnamento laico ben impostato nella Educazione morale e nei Diritti e Doveri del cittadino, autonome materie finalizzate alla formazione di un cittadino morigerato, lavoratore, obbediente alle leggi, rispettoso dell’ordine sociale, sensibile ai problemi dei bisognosi, che la Starace condensa nella diade «bontà fattiva» . Sono i valori propri dei ceti egemoni nell’Italia liberale, la cui validità è garantita attingendo alle teorie di protagonisti culturali e pedagogici anche molto differenti tra loro, che hanno acquisito titolo di cittadinanza nei programmi di studio delle scuole magistrali. In conformità a tale tendenza, nell’opuscolo si incontrano con continuità espressioni che denunciano il tentativo di contemperare questi eterogenei apporti, non tutti direttamente richiamati da Lucia, se non in un elogio collettivo: «Oh, benedette le figure di quei grandi maestri dell’arte educativa!». Nelle sue riflessioni coabitano la pedagogia spontaneista di Rousseau e la psicologia meccanicistica di Herbart (ispiratrice dei programmi del 1905), lo Spiritualismo francese e il Positivismo nella versione evoluzionistica di Spencer. Evidente il riferimento a quest’ultimo – pur non nominato – nella frequente citazione della triplice dimensione dell’educazione, «intellettuale, morale, fisica». Il lettore può incontrare, associate in varie forme di interazione, espressioni quali «educazione morale indiretta», di chiara matrice rousseauiana; il positivistico aggettivo «razionale» riferito alla didattica; l’attenzione allo «sviluppo intellettivo» accordato con la romantica «educazione del cuore»; infine auspicando, à la Kant, che l’uomo del domani sappia «compiere il dovere per il dovere». In ultima analisi, tale eclettismo pedagogico è finalizzato a «dare all’infanzia il primo alito di vita morale, che poi si cambierà nelle opere meravigliose di grandi ingegni; contribuire alla preparazione dei valorosi soldati, che non indietreggino di fronte al pericolo; preparare quella forte schiera di uomini intellettualmente buoni, che renderanno temuta amata la Patria». In un orizzonte etico che si vuole il più condiviso possibile, il nazionalismo del primo Novecento si accompagna alla categoria positivistica dell’Umanità. «Per la Patria, per l’umanità studiamo e amiamo questo è il monito più simpatico della nuova scienza dell’educazione!».
“Fondamento e coronamento”, a un tempo mezzo e fine dell’opera educativa è l’amore. Non c’è bisogno di ricorrere a programmi informatici di lettura per estrarre la ricorrenza e la rilevanza che questo termine assume nella visione pedagogica di Lucia. L’accezione qui adottata appare prossima all’Eros platonico, quell’essere intermedio tra il sapere e l’ignoranza che, a causa della sua collocazione, è condannato ad una ricerca continua dell’Assoluto, agognato ora come Bellezza, ora bramato come Virtù. È il simbolo della sapienza autentica, che Platone vede impersonata da Socrate. Non a caso nelle pagine di Briciole è l’aggettivo “socratico” a designare la metodologia del dialogo (e in generale del rapporto) tra insegnante e allievi. Platone offre l’immagine dell’ottimo maestro nel Simposio, prendendo ad esempio il comportamento di Socrate. Ad uno dei partecipanti al convito – narra il filosofo – che lo vorrebbe accanto a sé per «essere riempito della sua sapienza», Socrate risponde: «Io sono vuoto come te e come te desidero sapere». Il sapere si alimenta più di domande che di risposte, valorizza più il cammino della meta finale. Ogni maestro degno di tal nome sa come com-muovere l’amore, è in grado di generare quel movimento che in psicanalisi si chiama transfert, senza il quale non ci può essere un reale apprendimento. L’educazione è una scienza – ce lo ricorda spesso Lucia – ma è anche un’arte, intendendo per “arte” la realizzazione di un sapere in un’azione. Per questo implica l’Eros, che è desiderio, piacere, amore. La passione è la madre del pensiero, l’emozione è la madre della conoscenza. Ma passione ed emozioni sono forze piuttosto indocili, non programmabili, eppure indispensabili: se le si programma, si distruggono. L’oggetto del sapere si trasforma in oggetto erotico, il libro in un corpo. L’erotica dell’insegnamento consiste nella trasmissione del desidero di sapere, nell’amore per una mancanza che alimenta il desiderio di acquisizione. Sono le parole, i gesti, gli sguardi dell’insegnante a generare vita .
Ovvio che il pensiero autobiografico di Lucia muova a partire da un modello di insegnante, da lei apertamente identificato in una maestra incontrata la prima volta in cui entra in una classe elementare come assistente. Qui il “cuore” della maestra si rivela nella sua capacità di creare un clima di «amichevole conversazione», di essere «un’artista geniale che attirava col magistero della parola»; quasi «una madre intenta a distrigar conti domestici» che, «istruendo, riesce a educare». Una educatrice capace di saper analizzare ad una ad una le tenere anime per far interagire «i rigidi, austeri principi pedagogico-scientifici con l’arte», simile al sole che ravviva il terreno. Su un’altra dimensione dell’amore viene collocato il ricordo della propria maestra, focalizzato intorno al valore dell’esempio. Il comportamento scrupoloso nell’adempimento dei propri doveri, la personalità virtuosa, dignitosa, paziente, rappresentano un costante «fluido di trasmissione» per gli alunni. In altre pagine, l’insegnante possiede una così delicata sensibilità che «palpita davanti alle manifestazioni dello spirito umano […], si entusiasma davanti al bello, al grande, al buono». La psicologia informerà l’educatore che con l’arte sua propria guiderà i sentimenti degli allievi: per questo è una persona che non deve mai abbandonare gli studi. La sua immagine non dovrà essere offuscata nemmeno nel momento di infliggere un castigo: egli dovrà infatti «rendere manifesto alla scolaresca il forte dispiacere che egli prova». E le numerose difficoltà che incontrerà nel suo lavoro, anziché deprimerlo, quando superate, renderanno «più agevole l’adempimento de’ suoi doveri» e gli faranno sentire, «un giorno più dell’altro, aumentare l’amore verso i suoi educandi».
Ad una siffatta immagine del maestro corrisponde in modo complementare quella del bambino, che è «vita della poesia e vive di poesia», tutto intuizione, fantasia e sentimento, come reciteranno i programmi della Scuola Elementare del 1955.
In un contesto ideologico attiguo al Cuore di De Amicis (riconosciuto da Lucia fra i grandi maestri dell’educazione) – obbligato punto di riferimento letterario per quasi un secolo di vita della scuola italiana – sentimenti quali il rispetto per la sventura altrui, l’ammirazione per le opere virtuose, la pietà per i sofferenti, la venerazione per i vecchi possono essere tenuti insieme e messi in pratica solo da un robusto senso di identità e di appartenenza ad una comunità nazionale. Ne conseguono attività orientate a far comprendere al bambino «ch’egli è parte di un tutto, e i suoi diritti son sì intimamente connessi ai doveri verso la famiglia, la società, la Patria». Le emozioni saranno sollecitate dalla partecipazione dei «bambini alle manifestazioni che tendano all’onore della Patria». Fra tutte le discipline, la Storia assumerà un ruolo guida, stimolando l’ammirazione grazie alla «narrazione delle gesta dei grandi sin dall’antica Roma».
Nello stesso anno di Briciole un’altra professoressa leccese (in servizio presso la cittadina Scuola Normale), Giulia Lucrezi-Palumbo – capofila delle femmes savantes in Terra d’Otranto – pronuncia a Lecce un appassionato discorso . Una conferenza celebrativa, vibrante di toni nazionalistici, che alle tradizionali rivendicazioni associa l’obbligo di risarcimento (avvertito pure da Crispi e da Giolitti) alle vittime dell’aggressione ottomana del 1480, i Martiri d’Otranto. Lucia Starace usa parole più discrete ma non meno convinte: «La presente guerra italo-turca ha riacceso anche nell’animo dei nostri educandi la vivida fiamma del patriottismo, che fa ripetere agli alunni “I bimbi d’Italia si chiaman Balilla”». E, a proposito del valore dell’esempio, racconta con malcelato orgoglio un episodio familiare: «[il nipote di tre anni], guardando la fotografia di mio fratello soldato, riconobbe subito l’immagine dello zio, ed io gli chiesi: dove sta? Il bambino rispose: Dai Turchi per ucciderli. Anch’io ho la sciabola che m’ha comprata papà: quando sarò come lo zio andrò a uccidere tutti i Turchi». Un esempio da imitare secondo la maestra, ovviamente, contraddittorio in un affresco pedagogico improntato all’amore e ai sentimenti più delicati, ma che riflette la mentalità del tempo: senza scomodare D’Annunzio, basterebbe leggere quanto negli stessi mesi scrive Pascoli, il poeta del “fanciullino”, nel discorso La grande Proletaria s’è mossa .
Non poche le esemplificazioni di applicazione del metodo. Fermo restando che il miglior metodo è quello che ogni insegnante costruisce sulla propria persona, è decisa l’opzione della Starace per le metodologie che nel corso dell’ultimo secolo e mezzo si sono denominate “attive”, “induttive, “non direttive”, “euristiche”, contrapposte a quelle “espositive”, “frontali”, “trasmissive”. L’insegnamento/apprendimento deve partire da fatti reali, osservabili, i cui aspetti siano facilmente intuibili dal bambino, le lezioni devono essere “oggettive”, di cose, per usare la terminologia dei programmi vigenti, e sperimentale perché ogni allievo possa replicare l’esperienza. A monte, il rispetto della psicologia infantile, fondata sulla spontaneità e sulla tendenza all’iniziativa personale; a valle, la formazione di esseri consapevoli e responsabili che in qualsiasi lavoro sappiano osservare e riflettere, secondo il modello tracciato dai programmi Gabelli del 1888. Il progetto si realizza compiutamente attraverso il concorso di tutte le attività disciplinari: la Lingua italiana, «simbolo di concordia e di amor patrio», nella quale l’apprendimento mnemonico di poesie ingentilirà l’animo e la lettura espressiva collaborerà alla comprensione del testo. Fondamentale il ruolo della Storia e Geografia d’Italia, che fanno «conoscere e amare la Patria» e «inducono al convincimento che l’onore e la ricchezza del Paese dipendono dalla probità, dall’ingegno, dal lavoro e dal coraggio dei cittadini». L’educazione di «Attenzione, ordine, esattezza e buon gusto» saranno compito precipuo di Aritmetica, Disegno, Canto, Ginnastica e Lavoro (introdotto come materia specifica nei programmi del 1894).
6 – Quale valore di verità? Come leggerlo oggi?
Lucia Starace appartiene alla terza generazione di insegnanti dell’Italia postunitaria, che con le altre precedenti ha rappresentato, nella storia d’Italia, la prima forma di “intellettuale diffuso” sul territorio nazionale. “Finestra sul contesto”, la sua testimonianza ci restituisce spaccati del suo tempo ed è altresì indicativa dei rapporti fra il centro e la periferia del sistema formativo. Più istruita e più consapevole rispetto alle generazioni precedenti, quella operativa nel primo scorcio del XX secolo esprime lo spirito di una Scuola militante, legittimamente orgogliosa delle proprie prerogative e della propria identità. Ad essa però non possiamo chiedere ciò che non può dare ossia la forza dell’originalità pedagogica o una profonda analisi propedeutica ad intenti sociali di tipo radicale. Il suo valore storiografico – parziale come in tutti i documenti – non trova molto conforto a causa delle note gravissime lacune nell’archiviazione scolastica che considera compiti e relazioni oggetti di facile consumo e come tali non sottoposti al vincolo della conservazione. È significativo il fatto che oggi risultano archiviate le carte utili all’uso amministrativo. Tuttavia, grazie al lavoro di scavo dell’ultimo trentennio, siamo in grado di apprezzare l’effettiva funzione della pubblicistica magistrale quale trait d’union fra l’elaborazione pedagogica, gli indirizzi politici, le pratiche didattiche e i fruitori di esse. La fortuna di un libro è in relazione a diversi fattori che agiscono nel tempo: può non esser compreso subito ma valorizzato a distanza di molto tempo o viceversa, magari per ragioni diverse da quelle per cui è stato scritto.
Oggi le scritture degli insegnanti ricevono una più degna considerazione, sia quelle riguardanti il passato che le più vicine a noi, anche da parte di grossi gruppi editoriali. L’Archivio per la Storia dell’Educazione in Italia, fondato a Brescia dal prof. Luciano Pazzaglia nel 1994 (con una consistenza imponente di documentazione scolastica) e l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve di Santo Stefano (Arezzo), istituito nel 1984, con la sua sezione (sia cartacea che digitale) dedicata alle scritture di insegnanti costituiscono le più ragguardevoli raccolte nazionali di beni documentari scolastici in buona parte inediti, segno tangibile del definitivo riconoscimento della loro dignità storiografica . La fortuna editoriale ha arriso a molte opere di insegnanti, che dalla seconda metà del Novecento a oggi hanno utilizzato un più ampio ventaglio di registri comunicativi per inviare messaggi dalla scuola e per la scuola ma pensati per uscire dalle aule. Abbiamo avuto così modo di leggere spontanee scritture bambine antologizzate dai rispettivi insegnanti quali I quaderni di San Gersolé e Io speriamo che me la cavo , coniugate con una particolare attenzione (anche linguistica) a determinate realtà geografiche. La narrativa scolastica si è fatta denuncia sociale nelle Lettera a una professoressa da parte di un osservatore esterno alla scuola pubblica come don Lorenzo Milani , e fattiva proposta di modelli alternativi avanzata nel Paese sbagliato di Mario Lodi e ne Il maestro di Pietralata di Albino Bernardini . Un agile libretto, La grammatica della fantasia di Gianni Rodari è divenuto una sorta di vademecum della creatività scolastica. Toni più leggeri, dall’umoristico all’ironico, senza rinunciare alla denuncia e all’accusa, stemperano la serietà degli argomenti nei libri scritti dai docenti Paola Mastrocola e dal francese Daniel Pennac , ai quali va riconosciuto il merito di aver saputo informare l’opinione pubblica sulle più preoccupanti problematiche della scuola. Accanto o al di fuori rispetto a questa letteratura, si espande una eterogenea galassia multimediale costituita da blog, chat, forum, social, siti dedicati in cui gli insegnanti e altre componenti del mondo scolastico si confrontano, scambiano opinioni e materiali didattici, organizzano eventi, raccolgono petizioni. Oggi, i più alacri nella produzione di documentazione didattica e i più critici sembrano i docenti delle scuole secondarie, che devono fare i conti con le problematiche di una società priva di saldi punti di riferimento. La pubblicistica scolastica, sia che viaggi sui media tradizionali che in rete, parla molto di adolescenti sbandati, di famiglie disgregate, di dissoluzione dei valori comunitari. Da parte sua, la scuola elementare è considerata attualmente, con il conforto di autorevoli pareri internazionali, come il segmento più produttivo e avanzato del sistema formativo italiano. Tuttavia, l’impressione globale che se ne ricava è che spiri un’aria più ottimistica ai primi del Novecento che nei primi due decenni del Duemila. Il realismo con cui Lucia prende atto delle problematiche politiche, sociali, organizzative, psicologiche non diminuisce la serenità del lavoro e la fiducia nella funzione dell’educazione scolastica rimandate dallo scritto, intonato ad un moderato ottimismo.
A mio avviso, il tratto di più sorprendente attualità ravvisabile nello scritto della Nostra è costituito dalla centralità assegnata all’educazione alle emozioni e attraverso le emozioni, da dosare accuratamente a seconda delle variabili formative, età degli educandi in primis. Più funzionale la seconda ad un approccio disciplinare, come comprendere i processi storici attraverso la suggestione del diretto accostamento al passato, ad es. nell’intervista ad un testimone di un avvenimento oppure manifestare curiosità verso le diverse proprietà della terra mediante l’esperienza della coltivazione personale). La prima modalità sfrutta tutte quelle occasioni educative che possano arricchire la conoscenza di sé e delle proprie emozioni, la capacità di esprimerle, valutarle, utilizzarle in base alle caratteristiche personali. Se ne trova anticipazione negli inviti che Lucia rivolge alle proprie allieve davanti a situazioni di vita quotidiana in cui debbano pronunciare giudizi e/o prendere decisioni.
Rispetto ad un secolo fa, oggi noi disponiamo del notevole contributo offerto dalle scienze cognitive, in particolare dalla teorizzazione della “intelligenza emotiva” (IE) dovuta dagli studiosi americani Peter Salovey e John D. Mayer (1990) per essere poi approfondita da Daniel Goleman nel 1997 . Egli l’ha intesa come la concreta possibilità di affiancare l’intelligenza alle nostre emozioni e, di conseguenza, portare la civiltà nelle nostre strade e l’attenzione per l’altro nella vita di relazione. Difatti l’incapacità di esprimere e governare le proprie emozioni è motivo di grave rischio per l’intera società: la cronaca nera odierna abbonda di episodi di aggressività – protagonisti anche adolescenti – scatenati soprattutto dal mancato controllo delle emozioni. “Emozione” rimanda a “sentimento”, due concetti che nel linguaggio comune (e nel gergo pedagogico di Lucia) tendono a confondersi ma che la semantica scientifica tiene distinti. Nel caso dei sentimenti, infatti, la dimensione personale assume maggiore importanza, come più incisiva risulta anche l’influenza del contesto, tanto che le neuroscienze hanno difficoltà a formulare una definizione scientifica di “emozione”. In campo educativo, è utile esplorare le preconoscenze dello studente rispetto alle vicende personali, ottima occasione questa per cominciare a prendere coscienza del processo di costruzione delle conoscenze. Così procedendo, l’azione didattica si dispone non solo alla meta-cognizione, mediante l’analisi delle operazioni mentali implicate nell’occasione, ma anche in senso meta-emozionale, nel richiedere riflessione sulle emozioni coinvolte.
Siamo usciti fuori da un anno e mezzo di isolamento forzato dalla pandemia. La DAD ci ha fatto capire, ove ve ne fosse ancora il bisogno, l’importanza del rapporto umano in presenza, fatto di sguardi, di toni della voce, di uso dello spazio, della stretta di mano e della vicinanza fisica. Si stanno appena abbozzando i costi della scuola a distanza, che pure ha salvato il salvabile, e sono costi enormi in termini di apprendimento, di abilità sociali e di strutturazione della personalità. Superate da tempo i tentativi di gerarchizzazione delle prestazioni cognitive, operati dalle diverse tassonomie educative, Lucia ha indicato chiaramente il percorso che porta da un curricolo esclusivamente razionale ad uno relazionale.
Se una mattina Lucia potesse entrare nelle nostre aule ipertecnologiche stenterebbe a districarsi. Se qualcuno poi tentasse di spiegarle il funzionamento, usando gli anglosassoni termini dell’informatica, la distanza fra noi e lei non si accorcerebbe. Ma la maestra leccese non incontrerebbe alcuna difficoltà a riconoscere quanto accade là dove un adulto e un bambino entrino in rapporto empatico fra loro: l’accensione di una luce sul mondo e per il mondo.