IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Stig Dagerman, L’uomo che non voleva piangere, Iperborea 2024, pag. 320. Traduzione dallo svedese di Fulvio Ferrari

Libro

di Marisa Cecchetti

Se i sedici racconti di Stig Dagerman (1923-1954) ci portano storie diverse, narrate ora in prima ora in terza persona, e non manca il flusso di coscienza, tuttavia costituiscono un unicum grazie a determinati aspetti trasversali, tanto da sembrare capitoli di un’unica storia.

Lo scrittore svedese, dalla infanzia drammatica e dalla rapida carriera letteraria a cui pose fine con una tragica morte, trasfonde in questa prosa gli elementi di disagio che talora tormentano l’esistenza: la solitudine,  l’indifferenza, il disamore, il facile rifugio nell’alcool. Lo fa oscillando tra realtà e sogno, quasi ad alleggerire il peso della realtà stessa o a prenderne le distanze in “un guazzabuglio di crudeli mondi di sogno”; crea delle situazioni irrazionali, fantasiose e surreali, che rimandano ad atmosfere kafkiane: “Per evitare qualsiasi confusione, ormai facciamo uso solo di testimoni ciechi. Già molto tempo fa si è capito che era troppo complicato con i testimoni vedenti” dice un giudice che ha in mano una piccola ghigliottina giocattolo, davanti all’imputato.

I suoi personaggi sono schiacciati, perseguitati dalle ingiustizie sociali e della legge, dalle discriminazioni economiche, strumento di divertimento di ricchi crudeli, vivono nell’indifferenza di chi li circonda, si sentono inadeguati al ruolo che ricoprono e all’interno dello stesso gruppo familiare, reclamano un momento di attenzione che li faccia sentire vivi: “Quanto devo rendermi sola perché qualcuno si accorga finalmente della mia solitudine e mi salvi? E butti giù la porta?” L’obnubilamento attraverso la bottiglia di acquavite è la soluzione più frequente: “così alla fine riesco a tirarmi in piedi. Il pavimento però ondeggia da matti, cerco di appoggiarmi al tavolo e faccio cadere un bicchiere. Che cazzo di modo di mettere i bicchieri proprio sul bordo!” L’uomo è affidato alla cecità del destino che talora ha un ghigno demoniaco, ma tutto segue il suo corso.

La sofferenza individuale si rispecchia nell’ambiente, come un correlativo oggettivo montaliano, persino “le strette viuzze sembrano attentare alla vita di Michael, gli si attorcigliano nere intorno alla gola già dolorante”,  e un tram “suonava la campana a morto”; il contesto  è sempre sordido, sporco, sovraccarico di rifiuti: anche le località balneari sono soffocate dalla sporcizia che solo la notte, al largo, è ammorbidita dalla luce lunare tanto da concedere l’illusione che i rifiuti siano scomparsi: “Non c’è limite alla sporcizia” conclude il ragazzo che vende giornali su un battello, giudizio comprensivo di un giudizio morale.

L’abitudine alla sofferenza spinge a individuare i segni del male dovunque, del resto scompare anche la bellezza della primavera, quando si vedono sfilare cortei di uomini col braccio teso, al tempo della guerra di Spagna. Come in una allucinazione, la presenza del male si legge nei segni rossi tracciati sopra i vagoni di un treno che passa, si amplifica il male di esistere e il richiamo a porre fine all’esistenza che si respira tra le righe: “Avrebbe voluto raggomitolarsi in uno degli angoli più nascosti del magazzino, dove c’erano solo i ragni color rosso sangue a incedere maestosi sui tessuti […] affondare la testa in una stoffa profumata e soffocare… sì, perché no? In lui non c’era niente di eroico […] non provava un gran desiderio di rimanere nel mondo solo per poter approfondirne la conoscenza”.

Eppure c’è una individuazione attenta anche della bellezza, una attenzione alla vita che scorre colta nei minimi particolari, nei gesti, nelle parole, nelle descrizioni ambientali, quasi una nostalgia di vita non goduta e impossibile da recuperare –capiva che quella era l’ultima volta che lui avrebbe visto il mare.

La preziosità metaforica, i simboli accostati alla concretezza più dura, portano respiro e aprono alla immaginazione: “Se ne sta lì. Sopra, una nuvola di silenzio. Le tende dormono. Il vento lecca con la sua lingua secca. Un mondo verde. Il silenzio è azzurro e respira”.


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