TRE LIRICHE INEDITE di Vincenzo Fiaschitello
Vincenzo Fiaschitello
Quando Albert Einstein nel 1937 accettò la proposta della Società delle Nazioni di invitare una persona di suo gradimento per dialogare su una questione di grande rilevanza, scelse Sigmund Freud, al quale rivolse le seguenti cruciali domande:
C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?…
Com’è possibile che la massa si lasci infiammare fino al furore e all’olocausto di sé?…
Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?
A queste domande Freud rispose con una memorabile lettera in cui discute a lungo del punto di partenza della questione e cioè della opposizione diritto-violenza, presente sin dalle prime comunità umane, affermando che, sia per gli interessi e l’ingordigia di pochi forti e potenti, sia per le pulsioni proprie dell’uomo di Amore e Odio, di desiderio di Bene e Distruzione, la guerra sembri conforme alla natura e quindi assai poco evitabile.
Ciò nonostante, il grande teorico della psicoanalisi lascia una scintilla di speranza concludendo che il processo di civilizzazione, attraverso il rafforzamento dell’intelletto che comincia a dominare la vita pulsionale e a interiorizzare l’aggressività, può aiutare l’uomo verso il sentiero della pace.
Ma quando ancora si dovrà aspettare? E’ così che ancora oggi la morte si fa beffe degli uomini, potenti e umili, quando scelgono la violenza, l’odio, la distruzione.
Se la morte in pace
Se la morte in pace è agile e sfusa,
sparsa e confusa è in guerra,
col fiato corto e sospeso corre
di casa in casa, tra vie e piazze
incenerite di dolore acuto.
Tutti i nostri, pochi e subito, per mille
e più dei vostri chiusi nelle carceri
o non fermiamo i nostri carri
che scavano solchi e innalzano
detriti dove sepolte a lungo
resteranno le stesse vostre anime malvagie.
Se ne ride la morte tra bandiere
issate o calpestate.
E sono tanti coloro che nella terra
di biblica memoria scaldano lacrime
e odi dall’alba alla profonda notte
anziché pane quotidiano.
Così il canto è morto, il sonno non più
breve e sicuro è mutato in sonno eterno.
Forse che a Betlemme dalla santa culla
non s’alza più la voce, alta e solenne,
dell’amore che dona pace e sana
l’usurato tetto di un mondo chiuso
alla pietà e alla carità fraterna?
Forse, da Betlemme non s’ode più
il monito nunziante: Volete il Tutto
o il Nulla per il futuro che verrà?
L’ora dell’alba
L’ora dell’alba di un giorno
ignoto con materna pena
alla morte in grembo ti pone.
Rannicchiato così, senti
il vento che vuota cuori e menti,
vedi il cielo d’arcobaleno acceso,
ami l’inestinguibile e l’effimero,
sogni ancora la carezza della fanciulla in fiore,
pensi forse alla forza di chi ha versato
versi per una storia a rovescio,
quella che solo i privi di potere
possono scrivere mettendo il cuore
sulle minime tracce del quotidiano
vivere duro e fragile.
Poesia, spirito di amore che ci accomuni
nel raggio di luce che sulle acque brilla,
nel tepore che sale dalla terra,
nel cuore degli umili che ardiscono la pace.
E tu pietra che il fuoco ti fece
non prenderti gioco di me
se dietro il mio passo non lascio
che polvere per il vento d’autunno.
Canto la memoria
Canto la memoria del futuro del passato,
una immagine di solitudine,
premonizione continuata fin nel tempo
presente, tra lo sciacquio di giorni
e di parole che consumano un reale
oscuramente serrato in simboli e metafore.
Così la vita mi resta altra,
incomprensibile costruzione d’altri,
dinanzi alla quale chiusa è la porta.
E l’attesa si fa carica d’ansia
e di rimorso, vertigine e ultimo
approdo nell’infinito silenzio.
Vincenzo Fiaschitello