Trento, dove la storia non va mai in pensione

Trento stemma
di Davide Romano
Se dovessi spiegare Trento a un forestiero, gli direi di non cercarla nelle guide turistiche. Le guide, si sa, hanno quella noiosa abitudine di schedare i luoghi come fossero farfalle da infilzare con uno spillo: questa è gotica, questa è rinascimentale, questa è barocca. No, Trento va presa così com’è, senza etichette. Va guardata con gli occhi di chi sa che, come scriveva Borges, “la storia universale è la storia di alcune metafore”, e Trento di queste metafore è piena fino all’orlo.
Vedete, ci sono città che, con la Storia, ci flirtano. Un po’ sì, un po’ no, un po’ forse. Poi ci sono città come Trento che con la Storia ci sono andate a letto e non hanno mai smesso di farlo. L’hanno presa, l’hanno masticata, l’hanno digerita e ne hanno fatto parte del proprio sangue. “La storia non è magistra di niente che ci riguardi. Non illumina nemmeno il presente, se non per vigliaccheria” scriveva il mio amico Sciascia. Ecco, Trento questa lezione l’ha imparata: non usa il passato come stampella, ma come specchio.
Nominatemi un’altra città che, incastrata come un sasso nella scarpa tra l’Italia e l’impero asburgico, sia riuscita a non farsi schiacciare, anzi, a prosperare. Trento è stata romana quando i romani contavano qualcosa, poi longobarda, poi medievale, poi rinascimentale. È stata italiana quando conveniva esserlo e austriaca quando non c’era altra scelta. “La geografia è un destino”, diceva Napoleone, che di destini se ne intendeva. Ebbene, Trento questo destino l’ha preso e l’ha rivoltato come un guanto.
Mi direte: ma è un’opportunista, questa città. E io vi risponderò: e quale città non lo è? Solo che Trento lo fa con stile. Con quella classe che, come sosteneva Talleyrand, “non è una cosa che si impara; o ce l’hai o non ce l’hai”. E Trento ce l’ha, eccome.
Prendiamo il Concilio. Per diciotto anni, dal 1545 al 1563, questa città che normalmente non alzerebbe la voce neanche per chiamare un taxi è diventata il centro del mondo cattolico. Da qui sono partite le cannonate teologiche contro Lutero e compagni. Da qui è partita quella che i manuali di storia chiamano, con la solita pedanteria accademica, la Controriforma. Come ha scritto Hannah Arendt, “le ideologie sono sistemi esplicativi che promettono di spiegare ogni cosa”. E a Trento, in quei diciotto anni, di sistemi esplicativi ne sono stati prodotti a vagoni. Ogni pietra di questa città sembra ancora risuonare dei battibecchi tra cardinali, delle dispute tra teologi, dei sofismi dei dottori della Chiesa.
Ma non pensiate che Trento sia rimasta impigliata in quelle pieghe del tempo. No, questa è una città che ha sempre saputo guardare avanti, pur tenendo un occhio sul retrovisore. “Il futuro entra in noi molto prima che accada”, sosteneva Rilke. E Trento sembra aver fatto sua questa massima. Guardate l’università: un centro di eccellenza in un paese, l’Italia, dove l’eccellenza è spesso una parola vuota, buona per i discorsi ministeriali. Qui, invece, si studia sul serio. Qui la cultura non è un soprammobile da esibire nei salotti buoni, ma una cosa viva, che morde, che provoca.
Il Castello del Buonconsiglio si erge sulla città come un vecchio padrino che tutto ha visto e tutto ha perdonato. Le sue mura massicce, i suoi affreschi, i suoi cortili raccontano di un’epoca in cui i principi-vescovi governavano con il pastorale in una mano e la spada nell’altra. “Il potere corrompe, ma il potere attrae ancora di più”, scriveva Kapuściński. E a Trento il potere ha avuto facce diverse, ma sempre la stessa essenza: un mix di pragmatismo e visione, di concretezza e sogno.
Passeggiando per le vie del centro storico, con quei portici che sembrano fatti apposta per riparare i pensieri dalla pioggia, si avverte una strana sensazione: qui il tempo non scorre, ma si deposita. Strato su strato, secolo su secolo. Come diceva Marguerite Yourcenar: “Costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre”. Ecco, Trento è un paesaggio umano in cui ogni generazione ha lasciato il proprio segno senza cancellare quello precedente.
Piazza Duomo, con la Cattedrale di San Vigilio che sembra sempre sul punto di spiccare il volo, è un salotto a cielo aperto. Qui i trentini vengono a leggere il giornale, a prendere un caffè, a scambiarsi pettegolezzi o a discutere di politica. “Una piazza è democratica solo quando è viva”, sosteneva Renzo Piano. E questa piazza è viva dal mattino alla sera, estate e inverno, con la neve o sotto il sole. La Fontana del Nettuno, con quel dio marino così fuori posto tra le montagne, sembra un’ironia della storia: qui, a centinaia di chilometri dal mare, c’è un dio che regna sulle acque. Ma forse è proprio questo il fascino di Trento: la capacità di rendere possibile l’impossibile.
E poi c’è la natura. Montagne, boschi, valli, il vicino Lago di Garda. Trento è incastonata nel paesaggio come un diamante in un anello. Non domina la natura, convive con essa. “La natura è un tempio dove colonne viventi lasciano talvolta sfuggire confuse parole”, scriveva Baudelaire. E qui, a Trento, quelle parole sembrano più chiare, più distinte. La città si arrampica sui fianchi delle montagne, si sporge sulle valli, dialoga con i boschi. Non c’è quella separazione netta tra urbano e rurale che caratterizza tante città moderne. Qui, in pochi minuti, si passa dal caffè in piazza alla passeggiata tra i larici.
È questa duplicità che rende Trento così speciale. È italiana eppure mitteleuropea, cattolica eppure laica, antica eppure contemporanea. “L’identità è una gabbia, e la propria nazionalità è solo un accidente”, sosteneva Pessoa. Ebbene, Trento ha fatto di questo accidente una virtù. Ha preso la propria posizione geografica e culturale di confine e l’ha trasformata in un punto di forza.
Certo, non è una città perfetta. Ha i suoi problemi, come tutte. Le periferie non sono sempre all’altezza del centro storico, il traffico può essere caotico, e l’inverno è lungo e rigido. Ma come diceva Ennio Flaiano, “in Italia i problemi si risolvono per stanchezza”. E Trento, con la sua pazienza montanara, ha imparato a gestire i problemi senza farsi sopraffare da essi.
“Le città sono come le donne”, scriveva Calvino, “si innamorano di chi le sa ascoltare”. E Trento è una città che parla sottovoce, che non urla le proprie bellezze, che non si impone all’attenzione del visitatore con l’arroganza di Venezia o la monumentalità di Roma. No, Trento si fa scoprire lentamente, si svela a chi ha la pazienza di corteggiarla, di conoscerla, di amarla.
Non è una città per turisti frettolosi, per chi vuole fare fotografie e poi scappare. È una città per viandanti, per chi sa che, come diceva Kundera, “la vita è altrove, ma l’altrove è qui”. E questo “altrove” trentino, questo angolo d’Italia che non è mai stato completamente italiano, questa enclave mitteleuropea che guarda al Mediterraneo, ha un fascino discreto ma persistente.
Se dovessi consigliare un modo per capire Trento, direi: perdetevi nelle sue strade. Lasciate la cartina in albergo e camminate senza meta. Entrate in un caffè e ascoltate le conversazioni. Fermatevi in un’osteria e assaggiate i canederli, quel piatto così tirolese eppure così trentino. E poi, solo poi, tornate ai monumenti, alle chiese, ai musei. Perché Trento è prima di tutto un’atmosfera, un modo di vivere, un equilibrio tra passato e futuro.
Come scriveva Piovene nel suo “Viaggio in Italia”: “Trento è una città composta, che evita le esagerazioni”. Ed è proprio così: qui nulla è eccessivo, nulla stona, tutto sembra al posto giusto. In un paese, l’Italia, dove spesso regna il caos creativo, Trento rappresenta un’isola di ordine che però non scade mai nella rigidità.
In fondo, come sosteneva Montaigne, “il valore di una città non si misura dalla sua estensione o dalla sua ricchezza, ma dalla qualità umana che essa esprime”. E Trento esprime una qualità umana rara: la capacità di guardare al futuro senza rinnegare il passato, di innovare senza distruggere, di cambiare rimanendo se stessa.
E se tutto questo vi sembra poco, allora non avete capito niente di Trento. E, forse, nemmeno dell’Italia.