IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Il Male di vivere, Eugenio Montale e noi

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Eugenio Montale

di Gian Piero Stefanoni

Il male di vivere in luogo di una condizione umana precaria, e nella frattura di una realtà e di un assoluto conoscibile se non per brevi lampi, è al centro di una poesia dagli esiti più alti dell’intero novecento.

Lontano dagli squilli delle avanguardie, fedele a una tradizione entro la quale può muoversi solo per negazioni, la risposta è in un’aderenza di attiva disperazione nell’era dell’orrore dell’uomo per se stesso che trova nella parola il correlativo oggettivo di un universale ferita e la testimonianza di vita del simbolo nello scabro paesaggio del moderno.

Nello scacco della coscienza, nella forma, il dire poetico si lega dapprima nel dialogo interiore con le cose alla varietà lirica del timbro fino all’essenzialità pensosa delle significazioni e a un abbassamento realistico della lingua; a un’inquietudine espressiva diremmo inseguita poi entro la chiarezza di un dettato non più metafisico ma concreto  di un contemporaneo di alienazione e perdita. Nell’impossibilità di cogliere certezze il verso finisce col procedere così nella resa emotiva colta dall’oggetto, nell’evocazione sovente data per contrasto nell’estraneità della solitudine e del senso.

A fronte di un’esistenza insanabile nella sua condizione, ancora, è il dovere della ragione a imporsi insieme a quello dell’affetto nell’intreccio di privazione da una verità che sfugge. Il mare nella sua dimensione ipnotica, le occasioni della memoria, la presenza via via salvifica e numinosa della donna, la cara Clizia, restando gli anelli, seppur parziali, seppur evanescenti, di una meditazione che pure si è posta un varco di dignità e salvezza nel nulla dell’impossibilità umana.

Eugenio Montale

Nell’ultima fase della produzione infine, all’acuirsi delle complessità nell’era delle tecnologie e dei consumi corrisponde quella di uno scetticismo e di un sarcasmo che vanno a dominare il racconto. L’uomo appare sempre più prigioniero delle proprie costruzioni, di un dolore ineliminabile che non riesce a comprendere e a cui Montale, a conferma del percorso, non può opporre formule consolatorie.  Piuttosto un’etica dell’esserci nel confronto senza infingimenti col proprio tempo: “È ridicolo credere/che gli uomini di domani/possano essere uomini,/ridicolo pensare/che la scimmia sperasse/di camminare un giorno/su due zampe//è ridicolo/ipotecare il tempo/e lo è altrettanto/immaginare un tempo/suddiviso in più tempi//e più che mai/supporre che qualcosa/esista/fuori dall’esistibile,/il solo che si guarda/dall’esistere”.

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