IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Trump, la guerra come diversivo: il debito pubblico come vero campo di battaglia

Debito pubblico americano

di Pompeo Maritati

A pochi mesi dal nuovo insediamento presidenziale, Donald Trump sta portando avanti una linea politica tanto muscolare quanto incoerente con le promesse della sua campagna elettorale. L’uomo che si era presentato nuovamente come il “pacificatore patriottico”, pronto a risollevare la grandezza economica dell’America e a chiudere con le guerre infinite, oggi si trova a governare un Paese con il debito pubblico più alto della sua storia, un mercato del lavoro in fase di rallentamento e una reputazione internazionale sempre più compromessa. Ed è proprio in questo contesto di difficoltà interna che prende forma quella che appare ormai come una strategia di distrazione di massa: alimentare tensioni belliche e rilanciare progetti geopolitici improbabili, per spostare lo sguardo degli americani e del mondo da ciò che più dovrebbe preoccupare: la stabilità economica e finanziaria degli Stati Uniti.

Secondo i dati aggiornati al 2025, il debito federale americano ha superato i 36.000 miliardi di dollari, equivalenti a circa il 123–124% del PIL. Una soglia che, in tempo di pace, rappresenta una vera e propria anomalia storica. Il costo del solo servizio del debito (cioè il pagamento degli interessi) supera ormai i 1.000 miliardi l’anno, cifra superiore all’intera spesa per la difesa. In un contesto in cui la crescita economica rallenta, l’occupazione si stabilizza ma senza slancio, e il deficit commerciale si mantiene strutturale (con circa 87 miliardi di dollari di squilibrio solo nel mese di aprile), il debito non è più soltanto una questione di bilancio federale: è una questione di sopravvivenza del modello americano stesso.

Sebbene il tasso di disoccupazione sia ancora moderato (4,2%), il numero di nuovi posti di lavoro creati sta rallentando. Il settore manifatturiero soffre, penalizzato dalla debolezza della domanda interna e dall’incertezza sulle catene di approvvigionamento. Allo stesso tempo, il deficit commerciale con la Cina e altri partner strategici continua a gonfiarsi. La bilancia dei pagamenti americana non riesce a riequilibrarsi, segno che le misure protezionistiche adottate nel primo mandato di Trump e oggi parzialmente ripristinate,  non hanno prodotto gli effetti sperati.

È in questo scenario economico poco brillante che si inseriscono le derive più pericolose della politica trumpiana: il ritorno all’unilateralismo aggressivo e la ripresa di una retorica bellica che sembra fatta apposta per infiammare l’opinione pubblica e occultare le crepe interne.

Trump ha rilanciato la storica (e grottesca) proposta di “acquisto” della Groenlandia, sostenendo che l’isola artica avrebbe una “valenza strategica fondamentale per la sicurezza energetica americana”. Un’altra voce parla addirittura di un’operazione politico-militare su Panama, giustificata ufficialmente dalla necessità di proteggere il Canale da ingerenze cinesi. Ma è evidente che si tratta di manovre ideologiche più che realistiche, atte ad accendere i riflettori mediatici su fronti lontani per oscurare le fiamme che divampano sotto casa.

In Medio Oriente, la posizione della Casa Bianca si è fatta sempre più intransigente a favore di Israele, anche di fronte a episodi condannati dalla comunità internazionale. Il pieno appoggio alle operazioni militari nella Striscia di Gaza, con migliaia di civili palestinesi uccisi, ha suscitato indignazione tra gli alleati europei e alzato nuovi livelli di tensione con Paesi arabi moderati. Trump ha risposto accusando le ONG e l’ONU di parzialità e ha promesso nuove forniture militari a Tel Aviv. Tutto questo mentre il mondo attendeva da Washington un gesto di moderazione, un passo verso la diplomazia. E invece ha avuto la riproposizione dello schema di sempre: alzare la voce, mostrare i muscoli, invocare il diritto alla “legittima difesa preventiva”.

L’altro pilastro dell’azione trumpiana, il ritorno ai dazi e alle barriere commerciali, viene riproposto come strumento per “rilanciare l’economia americana”. Ma è davvero così? O si tratta dell’ennesima cortina fumogena per guadagnare consenso a basso costo?

L’analisi dei dati ci dice che i dazi non hanno rilocalizzato in modo significativo la produzione industriale. Al contrario, hanno aumentato i prezzi interni, ridotto la competitività e alimentato frizioni con partner strategici. Eppure, Trump continua a vendere questa misura come un’arma vincente, perché fa leva sul bisogno di protezione che molti lavoratori,  colpiti dalla deindustrializzazione e dalla crisi post-Covid, sentono ancora oggi.

Tutte queste mosse, il rilancio del nazionalismo economico, le provocazioni geopolitiche, l’appoggio incondizionato a Israele,  servono una funzione precisa: spostare l’attenzione da dove realmente dovrebbe essere, cioè sull’insostenibilità del debito federale. Trump sa che non può risolvere questa crisi, né ha mai mostrato una reale volontà di farlo. Durante il suo primo mandato, ha ridotto le tasse alle imprese e aumentato la spesa pubblica, accrescendo così il deficit. Ora, di fronte a un contesto internazionale instabile e a una crescita americana zoppicante, si affida alla politica dello shock, sperando che l’eccitazione collettiva per nuovi “fronti caldi” tenga lontani gli elettori dalle domande che contano: Come ridurre il debito? Come rilanciare l’occupazione vera? Come sostenere la produttività e la coesione sociale?

Ma questa strategia ha un prezzo. Se il debito continua a crescere e i tassi restano alti, gli Stati Uniti rischiano un collasso fiscale lento ma inesorabile. Le agenzie di rating lo hanno già fatto capire: il declassamento di Moody’s non è una formalità, ma un avvertimento. I rendimenti dei titoli di Stato saliranno. Gli investitori, specie esteri, potrebbero cominciare a chiedersi se il dollaro resta davvero un porto sicuro. E intanto il sistema sociale americano, già minato dalle diseguaglianze, dal precariato e dai problemi sanitari, continuerà a indebolirsi.

In campo geopolitico, il ritorno al unilateralismo trumpiano isola Washington dai suoi alleati. L’Europa guarda con crescente diffidenza. I Paesi emergenti si avvicinano alla Cina e alla Russia. E le tensioni militari rischiano di sfociare in nuovi conflitti, alimentando esattamente ciò che Trump prometteva di evitare: l’instabilità globale.

Conclusione

Il secondo mandato di Trump si sta rivelando una replica amplificata del primo, con meno freni, meno diplomazia, e una visione miope che usa la forza e la paura come strumenti principali di governo. Tutto questo, però, non risolve il nodo centrale: l’insostenibilità economica e sociale del sistema americano, schiacciato sotto il peso di un debito fuori controllo, di una società polarizzata e di una leadership che preferisce il rumore della propaganda al silenzioso lavoro delle riforme.

La retorica delle “acquisizioni” (Groenlandia, Panama), i proclami contro le potenze ostili, i dazi esibiti come trofei, sono solo maschere ideologiche, che servono a coprire il vuoto di una politica incapace di affrontare le vere sfide. E, come spesso accade nella storia, quando si preferisce la cortina fumogena alla verità, il prezzo si paga in termini di credibilità, di coesione interna e,  nei casi peggiori, della pace.

Oggi il vero nemico degli Stati Uniti non è fuori dai confini. È dentro, nascosto tra le pieghe della sua economia drogata, della sua diplomazia azzerata, della sua coscienza addormentata. Ed è lì che andrebbe combattuta la battaglia più importante. Non con le armi, ma con il coraggio della verità.


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