C’è chiasso in città? Una conversazione-intervista sul tema dello spazio pubblico e dell’arte contemporanea. Seconda parte
di Enrico Conte
“La democrazia è esigente, va coltivata, penso che due siano i suoi principali motori: la scuola che deve insegnare a riflettere, e la stampa che deve informare, incalzando se necessario i dirigenti politici ed economici. Nei due casi siamo in difetto, il dibattito è povero, non vengono poste le giuste domande e si genera l’inevitabile disinteresse degli elettori”. Queste parole sono di Jacques de Larosière, ex Governatore della Banca di Francia, una vita che si ripensa, dopo essere stata condotta in mezzo ai numeri di una crescita solo quantitativa. Ripensamento che dà la misura del cambio di epoca che stiamo vivendo e della necessità di dotarsi di nuove prospettive di lettura della realtà……”Viviamo un’epoca – così Patrizia Asproni — che sembra affondare le radici nella massima omogeneizzazione dell’esistente, in cui la globalizzazione ha determinato la sistematica erosione delle differenze, la mercificazione e la svalutazione delle tradizioni culturali” …….e tra gli spazi pubblici i Musei ….”luoghi di richiamo delle coscienze alla conoscenza come principale mezzo per la costruzione del capitale umano, senso di appartenenza, inclusione sociale, cura della salute, infrastrutture di comunità dove si costruiscono azioni di istruzione e formazione, luoghi di elaborazione di cultura condivisa attraverso l’apprendimento, la sperimentazione emotiva, la discussione”.
4. In che modo è pensabile che progetti che toccano uno spazio pubblico, possano svolgere anche una funzione educativa e di cittadinanza……Può aiutare rispetto a questa finalità realizzare progetti culturali delocalizzandoli sul territorio, collocandoli fuori dagli spazi tradizionali? Può aiutare dibattere pubblicamente di questi temi o anche solo discutere di come realizzare un’opera pubblica come, per esempio, una delle nuove scuole finanziate dal PNRR?
Antonella Buttazzo: Assolutamente sì, può aiutare ma bisognerebbe, fare un lavoro di educazione alla bellezza. Molto, troppo spesso le persone reputano l’arte e la cultura più in generale, come una materia distante e noiosa. Ma con gli strumenti e le iniziative giuste si potrebbe fare tanto.
Un’idea potrebbe essere quella di coinvolgere le cittadinanze attraverso progetti di manutenzione degli spazi culturali presenti sul territorio.
Daniela Cavallo: No, non credo. Se non cambiamo il modo di parlare alle persone ai cittadini di architettura, se non la smettiamo di comunicare dall’alto o di parlare un linguaggio di addetti ai lavori, spesso autoreferenziale e non cominciamo a conversare con la città. Umilmente.
Elena Cantori
Un buon progetto di arte pubblica può avere numerose ricadute, migliorare il contesto urbano, aiutare gli artisti sia da un punto di vista economico che di visibilità e ed educare la cittadinanza all’arte.
Sull’ isola di Maiorca con la promozione della locale amministrazione è stato realizzato un progetto che ha coinvolto moltissimi scultori locali che sono stati chiamati a realizzare opere per le aiuole. Un atto di sensibilità urbanistica e di valore culturale.
Linda Roncaglia: la delocalizzazione in ambiti degradati e secondari del tessuto urbano è arma di riqualificazione( la stazione Tiburtina è riuscita a riqualificare aree degradate, Quanto ai processi cd partecipati li guardo con una certa sfiducia perché avrebbe bisogno di una maggiore consapevolezza…..
Come si chiedeva Pier Paolo Pasolini, intervistato da Furio Colombo nel 1975 poco prima di morire….. che cosa è la cultura di una nazione? Correntemente si crede anche da parte di persone colte che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati e dei cineasti.
Cioè che essa sia la cultura della intellighenzia……?…..Invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante, che attraverso la lotta di classe cerca di imporla almeno formalmente. Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini.
La cultura di una nazione è l’insieme di tutte queste culture di classe, è la media di esse E sarebbe astratta se non fosse riconoscibile o per dir meglio visibile nel vissuto e nell’esistenziale e se non avesse di conseguenza una dimensione pratica.
5.Facciamo un passo indietro per cercare di comprendere meglio il nostro presente: cosa ha consentito, negli anni ’60 del secolo scorso, che a Taranto, storica città portuale e industriale, operaia, e di immigrazione contadina, venisse realizzata la Concattedrale di Giò Ponti, un’opera di architettura contemporanea, in un contesto pieno di palazzoni anni ’60 e di stradoni per le famiglie del boom economico? Oppure, a Trieste, il recupero del Museo Revoltella con l’incarico per la sua ristrutturazione a Carlo Scarpa, nel 1963?
Sessant’anni fa stavamo peggio o meglio di ora?
Antonella Buttazzo: forse meglio. Ma sono troppo giovane per fare un paragone. Per rispondere devo appellarmi a quanto ho appreso dai libri e dai documentari. Sicuramente un mutamento delle coscienze potrebbe essere una risposta. Il dopoguerra aveva spinto gli uomini ad essere migliori dei loro predecessori. In tutto. E si comprese, grazie anche al boom economico, come tutti i settori fossero egualmente importanti. Poi le rivoluzioni a livello musicale, artistico, sartoriale… Una rivoluzione sana che spero possa accadere nuovamente con le nuove generazioni. Ma forse parlo per una sorta di nostalgia per tempi….. che avrei voluto vivere.
Daniela Cavallo: l’avere una visione di futuro, il desiderio collettivo e all’unisono di costruirlo.
Su Taranto avrei tantissimo da dire, mi sono intestardita su questa città per quasi dieci anni, ho scritto e fatto progetti di Marketing territoriale. Quando passando davanti alla Concattedrale vedevo le fontane vuote e piene di erbacce e chiedevo agli abitanti “perchè” e mi guardavano straniti.
Giò Ponti a Taranto è stato un visionario, ha suggerito il genius loci della città, il mare: le vele della chiesa in costruzione, i colori dal verde all’azzurro delle ceramiche e degli arredi. Ponti ha portato il mare in un quartiere distante dallo stesso, nel cuore della città nuova, inondando la Concattedrale di una luce blu oltremare, verde, che si muove con tessere a specchio che riflettono idealmente le luci della città in movimento, il suo futuro legato all’artigianalità del luogo. Un eco di forme, colori, luce, come fili ripresi dal passato, quelli che legano Taranto all’architetto milanese, uno dei padri del razionalismo italiano, ma soprattutto colui che ha donato come assoluto atto d’amore il segno più importante, lo specchio assoluto, il valore reso visibile di questo territorio.
La Concattedrale è l’opera che Giò Ponti ha amato di più, della quale ha avuto più cura, – ha detto il nipote Licitra – un luogo sacro che fa il verso a quello più antico, il duomo di San Cataldo, nel cuore dell’isola madre: e lo spazio tra i due luoghi religiosi non è distanza ma costruzione della spiritualità del luogo, una sorta di “giardino mistico” diffuso, di cui Taranto non ha ancora preso coscienza.
Il blu del mare verso la terra, il verde come stato d’animo, l’oro come solco da percorrere verso il futuro, sono sogni, visioni e ambiti nei quali si è mosso l’architetto, ma che la città nel tempo ha tradito.
Fabrizio Manco: per molti fattori era preferibile il clima del dopoguerra, oggi l’arte, sia detto con rispetto, sembra esprimere bruttezza e inquietudine, con artiste acclamate dalla critica che sono difficilmente decifrabili dal pubblico( penso a Marina Abramovic)….Tuttavia la nostra epoca ha punti di vantaggio, la comunicazione aiuta molto.
Linda Roncaglia: stavamo meglio, per quanto riguarda la classe politica che sapeva innovare o se penso al movimento architettonico italiano del secondo dopoguerra sicuramente più rivoluzionario e culturalmente più avanzato.
Elena Cantori: In quel periodo c’era certo maggior fermento culturale e, forse, le amministrazioni pubbliche osavano di più mettere in atto progetti culturali di avanguardia. Probabilmente proceduralmente era tutto più semplice, mentre oggi c’e’ molto più immobilismo e incapacità di osare e di progettare percorsi culturali innovativi.
6.Fino a non molti anni fa girava una infelice massima: con la cultura non si mangia….cosa è necessario fare per rendere, anche nella percezione collettiva, le risorse destinate alla cultura un investimento e non una semplice spesa corrente che grava sui bilanci?
Antonella Buttazzo: la volontà di pensare per una buona volta al bene comune e non essere sempre egoisti. Finché non cambierà la mentalità sarà molto difficile per noi professionisti dei Beni Culturali riscattarci moralmente e lavorativamente. L’arte e la Cultura sono viste come passioni e non come die lavori veri e propri. Io stessa, spesso, sento dirmi ‘‘Ah ma hai la passione per l’arte‘‘. No, non è solo passione è il mezzo che ho scelto per guadagnarmi da vivere. Il mio lavoro. Purtroppo capisco che una materia umanistica venga sottovalutata poiché, forse, più teorica. Ma vi è, come dicevo anche prima, la mancanza di una consapevolezza di ciò che voglia dire Cultura.
Daniela Cavallo: siamo un Paese che vive di rendita da almeno un secolo, un paese che ha smesso di credere nella propria creatività, che vuole somigliare ad altro con l’arroganza di essere quello che non è più. Dobbiamo partire dagli abitanti, fare la cosa più difficile, svegliare le persone da questo sonno.
Dalle statistiche risulta che in media quando gli italiani vanno in un’altra città italiana non ritengono necessario utilizzare le guide turistiche o le informazioni storiche perché “sono italiani, sanno già”.
Fabrizio Manco: infatti, il settore culturale e il suo indotto producono ricchezza e fanno girare l’economia…Tuttavia se penso a città come Marsala dove si svolge il mio lavoro di guida turistica, pur potendo vivere di eventi culturali, li considera secondari, e non investe a sufficienza.
Linda Roncaglia: il pensiero torna a Pasolini quando diceva…..”è ora di dirlo….questa di paragonare l’opera d arte a un prodotto e i suoi destinatari a consumatori può essere una divertente metafora. Se qualcuno dice una cosa del genere è un imbecille, la poesia non è prodotto in serie, non è un prodotto. E un lettore può leggere una poesia un milione di volte senza consumarla. Anzi forse la milionesima volta la poesia gli potrà sembrare più strana e nuova e scandalosa che la prima volta.
Elena Cantori: purtroppo questo detto è valido ancora oggi e molti artisti sono costretti a svolgere anche altri lavori. Le problematiche sono causate dal sistema economico e finanziario, manca un programma di sgravi fiscali per l’acquisto di opere d’arte o sponsorizzazione di eventi culturali, sarebbe necessario un abbattimento dell’IVA ,art bonus non basta come incentivo per l’acquisto di opere d’arte o come sostegno di progetti culturali. Manca una reale politica di sostegno alla cultura e agli artisti e che sproni maggiormente il privato a finanziare l’arte.
7.Cosa occorre fare affinchè un Museo, o un Centro culturale, diventi un catalizzatore di cambiamento sociale, un agente di sviluppo economico.Il pensiero corre a Bilbao, una città in declino industriale, rinata grazie al Museo Guggenheim, realizzato su progetto di Frank Gehry. Accadrà a Trieste con il Museo del Mare progettato da Guillermo Vazquez Consegrua e in fase di realizzazione in Porto Vecchio?………….mentre a Parigi davanti a Notre_Dame si realizzerà un progetto con un microclima, a cura del paesaggista Bas Smets.
Daniela Cavallo: Non barare. Non fingere. Non avere il salame sugli occhi. Non distinguere una cultura di serie A e una di serie B. Cultura non è strumento di discriminazione, ma di crescita insieme.
Elena Cantori: occorrono menti illuminate, progetti innovativi, concreti e di valore e ovviamente una situazione economica che favorisca tutto questo. Trieste poi ha un certo timore a osare e preferisce puntare su una programmazione culturale molto commerciale e pur avendo budget adeguati non riesce a creare un percorso culturale che diventi un catalizzatore culturale e conseguentemente di sviluppo a 360°.
8.Se l’approccio culturale è dato dal “modo” in cui viene affrontato un problema, qualsiasi sia il settore interessato, faccio una domanda provocatoria: perchè non abolire i “settori culturali” che, in molte PA, tendono a gestire i progetti e le iniziative in forme autoreferenziali, con pochi rapporti con la ricerca, con le associazioni e con gli artisti?
Antonella Buttazzo: l’idea di una collaborazione ad ampie vedute mi piace….sarebbe da sperimentare…il problema sarebbe far collaborare tante teste in maniera equilibrata e obiettiva, dedita alla realizzazione di fini stabiliti in precedenza.
Daniela Cavallo: Si, come ghetti, o come luoghi chiusi che non producono nulla se non autorefenzialità, non inseriti nel tessuto dei luoghi. Sarò ancora più provocatoria: come la creazione nelle Università delle ex Facoltà, oggi si chiamano Dipartimenti, di “Beni Culturali”, che non produce nessuna figura specifica, non richiesta da alcun mercato del lavoro. Dipartimenti creati probabilmente per dare un posto a troppi professori, esperti e tuttologi che non sanno che godere delle loro conoscenze e ricerche, spesso inutili nei modi e nella forma e mal comunicate, con il risultato di allontanare le persone dalla cultura e darle quel divulgato senso di inutilità.
Elena Cantori: a mio avviso i settori culturali sono importanti e abolendoli si creerebbe un vuoto nella programmazione nazionale e locale…Un vuoto che un privato non sarebbe in grado di sostituire o supportare. Il problema è dato dalle lentezze burocratiche e dalle procedure che creano una zavorra nella realizzazione dei progetti culturali .Inoltre a questi settori manca molto spesso un timoniere di riconosciuta capacità e spessore culturale, che abbia la visione e le conoscenze per determinare scelte culturali adeguate al territorio dove opera.
Fabrizio Manco: ecco, quello che sarebbe necessario, un sincretismo culturale che penso potrebbe aiutare nella gestione dei saperi, nella conduzione di un centro culturale che parta dalla ricerca e da relazione con il territorio.
Federica Luser: in ogni città, in ogni paese, proliferano esposizioni di ogni genere, di carattere storico o contemporaneo, pittura, scultura, fotografia, installazioni, entrano a far parte del nostro immaginario collettivo. Ma dietro ad ogni esposizione c’è un lavoro che presuppone uno sforzo collettivo di persone e risorse veramente importante.
Basti pensare alle professionalità che vengono coinvolte: storici dell’arte, restauratori, traduttori, grafici, tecnici delle luci, allestitori, amministrativi ecc…figure, queste, che devono essere costantemente aggiornate sulle materie più svariate e devono essere retribuite in modo equo.
Ormai da quasi vent’ anni i tagli ai bilanci della cultura hanno minato l’esistenza di molti musei pubblici e di molte realtà private che, grazie ai direttori e conservatori continuano ugualmente a mantenere le sale aperte lavorando per il patrimonio che custodiscono, collaborando, molto spesso, con soggetti terzi nella realizzazione di mostre specifiche: Uffizi, Brera, Gallerie dell’Accademia a Venezia e poi i piccoli gioielli sostenuti da Fondazioni bancarie e da privati, luoghi di cultura visitati da milioni di visitatori.
In questi ultimi anni sono sorte aziende che organizzano mostre itineranti che adattano la loro offerta a seconda del contenitore che la ospita. Queste aziende preferiscono la spettacolarità alla ricerca scientifica. Il loro target è spesso un pubblico non competente ma sicuramente curioso che si auspica trovi soddisfazione nel vedere opere di un artista o di un movimento anche se non i capolavori, e trovi lo stimolo per approfondire l’argomento.
Ci sono poi le mostre studiate e allestite nei grandi musei di importanti città che hanno a disposizione budget cospicui sia per una ricerca approfondita che per allestimenti pensati ad hoc da architetti e realizzati da squadre specifiche che danno origine a esposizioni di livello:il Mart di Rovereto, il MAXXI di Roma, Il Madre di Napoli, il Museo del Novecento di Milano e quello di Firenze e molti altri offrono grandi mostre con importanti contenuti culturali, quanto, se non di più, avviene nel resto del mondo. Ma anche in centri medio piccoli
Ognuna di queste realtà è indispensabile per coltivare la memoria dei tempi passati e per alimentare la creatività contemporanea.
Non accoglierei la provocazione di abolire i settori culturali, ma cercherei di rinforzare i rapporti tra le PA e i ricercatori, rapporti che ovviamente devono essere valorizzati. Si deve instaurare un rapporto di fiducia, basata sulla professionalità degli attori: da una parte gli amministratori, impegnati a far quadrare i bilanci, dall’altra i curatori e organizzatori che devono cercare il prodotto-mostra fruibile da vari target di pubblico.
Lo sforzo che oggi è necessario fare per una maggiore incisività è sicuramente investire nell’uso delle nuove tecnologie, in modo da togliere quel che resta della polvere dei musei che devono aprirsi a un pubblico giovane.
Con ciò intendo che la sacralità dei musei o la serietà dell’esposizione d’arte o di fotografia deve rimanere tale. Il rispetto che si prova entrando in una sala deve essere sottolineato ancora di più dall’uso del video, touchscreen, realtà immersiva che trasformi la visita anche in una esperienza sensoriale/immersiva, in linea con il nuovo mondo fatto di immagini, colore e velocità
Inoltre l’uso, delle nuove tecnologie amplia i target di riferimento. Pensiamo ad esempio alle audiodescrizioni o ai libri scritti in Braille per i non vedenti o ai percorsi facilitati per persone con disabilità cognitive, ecco allargare la platea dei visitatori può essere una forma di politica inclusiva cui non possiamo prescindere.
Altro tema dolente l’arte contemporanea. Quanto le PA investono sulla cultura contemporanea con residenze, borse di studio, mostre ad hoc? Quasi nulla. Sono le reti private a sostenere i giovani e meno giovani artisti.
E’ il mercato creato dalle gallerie che dà indicazione su chi vale o meno. E spesso, si tende a confondersi il mercato con la cultura. Qui si apre una nuova linea di dibattito: quanto le grandi collezioni private, le gallerie devono essere coinvolte nella nostra crescita culturale?
9. Elio Vittorini, nel suo Politecnico,diceva……” non più una cultura che consoli dalla sofferenza, ma che protegga dalla sofferenza, che la combatta e la elimini”.
Antonella Buttazzo: l’Arte, come la Storia, ha ammonito tanto ma l’Uomo è sordo e muto ai loro insegnamenti. Sempre vigile e attento ai suoi bisogni primordiali e violenti.
Una battaglia persa in partenza? Non dico questo. La speranza è l’ultima a morire dopotutto.
Daniela Cavallo: L’Architettura ha un obiettivo essere utile alle persone, simile in questo all’Economia. Abbiamo perso il significato delle parole.
Elena Cantori: la cultura per la sua essenza crea bellezza e sconfigge la sofferenza ma la cultura va adeguatamente insegnata, è conoscenza e civiltà, offre gli strumenti per imparare a riflettere, a decodificare la realtà a indagare e a dubitare. E’ un modo per affermare la nostra capacità di critica, di affermazione della coscienza individuale, un modo per dare un senso a ciò che siamo a ciò che viviamo e al futuro.
Enrico Conte
erriconte@libero.it
Redazione di Trieste
Il Pensiero Mediterraneo
Trieste-Lecce, 15 gennaio 2023