“Stefano e Amanuel”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello

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Stefano a ugghia, Stefano l’ago. Così l’avevano soprannominato a motivo della sua secchezza e della sua alta statura. Stefano non se la prendeva, anzi sorrideva sempre. Ma se era qualche bambina a chiamarlo in quel modo, si vergognava e scappava.
Stefano non aveva famiglia. Era un trovatello.
Lo avevano allevato con il poco che avanzava nelle famiglie che vivevano nella stessa vanedda.
Appena cresciuto, anche se tutto ossa come dicevano gli anziani, si guadagnava da vivere facendo qualsiasi lavoro.
Ora che il padrone l’aveva preso con sé e l’aveva portato a Fossa Stabile, Stefano se la passava da signore. Lavorava sì, ma mangiava e gli avanzava pure il tempo per andare a caccia di lepri con la sua temibilissima fionda.
La vigna di Fossa Stabile era un piccolo paradiso stretto tra il mare e la collina. A perdita d’occhio aranci, mandarini, limoni; degradando verso il mare, i pesanti grappoli dell’uva poggiavano sulla sabbia. Crescevano le migliori qualità di mele, di albicocche, di susine e di fichi. Questi ultimi erano particolarmente apprezzati: neri violacei e affusolati come enormi lacrime del dio Vulcano che ogni anno emergeva dalla profondità della terra.
Stefano era felice quando il padrone gli diceva: “Oggi raccogli la frutta e domani mattina andremo in paese!”
Partivano all’alba con gli asini carichi di ogni qualità di frutta.
Il padrone faceva il giro degli amici e dei creditori e a ognuno lasciava quel ben di Dio e da ciascuno riceveva sempre qualcosa in cambio. La vita scorreva così quando denaro ne circolava poco.
I fichi neri facevano impazzire la zia Rosa e le sue figliole.
Ad una di queste, Stefano lasciava gli occhi.
Si ricordava bene: era la piccola dispettosa Nina che qualche anno prima più di ogni altra lo ingiuriava. Ma ora non osava alzare lo sguardo!
Quella mattina Stefano l’aveva sorpresa mentre ardeva il forno.
Nina si era fatta bella, un viso rotondo come la luna piena. Gli occhi neri brillavano più delle faville che uscivano dal forno, i capelli arrotolati in alto sul capo, le guance di fuoco.
Stefano la guardò e pieno di vergogna riuscì solo a dire: “Ti ho portato i fichi!”
-Sì, lo so, ma ora non posso mangiarli, mi si stempera il forno se lascio!”
Stefano stette ancora un po’, mentre Nina affondava le braccia dentro la bocca del forno e, appena lei si girò, le sorrise e scappò via.
Erano sempre così i loro incontri: gli anni trascorrevano uguali.
Un giorno Stefano le mostrò una illustrazione della Domenica del Corriere: “Vedi, Nina, finalmente ho deciso della mia vita. Voglio arruolarmi e fare il bersagliere come questo”.
E così dicendo, indicava una tavola di Achille Beltrame che raffigurava un coraggioso bersagliere con le piume al vento nell’atto in cui riusciva a mettere in salvo una donna che stava per essere travolta da un cavallo imbizzarrito.
Nina si era limitata a guardarlo senza dire nulla, ma i suoi occhi si erano rattristati.
Qualche tempo dopo, seppe che era partito.
Tutta la vanedda lo festeggiò il giorno in cui tornò in licenza dopo oltre due anni. Ai vecchi, alle donne, ai ragazzi, non importava che Stefano fosse un semplice fante.
Il pensiero di non presentarsi con il cappello piumato da bersagliere lo aveva a lungo intristito durante il viaggio di ritorno. Poi si era fatto coraggio, in fondo anche con la divisa grigioverde da fante sembrava bello. E infatti non finivano più di abbracciarlo, di lodarlo. Facevano a gara per offrirgli un bicchiere di vino, un cannolo, un pezzo di cubaida. Così Stefano entrava e usciva da quelle case che lo avevano visto crescere in fretta.
Qualcuno gli disse che Nina si era maritata con Vanni, lo scarparu e che viveva in un paese vicino.
Non lasciò trapelare nulla dal suo viso, ma il cuore gli si fermò per un istante!
Restò una settimana a girare per il paese, a stringere mani e a scambiare saluti.
Il giorno prima di partire volle andare a vedere la vigna di Fossa Stabile. Glielo avevano detto che non era più quella di allora, ma lui era voluto andare a vedere con i propri occhi.
Trovò il padrone molto invecchiato, che se ne stava seduto davanti alla porta di casa.
–Salutamu, patruni!- disse Stefano, avvicinandosi e accarezzando il cane che gli era corso incontro festante. Ma il vecchio alzò appena il capo e gli rispose con un mugugno.
Guardando attorno quella desolazione gli vennero le lacrime agli occhi. Gli alberi erano aggrediti dalle erbacce, le viti tagliate o stese per terra per mancanza di sostegno. Era un bosco impenetrabile.
Non poté resistere a lungo: andò via deciso a non metterci più piede.
Nina seppe da una sua amica che Stefano era tornato in licenza e che aveva chiesto di lei. Le aveva detto che non faceva il bersagliere, ma il fante. Ed ora era già in viaggio per l’Africa.
Chissà come doveva essere lontana l’Africa! Sicuramente Stefano non sarebbe mai più tornato in paese.
Quando scoppiò la guerra contro il Negus di Etiopia, Stefano aveva già trascorso una decina di anni tra Libia,
Somalia ed Eritrea. Lo avevano fatto anche caporale e tutti gli volevano bene, anche tra gli indigeni.
Passava spesso le sue ore libere dal servizio presso una capanna dove viveva una povera famiglia di eritrei. Con loro gli sembrava di essere tornato alla semplicità della sua gente.
Molte di queste famiglie avevano dimostrato stima e fedeltà verso l’Italia e gli italiani. La grande aspirazione dei giovani era quella di arruolarsi al servizio dell’Italia. I loro reparti, gli àscari, avevano ben figurato in molti scontri e non pochi si erano comportati da valorosi ed erano morti sul campo di battaglia.
A Stefano si era particolarmente affezionato un ragazzo di circa quindici anni, dagli occhi teneri come quelli di una gazzella. Gli aveva regalato una scimmietta che Stefano portava sempre appollaiata sulla spalla e la notte gli dormiva ai piedi del letto.
Amanuel aveva imparato la lingua di Stefano fatta più di dialetto siciliano che di italiano.
La guerra aveva portato l’odio fra le tribù rivali. Molti erano stati costretti ad allontanarsi in posti più sicuri. Ma Amanuel non aveva voluto ubbidire. Lui restava a fianco del suo amico, lo seguiva da lontano quando usciva in pattuglia e qualche volta aveva potuto anche dimostrare la sua abilità e conoscenza del territorio.
Fu durante una perlustrazione che Stefano venne colpito al ventre. Mentre i due compagni di Stefano si lanciavano all’inseguimento del nemico, Amanuel con la disperazione nel cuore si era precipitato sull’amico, gli sollevava la testa e guardava con orrore l’immensa ferita.
Stefano lo guardava con gli occhi sbarrati. Ad un tratto un pensiero attraversò la mente di Amanuel. Egli conosceva da tempo la passione di Stefano per il cappello piumato dei bersaglieri. Nella sua semplicità pensò di farlo felice in quel momento. Raccolse lì intorno alcune lunghe piume di uccelli, ne fece un mazzetto e lo legò al berretto di Stefano. Aggiustandoglielo sul capo gli disse: “Stefano, ora anche tu sei soldato gallina!”
Stefano gli sorrise amaramente. Gli tornava davanti agli occhi quello che era stato il suo mondo di un tempo: il volto di Nina, la vigna di Fossa Stabile, la sua vanedda e tutta la varia umanità che essa conteneva. Poi chiuse gli occhi e non sentì più nulla.
Dall’altra parte del mondo, Nina, urlando di dolore, quel giorno partoriva il suo decimo figliolo. Per tutti gli altri aveva dovuto sottomettersi alla testarda volontà del marito che aveva voluto imporre ai bambini i nomi dei suoi parenti. Ora finalmente i parenti erano stati tutti accontentati e così Nina aveva avuto libertà di scelta: lo avrebbe chiamato Stefano, quel piccolo appena nato!
A pochi mesi dalla morte del suo amico, Amanuel era finalmente riuscito ad arruolarsi. Il suo coraggio e la rigorosa osservanza della disciplina, lo avevano presto portato al grado di buluk-basci (sergente).
Con la sua splendida divisa bianca e la fascia attorno alla vita, con il tarbusc e il fez, a volte andava a trovare i suoi parenti che vivevano in un povero villaggio di capanne; i bambini gli correvano dietro, lo toccavano, gridavano festanti.
Ma quelli erano momenti rari.
Il suo battaglione combatté con grande onore in molte memorabili battaglie a Cheru, sulla Piana di Agordat. Il tricolore italiano era per Amanuel la sua bandiera, l’Italia la sua seconda patria. E in mezzo a tante privazioni, sofferenze, morti e feriti, Amanuel non dimenticava mai il suo amico speciale Stefano, sognando di andare, a guerra finita, a visitare i luoghi dove lui aveva vissuto da ragazzo.
Oltre che per il grande coraggio, Amanuel era apprezzato anche per la sua lealtà. Non avrebbe mai ingannato alcuno, nemmeno per salvare la propria vita.
Quando qualcuno degli àscari veniva catturato, il più delle volte, i nemici etiopi non lo uccidevano, ma lo punivano come traditore, amputandogli il braccio destro e la gamba sinistra. Questa tristissima sorte toccò anche a Amanuel, dopo una sfortunata battaglia.
Era noto agli àscari che in quel caso dovevano presentarsi all’ambasciata italiana. L’Italia, dopo le cure e gli accertamenti, concedeva al ferito le protesi e, a partire dagli anni ’50, una modesta pensione.
Fu così che Amanuel poté realizzare il suo sogno di raggiungere la Sicilia.
Stefano gli aveva descritto accuratamente il paese, la vanedda, la vigna di Fossa Stabile. E lui aveva voluto vedere tutto con i suoi occhi.
Una vecchia, vestita di nero, quando seppe del suo arrivo in paese volle conoscerlo:
“Sapevo che un giorno qualcuno sarebbe tornato a dirmi di lui – disse la donna con gli occhi umidi-tu lo hai conosciuto, il mio Stefano?”
A Amanuel sembrò un miracolo incontrare proprio la donna di cui era innamorato Stefano, la donna di cui parlava spesso nelle notti di calma, quando cessavano i combattimenti. Supini sulla sabbia del deserto guardavano entrambi l’immenso cielo stellato. E Stefano diceva al suo amico: “Quando guardo le stelle, mi viene un groppo alla gola, perché penso a una stella che ho lasciato nella mia terra e che non rivedrò mai più!”
Amanuel provava a rassicurarlo: “ Ma, vedrai che potrai ritornare. Presto non ci sarà più la guerra. Io sogno la pace. Nel cuore ho il desiderio che tutti gli uomini possano volersi bene: tutti dobbiamo saper leggere i segni della presenza di Allah!”
-Tu parli come un saggio, mio giovane amico. Spero che il tuo Allah e il mio Dio ci ascoltino-
Amanuel si innamorò della nostra terra. Ancora oggi vive, quasi centenario, ultimo degli eroici àscari eritrei, in una casa di riposo della Sicilia. La sua memoria è ancora fresca e non si stanca mai di narrare a tutti coloro che vanno a trovarlo la sua straordinaria avventura umana.