Tutta colpa di Madonna (o forse no). Dall’allusione alla nudità: l’eclissi del senso nell’era dell’ostensione
Tutta colpa di Madonna (o forse no). Dall’allusione alla nudità: l’eclissi del senso nell’era dell’ostensione
di Simona Mazza
C’era un tempo in cui il desiderio viveva nella distanza e la musica ne custodiva il respiro segreto. Si ascoltavano le canzoni fino a consumare i nastri delle musicassette, attendendo che la radio riproponesse il brano amato. In quel clima, la sensualità non nasceva dallo svelamento ma dalla sospensione, un alfabeto di ombre e luci capace di accendere la fantasia più del corpo esibito. In pratica, l’eros non coincideva con un gesto isolato, bensì cresceva come racconto nella mente di chi ascoltava. Bastava un movimento accennato, una camicia appena sbottonata, la voce che vibrava su una nota lunga per dare fuoco all’immaginazione. Erano indizi che non mostravano tutto eppure dicevano moltissimo. Così la musica conservava un corpo, ma non ancora quella carne nuda che, più avanti, avrebbe travolto la scena
Le radici del desiderio — la fine dei Settanta, prima “dell’avvento della Madonna”

Per capire dove siamo arrivati conviene tornare a quella soglia tra rito e rivelazione che segna la fine dei Settanta. È qui che James Brown mostra la faccia più terrena e insieme più sacrale del desiderio. In It’s a Man’s Man’s Man’s World (1966) la voce ruvida, il sudore e il respiro che diventa ritmo trasformano la passione in atto quasi liturgico. La sensualità tenta di trascendersi senza mai scadere nel volgare; non imita il desiderio, lo celebra. L’uomo in scena appare come un predicatore del corpo e della sua febbre, un sacerdote del ritmo che fa della carne un tempio.
Pochi anni dopo, la sensualità prende un’altra direzione, più aerea che carnale. Con Wuthering Heights (1978), Kate Bush fa esistere l’eros nell’invisibile. Quel “Heathcliff, it’s me, Cathy…” è un soffio che accarezza senza toccare. Il desiderio, con lei, si immagina prima ancora di mostrarsi: trova spazio nell’enigma e nella poesia. Basta la voce, e il mondo interiore si accende. La delicatezza, consapevole di sé, diventa più provocante della nudità.
Dalla disco alla misura — l’imbocco degli Ottanta
Su questo terreno nasce l’inizio degli anni Ottanta, quando la seduzione smette di affidarsi all’esibizione e preferisce l’equilibrio. La cultura pop conserva il valore dell’attesa, quel respiro sospeso che precede il gesto, e chiede agli artisti di costruire un linguaggio fondato sulla misura: una vera educazione del corpo e, insieme, dello sguardo.
Donna Summer, già alla fine del decennio precedente, incendia la pista senza svuotarla di senso. In Love to Love You Baby (1975) e Hot Stuff (1979) il ritmo diventa preghiera, la carne trova forma, il corpo non è oggetto di consumo ma altare in movimento. Non si offre allo sguardo compiaciuto, lo guida. L’energia è disciplinata e rimane tale anche quando la temperatura sale.
In continuità con questa linea si muove Amii Stewart, che nel 1979 con Knock on Wood spinge la sensualità verso la teatralità, ma senza mai perdere grazia e compostezza. Ogni sua esibizione somiglia a un rito danzato, dove il gesto prolunga la voce. Il piacere resta condiviso, mai mercificato: il corpo dialoga con la musica e non con il mercato. Questo passaggio conduce naturalmente alla stagione successiva.
L’ultimo equilibrio spettacolare — la prima Cher
Intanto, tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta, entra in scena la prima Cher, ancora lontana dai codici dell’iper–spettacolo. In lei l’audacia convive con la disciplina e l’immagine diventa parte di una narrazione coerente. I costumi scintillanti e le apparizioni televisive non cercano lo shock fine a sé stesso, ma seguono una direzione estetica riconoscibile. L’erotismo è più esplicito, ma rimane governato dalla consapevolezza scenica. Ogni gesto appartiene a una drammaturgia, ogni posa ha una funzione narrativa. Con lei, l’eccesso è ancora racconto e non abitudine: l’ultimo equilibrio prima che lo spettacolo travolga la misura.
L’eleganza della misura — il cuore degli Ottanta
Nello stesso orizzonte si colloca Sade, che incarna la versione più intellettuale e rarefatta di quell’equilibrio. In Smooth Operator (1984) e The Sweetest Taboo (1985) la linea vocale intreccia malinconia e desiderio, ma non si concede del tutto: resta promessa trattenuta. Nulla è gridato, nulla è compiaciuto. La sensualità respira insieme al tempo e preferisce il non detto.
Persino una band apparentemente distante dal linguaggio erotico, come i Simple Minds, riesce a generare tensione. Jim Kerr, giacca aperta e pelle nuda sotto, unisce eleganza e istinto. Non servono pose estreme: basta inclinare il capo, indugiare un passo, e il rigore diventa magnetismo. L’eros prende corpo nella distanza tra candore della pelle e ombra dell’abito, là dove si nasconde il mistero.
Tina Turner — la fiamma che illumina
Su questo sfondo si accende la figura di Tina Turner. Il suo corpo non è materia inerte, ma energia morale che dalla ferita trae autorità. Non chiede approvazione: la impone. Un ruggito, una spalla scoperta, un ginocchio che scatta, e il pubblico non guarda più: viene travolto.
Quando canta A Change Is Gonna Come di Sam Cooke, la promessa di riscatto diventa collettiva. “I was born by the river” non è solo un verso, ma l’annuncio di una rinascita erotica e spirituale. Ogni passo traduce un’emancipazione concreta. Le sue gambe leggendarie non sono compiacimento, ma radici piantate nella terra. Con lei, il ponte tra la politica del corpo dei Settanta e la mediatizzazione degli Ottanta resta intatto e, soprattutto, conserva il mistero.
L’irruzione di Madonna — il corpo prende la parola
A quel punto il quadro è pronto per l’arrivo di Madonna, che non cambia solo i suoni ma il modo stesso di pensare il corpo. Fino a quel momento la donna, nel pop, è stata ornamento o musa. Lei non vuole essere vista: vuole guardare e dirigere lo sguardo.
Il suo immaginario attraversa con lucidità il confine tra sacro e profano. Crocifisso al collo, pizzi, rosari, rossetto acceso: nulla è citazione gratuita. Quando indossa il corsetto conico di Jean Paul Gaultier, il messaggio supera la provocazione. Quel busto protegge e afferma, trasforma il seno da simbolo di possesso a dichiarazione d’identità. In una cultura ancora governata dallo sguardo maschile, la vera sovversione consiste nel prenderne il controllo.
La prima stagione di Madonna — Like a Virgin (1984), Material Girl (1985), Like a Prayer (1989) — accosta ciò che sembrava inconciliabile. Erotismo e spiritualità, capitalismo e libertà, fede e dissacrazione convivono senza cancellarsi. La trasgressione non è capriccio, è scelta. In un’epoca in cui il femminismo di seconda ondata mostra crepe e l’industria reclama corpi da pubblicità, lei trasforma la frattura in linguaggio personale. Non è soltanto regina del pop, è performer consapevole di essere testo vivente.
Col passare del tempo, però, la trasgressione si fa routine, la forza simbolica si affievolisce, la provocazione diventa formula. L’eros politico lascia spazio alla pornografia estetica. Eppure la sua eredità resta decisiva: senza di lei, il corpo femminile difficilmente sarebbe diventato soggetto linguistico.
Dal simbolo alla formula — la normalizzazione industriale
Col tempo, come accade a ogni rivoluzione, anche questa perde sangue. L’industria ne intuisce la forza commerciale e la normalizza. La ribellione diventa mestiere, la trasgressione si fa abitudine. Così, quando la necessità storica cede il passo al copione, il gesto si svuota. Il corpo torna immagine e la libertà, svuotata di senso, si riduce a posa. L’emancipazione, nata come diritto di mostrarsi, si rovescia nel dovere di mostrarsi sempre.
La cultura dell’eccesso — il ciclo americano
Negli Stati Uniti, quella che era stata una rivoluzione estetica si trasforma rapidamente in formato industriale. Il videoclip diventa Bibbia visiva, tutto accelera, tutto si semplifica, tutto si meccanizza. Twerk, orgasmi simulati, pose esasperate sostituiscono il mistero con l’ostentazione. Il messaggio cambia direzione: non più “sono libera”, ma “sono visibile”. La spontaneità si organizza in strategia e la ribellione diventa algoritmo. La donna emancipata smette di essere soggetto che crea e assume il ruolo di icona che vende.
L’Italia che rincorre — imitazione e svuotamento
Nel frattempo, in Italia, il modello americano viene assorbito con zelo imitativo. La televisione privilegia la presenza scenica al talento; il corpo diventa requisito narrativo e il pudore un difetto. Trap e pop femminile adottano la formula statunitense, ma svuotata di stratificazioni simboliche. In nome di un femminismo di superficie, l’esposizione si traveste da libertà, ma dietro il costume rimane il controllo. Risultato? L’autonomia proclamata si trasforma in prestazione continua. L’emancipazione, senza fondamento etico, scivola nella routine di mercato. Le donne degli Ottanta rivendicavano la complessità; oggi molte sono costrette alla semplificazione. È il femminismo spettacolare, quello che scambia la ribellione con la posa.
Angelina Mango — il talento consumato
Dentro questo meccanismo, la parabola di Angelina Mango risulta emblematica. Giovane, autentica, voce riconoscibile e scrittura ancora fragile, conquista Sanremo e approda all’Eurovision. Il simbolo si accende subito, ma evapora altrettanto in fretta. L’ecosistema della visibilità non concede sedimentazione: l’ascesa rapida chiama una rapida dissolvenza. Il confronto con il padre, inevitabile, rende evidente la distanza fra epoche. Lui proveniva da una stagione che concedeva respiro alla musica; lei abita un presente che consuma ciò che produce. Il talento non manca, ma viene consumato. La macchina mediatica non le permette di diventare artista, la trasforma in immagine. E quando l’immagine prende il posto della voce, ciò che resta non è più canto, ma eco.
Alda Merini — la verità del limite
A ricordarci la misura perduta interviene Alda Merini. “Tutti sanno fare l’amore, ma pochi sanno amare”, scriveva. L’eros, come l’arte, vive nella parte invisibile, quella che lo sguardo non afferra subito. Senza mistero non nasce desiderio e senza pudore non c’è profondità. Abbiamo scambiato la libertà con la sua caricatura, confondendo rivelazione ed esibizione. Mostriamo tutto perché abbiamo smarrito il dire. La nudità non è più atto di coraggio, è abitudine. Il corpo, senza linguaggio, diventa rumore visivo, luce che abbaglia e non parla.
La libertà che si svuota — una diagnosi
La traiettoria che dai Settanta porta a oggi non descrive un progresso lineare: racconta una sottrazione. Abbiamo perso la distinzione fra sensualità ed esibizione, fra erotismo e pornografia, fra presenza e marketing. Madonna, in un paradosso che solo i grandi simboli sanno generare, ci ha liberati e insieme ci ha lasciati orfani del mistero. La libertà autentica non coincide infatti con l’assenza di limiti: nasce dalla coscienza del limite. Solo dentro un confine prende vita la tensione, e dalla tensione scaturisce significato. Tina Turner, Sade, Donna Summer — e molte altre — lo avevano capito bene. La loro forza non stava nel mostrarsi ininterrottamente, ma nel farsi ricordare.
Tornare a dire, non solo a mostrare — una proposta
Se non è tutta colpa di Madonna, una parte della responsabilità ricade su di noi, che abbiamo smesso di cercare il senso dietro la forma. L’eros non vive nel gesto estremo, ma nella scintilla trattenuta. La libertà non è obbligo di spogliarsi, è possibilità di scegliere come farlo. Ritrovare la misura non significa retrocedere, ma restituire profondità al visibile. Quando l’immagine torna a unirsi al pensiero, il corpo ricomincia a parlare. E la musica, dopo tanta ostensione, torna finalmente a dire qualcosa.