IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Una realtà che grida: Palestina, l’indifferenza che uccide

L'ONU

l'ONU

di Zornas Greco

Non occorre schierarsi, per sentire il dolore. Non serve entrare nella complessa rete di rivendicazioni storiche e politiche per vedere, giorno dopo giorno, scorrere un fiume di sangue che nessuna coscienza dovrebbe ignorare. In Palestina, da mesi ormai, si consuma una tragedia umanitaria che scuote nel profondo ogni animo onesto. Si discute se ciò che sta avvenendo sia o meno un genocidio, si moltiplicano le dichiarazioni, le risoluzioni, le interviste, ma intanto bambini, donne, anziani muoiono. Muoiono sotto le bombe, muoiono di fame, muoiono di sete, muoiono semplicemente perché si trovano nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Ma quel posto è la loro casa. E quel momento è ogni giorno.

C’è chi invoca il diritto alla difesa, chi ricorda il terrorismo, chi condanna l’occupazione. Eppure tutto questo, per un attimo, deve tacere. Perché di fronte a un bambino sventrato dalle esplosioni, a una madre che stringe al petto un figlio ormai freddo, a una fila di profughi disperati senza pane né acqua, non c’è ideologia che tenga, non c’è ragione che giustifichi. Ci sono solo vittime. E l’umanità che, se tace, è complice.

Le immagini che giungono da Gaza e da altre zone colpite sono insostenibili. Quartieri rasi al suolo, ospedali che non hanno più medicine, convogli umanitari che non riescono a passare. Non è più solo guerra: è assedio, è fame, è annientamento progressivo di una popolazione intera. La morte non fa domande sulle appartenenze. Prende tutti, indiscriminatamente. E il bilancio è ormai spaventoso. Decine di migliaia i morti, la gran parte civili. E ogni giorno che passa, le cifre si aggiornano verso l’alto, come se fosse un bollettino meteorologico, come se fosse normale.

La comunità internazionale? Sembra aver voltato lo sguardo. Qualche dichiarazione, qualche voto in Consiglio di Sicurezza, molte parole, pochissime azioni. Troppo deboli le proteste, troppo timidi gli appelli. E intanto, in nome di un presunto equilibrio diplomatico, si lasciano cadere le bombe. Si muore nell’indifferenza. E questo, più della guerra stessa, è l’orrore più grande.

Perché la politica, con i suoi compromessi e i suoi interessi, ha preso il posto dell’etica. Perché i grandi della Terra sembrano avere paura di disturbare le lobby, di turbare equilibri economici e strategici. Ma se l’equilibrio si paga con la vita di bambini e madri, è un prezzo inaccettabile. E chi tace, chi si astiene, chi prende tempo, è colpevole tanto quanto chi preme il grilletto o sgancia l’ordigno.

Non si tratta di stare con qualcuno contro qualcun altro. Si tratta di stare con la vita contro la morte. Con l’umanità contro la disumanità. Di riconoscere che la vita di un bambino palestinese ha lo stesso valore di quella di un bambino europeo, americano, israeliano o africano. Che i diritti umani non sono un privilegio da concedere in base alle convenienze, ma un fondamento da difendere sempre, ovunque, comunque.

Quella che si sta scrivendo in questi mesi sarà ricordata, temo, come una delle pagine più oscure dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Non solo per la portata della distruzione, ma per la fredda assuefazione del mondo. Per quella rassegnazione che non grida più, che non si indigna più, che non scende in piazza come una volta, come se la sofferenza altrui fosse ormai parte del paesaggio quotidiano. Un disastro umanitario trasformato in cronaca di routine.

E intanto, le madri continuano a seppellire i figli. I bambini continuano a nascere sotto le bombe. I vecchi continuano a morire soli, senza cure, senza voce. Intere famiglie scompaiono in un’esplosione, i nomi cancellati, le case ridotte a polvere, i sogni sepolti. Un popolo intero sopravvive, giorno dopo giorno, in un limbo senza futuro.

Tutto questo, semplicemente, non può essere accettabile. Non da una civiltà che si dice evoluta. Non da un’Europa che si fonda sui diritti. Non da un’ONU che dovrebbe proteggere i più deboli. Non da nessuno di noi.

Non servono altre parole. Servono corridoi umanitari veri. Servono cessate il fuoco reali. Serve la fine dell’embargo. Serve la ricostruzione, la giustizia, la dignità. E serve, prima di tutto, uno scatto morale. Un sussulto di coscienza collettiva. Perché la storia, domani, chiederà conto a ciascuno di noi. E non ci saranno giustificazioni. Ci sarà solo il giudizio delle future generazioni, che si chiederanno come abbiamo potuto lasciar accadere tutto questo.

E forse, alla fine, questo è il punto più tragico: che ci siamo abituati all’orrore. Che la vita, la vita vera, quella fragile e sacra, ha perso di valore nel frastuono delle armi e nel silenzio delle istituzioni. E quando la vita non vale più, allora non c’è più umanità.

Occorre gridarlo, adesso. Prima che sia troppo tardi. Prima che restino solo macerie, e nessuno più a piangere.


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