IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Di Giovanni Bernardini: della nostra antica amicizia. Di Maurizio Nocera

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«Il Tempo di Giovanni Bernardini// Giovanni quanto tempo è passato?/ Di quanto dolore è stata intrisa/ la nostra solitudine!/ Quante di quelle nostre parole/ sembrano essere state affidate/ all’infinitezza del tempo./ Dicevi:/ «Sono molti quelli che scrivono/ nessuno – quasi – che legge»./ Leggere/ leggerci./ Che importa?/ Il tuo eros stava non/ nel farti leggere/ ma nello scrivere./ Nel mettere quel nero sul bianco/ che ha fascinato la tua vita./ È stato questo il grande godimento:/ di poeta e di scrittore/ che il Tempo non può più divorare. M. N.».

Un caro amico, che ha partecipato a Monteroni all’incontro (giovedì 13 aprile 2023) Nel centenario della nascita di Giovanni Bernardini (1923-2023), con relatori F. Martina, M. Melillo, Matteo Caione, Anna Grazia D’Oria, Pino Quarta, mi ha chiesto «se potevo dirgli qualcosa su Giovanni visto che io gli ero amico sin dalla fine degli anni ’70». Gli ho risposto: «Caro Enrico, lo farò».

Ho scritto tanto e tanto ho ricordato di Giovanni. Nel 2017 su una rivista romana «Fermenti», scrissi di Giovanni Bernardini Poeta. Ricordai che, prima della seconda guerra mondiale, Giovanni Bernardini (Pescara, 1923 – Monteroni di Lecce, 2020) era studente a Firenze, allievo di Giuseppe De Robertis. Dopo la fine della guerra, studiò a Bari, laureandosi con Mario Sansone nel 1946. Sposò una salentina (Maria Teresa) e visse il resto della sua vita nel Salento, a Monteroni di Lecce. Nel dicembre 2013 fu poeta finalista al XXXI “Premio Firenze 2020” con il volume Il tempo della memoria (Manni editore, 2012) con la motivazione seguente:

            «L’autore [Giovanni Bernardini], con felice penna, ha saputo coinvolgere il lettore in un testo in cui i ricordi personali si uniscono con la schietta lettura di racconti la cui delicatezza sfiora inevitabilmente le corde del sentimento umano che vengono come amalgamate in un tutt’uno con l’autore stesso. La lettura è piana, piacevole e, in alcuni punti, velata di una tristezza là dove il ricordo ha lasciato impronte indelebili nel cuore».

Bernardini fu scrittore tanto pessimista quanto prolifico con particolare attenzione alla linguistica, al sociale, al senso della vita, all’ironia, alla famiglia intesa in senso laico. Fu punto di riferimento letterario per diverse generazioni di letterati salentini e pugliesi dal secondo dopoguerra in poi. Non si preoccupò di avere successo in quanto scrittore, piuttosto amò essere poeta e narratore di liriche e prose per la gioia dei suoi lettori e dei suoi nipotini. Fu scrittore non per venalità o per esibizionismo e vanità, ma per un sincero amore per la scrittura e la vita, e di tutto ciò che attorno ad essa pulsa e si muove. Spesso amava dire di «andare fiero della scrittura. Di tutta la scrittura».

Per lui scrivere significava esistere, vivere. Amava i treni e per lui il viaggio su rotaie rappresentava la metafora del viaggio della vita, l’interrogativo imponderabile sconfinante nel suo inevitabile epilogo, la morte appunto, della quale egli non aveva paura, anzi, con essa, spesso, nei suoi racconti, si divertiva a scherzare. Al contempo, però, sapeva pure qual era il dolore della fine, inteso nel senso profondo di un olocausto definitivo. Egli sentì dolore, immane dolore, dolore anche fisico, fatto di amaro sapore di sangue in bocca, di polmoni che scoppiano dentro la scatola toracica. Spesso il suo autoritratto d’autore lo vide scrivere in mezzo ai gatti, tanti gatti, ai quali anche a loro spettava di morire, se pur con dolore suo.

Di lui Francesco Lala, suo amico e sodale per decenni, profondo conoscitore di aspetti poco noti della letteratura nazionale e salentina, definì Bernardini «figlio di Vittorio Bodini», invitandoci a non intendere ciò in senso riduttivo: al contrario, egli vide in Bernardini il continuatore dell’opera del grande poeta della Luna dei Borboni. Quando Lala lesse Segni del diluvio, scrisse:

            «io ammiro in Giovanni la coerenza. Egli ha sempre seguito un’idea, che è un’idea linguistica, ma anche contenutistica. C’è in Bernardini l’anti-retorica, la condanna di ogni falsità retorica; c’è in lui la spontaneità, la sincerità, la realtà, la Storia».

Anche il poeta e lo storico della letteratura Luigi Scorrano si è soffermato sulla poesia si Bernardini. Ha scritto:

            «i temi profondi della condizione umana meridionale sono stati ben individuati da Bernardini in Segni del Diluvio. Ne ho appuntati due: da una parte l’indifferenza del mondo (in Cronaca 2, p. 61) e dall’altra parte le magre possibilità della vita che chiudono il volume con Augurio di fine anno. Proprio sul margine di questi due dati si muove la poesia di Bernardini. Da una parte la denuncia dell’indifferenza del mondo è il dato più vistoso di Segni del diluvio. Ma questo margine consente di catalogare anche dei ‘segni’ in positivo, che sono ravvisabili nelle magre possibilità della vita che, per quanto magre, offrono uno spazio all’azione e costituiscono un’operazione di opposizione al diluvio, di contestazione del diluvio. C’è da chiedersi se i Segni del diluvio siano da intendere come premonizioni o piuttosto come segni visibili che accertano un nostro stare già dentro al diluvio. E’ certo, però, che il diluvio al quale si riferisce Bernardini non è finito; l’arca è in corso di fabbricazione già sotto l’imperversare della tempesta e non so se a questo diluvio sopravvivrà una coscienza per riportare indietro il ramo d’olivo o se ci sarà comunque qualcuno che vedrà questa colomba».

Giovanni cominciò a scrivere nel 1948 come redattore della rivista «Il Campo». Collaborò a quotidiani e periodici tra i quali «l’Avanti», «Il Ponte», «Il Critone», «Quartiere», «Prove», «Basilicata», «Quasi», «L’Albero», altri. Il suo primo libro èInterpretazione di Emilio Cecchi (1948). Da quel momento in poi molti altri libri, uno più bello dell’altro.Alcuni titoli: La neve (1965) Provincia difficile (1969); Compare brigante (1973); Segni del diluvio (Poesie, 1981); Allegoria (semiseria) del viaggiatore e altri epiloghi (1984), libro nel quale narra l’epilogo di cui sopra, a cui approda, ad un certo punto, la vita degli uomini, con un pensiero concentrato sull’atto finale, sull’epilogo appunto, dell’esistenza di un essere vivente, interrogandosi sul perché di questa fine e della sua inevitabilità; Emblema e metafora, (Poesie, 1988); Il bivio e le parole (1989); Quest’inverno ti racconterò: prose e racconti (1992); La divisa del paziente (1993); Il profumo dei gelsomini (1994); Nell’imminente inverno (Poesie, 1995); Parapagliapiglia (Poesie, 1998); I treni (pubblicato in quattro puntate sulla rivista «Apulia» nell’annata 1999); Stasera a cena mangerò una balena (2000, libro per bambini); Il vento non può spegnere quelle luci (2001); Nel mistero del tempo (Poesie, 2005); I bruchi, ovvero il ragazzo in fondo al mare(2008); Altri giorni, altri racconti (2008); Fuga dalla notte (2009); Ed io parlo, scrivo e fumo (Inquietudini)(2010); Passaggi di stagioni lontane. Poesie (2011); Il tempo della memoria(2012); Registrazione di futili accadimenti. Il telefono (2013); Il tempo dell’attesa (2014); Il Vecchio e l’Ombra (Dialoghetti) (2016); Nel buio la parola (Poesie 2015-16) (2016). Forse ho dimenticato qualcosa, ma questi sono i libri che mi trovo tra le sue e mie carte. E tutti con affettuose dediche a me e a mia moglie Ada Donno.

La complessità dello scrivere lo portava a essere sempre più esigente con se stesso. Affermava:

            «io che mi impunto quasi ad ogni parola e conosco la fatica lenta e se un periodo mi suona falso sono capace di strappare tutto e non scrivere per mesi».

Io conoscevo bene Giovanni Bernardini. Amici per oltre 40 anni, per cui non so se veramente egli sia rimasto senza scrivere per mesi. Poesie ne ha scritte sempre e tante. E non era mai contento di come il verso “calava”. Per cui – questo sì – su una poesia era capace di rimanere fermo per mesi fino a quando quel verso, alla fine, non “calava” come voleva lui. 

La sua prima raccolta è Segni del diluvio, poesie scritte dal 1957 al 1980, prefata da Vittore Fiore, che scrive:

            «La poetica di Bernardini, narratore e poeta, ci aiuta a distinguere fra verità generali e sistematiche, che sono di ordine teorico, e conoscenze particolari, proprie della poesia, tanto il suo itinerario è linearmente costruito, nello spazio e nel tempo, su fatti, gesti, azioni, movimenti, atmosfere, sentimenti, rituali quanto si vuole, ma incarnati in se stessi. […] Il suo è quasi un diario fisico, fuori dal gioco degli opposti, scritto con toni di impressionismo sobrio e pulito, antiretorico, bagnato, se così si può dire, nella giovanile esperienza fiorentina, comune ad altri intellettuali salentini, di rigore critico-formale. […] E allora, poeta della noia e della malinconia che “corrodono dentro” o del grido? Quali segni particolari porta il suo “diluvio”? Dramma o meditazione? Il suo pessimismo, la pena d’esistere. È morire […] nel triste gioco sottosviluppo-accumulazione, che ci fa sentire più lieve la Primavera […] È la brevità della stagione umana che morde il poeta, la caduta delle illusioni. Egli sa che l’entropia piccolo-borghese di umanista di periferia, per quanto vissuta con dignità e con saggezza, senza grigie frustrazioni, può tirargli dei brutti scherzi. È scrittore troppo fine per non schivare il pericolo, per non cercare altri significati particolari, di uguale moralità, dai quali tuttavia non s’aspetta il vento della consolazione. Quando sta per lanciare l’ultimo urlo, il suo “diluvio” si risolve pur sempre in rimpianto, di aver “poco costruito, al tirar delle somme”».

Bernardini e Nocera

Ecco. Segni del diluvio “di/segna” il linguaggio poetico di Bernardini, dove il tempo obbliga il poeta a guardarsi dentro, dentro la sua malinconia, la sua tristezza, il suo dolore, che si fanno pessimismo. Tuttavia il suo non è un pessimismo di rinuncia, di rassegnazione (segni del diluvio appunto), ma viva riflessione per rappresentare un’appartenenza geo-culturale, per porre problemi d’identificazione, per contribuire all’emancipazione di un territorio (segni positivi), in questo caso il Meridione, nei confronti del quale il “mondo” [il Nord] fa fatica ad accorgersi. Bernardini scrive che

            «è vero, in Segni del diluvio c’è dolore. In certi momenti può sembrare addirittura che ci sia la disperazione. Certamente c’è l’angoscia, ma solo nel senso leopardiano. C’è il tentativo di guardare in faccia la realtà, ma non per rinunciare, non per tirarsi indietro con il senso della sconfitta, della propria sconfitta personale, che poi sarebbe un fatto marginale, ma soprattutto della sconfitta di tutta la classe subordinata alla classe dominante. Questo momentaneo arretramento, però, non ci deve far rinunciare all’impegno: dobbiamo muoverci e ascoltare, qualunque sia la voce che ci parla. Certo, non per soggiacervi, ma per affrontarla e vincerla. In definitiva, agiamo e cerchiamo di fare di questo nostro Meridione qualcosa di meglio, anche se noi possiamo contribuire in una parte che certo non è molto ampia, gigantesca come forse vorremmo».

Bernardini è stato un poeta impegnato nel civile. Fu sindaco della sua città, Monteroni di Lecce. Tutti noi, suoi amici e compagni, ci demmo da fare per un buon risultato, che pure egli ottenne. Avevamo tanta speranza in un rappresentante della comunità che uscisse fuori dalla grande tristezza della condizione marginale del Sud e, soprattutto, uscisse fuori dal quel cerchio fascio-mafioso che nel Mezzogiorno d’Italia sporca ogni cosa. Giovanni ce la mise tutta, con tutta l’umiltà di poeta amico della povera gente ma, quasi immediatamente alla sua elezione, i circoli del potere, appunto fascio-mafiosi e falsamente democratici, cominciarono a stringere la tenaglia dell’affossamento di una delle più belle – forse l’unica vissuta nel Salento – esperienze amministrative.

La sua opera poetica-letteraria è sempre trasparente, chiara, luminosa, dove i contenuti sono d’ispirazione sociale, dove le ingiustizie subite e la miseria della gente comune non scadono mai in romanticismi annacquati all’acqua di rose, ma sono vive ed emeergenti da un realismo nostalgista. Egli mette a nudo la violenza subdola di una società malata, superstite oggi in un pianeta sconvolto dagli inquinamenti sociali e industriali. Fu pacifista coerente, impegnato contro qualsiasi tipo di guerra, contro l’idea nichilista autodistruttiva. Il suo impegno si serviva essenzialmente del verso poetico, della parola, la cui forza dirompente nei confronti di qualsiasi atto malefico era ciclopica.

Sono sette le sue raccolte poetiche (dal 1981 al 2016) attraverso le quali è possibile vedere la forza di una sua preziosa lezione che, nel silenzio (oggi potremmo dire globale), scaglia un verso in direzione di un obiettivo preciso, perché sostenuto da una grande fede nella parola, nella capacità di quest’ultima di denunciare ogni malefatta.

Dopo Segni del diluvio, la sua seconda raccolta poetica è Emblema e metafora, prefata dal critico letterario Donato Valli, che scrive:

            «Leggendo [la sua poesia c’è la] limpida presa della coscienza del poeta dello stacco determinatosi tra il tempo reale, rappreso in residui simboli decisivi (l’inutile clessidra, il cofanetto ammuffito, le ultime carte da gioco, il fantoccio di paglia) e il tempo della memoria. Ma è proprio la scelta di quei simboli a rievocare il significato d’una vita perduta e insieme a provocarne la letteraria metamorfosi».

Nell’imminente inverno (terza raccolta), a fare la postfazione è il critico letterario Walter Vergallo, che scrive:

            «La continuità, la permanenza, coerente e tenace, [della sua] scrittura, la sua sapienza letteraria consistono soprattutto nel bisogno, che Bernardini ha sempre avuto, di porre filtri e distanze tra sé e il mondo; che sono lo stesso esercizio scritturale quotidiano, l’ironia e il “doppio” della ri-scrittura. Anche in questa raccolta il poeta tiene a bada l’Io, ne sorveglia i pericolosi abbandoni, gli eccessi d’espansione in ambito psicologico ottomistico, evita i narcisistici compiacimenti, dribbla i ripiegamenti nel crepuscolo. Il ciglio della scrittura del poeta è sempre emozionato ma resta asciutto».

In Parapagliapiglia (quarta raccolta), lo storico della letteratura Ennio Bonea scrive:

            «la raccolta poetica di Bernardini è priva di paludamenti seriosi, di tono vatesco, dell’oscurità voluta da sintesi concettuale o da ellissi terminologiche; è invece ricca di ammiccamenti e di intese per un gioco scoperto, senza trucchi e tranelli; tutto chiaro, a partire dalle rime che, a meno che non insistano come le dame di San Vincenzo, diceva Montale, erano state abbandonate di modernità… leopardiana. La rima qui ritorna, fresca e spontanea da sembrare quella del signor Bonaventura di Sergio Tofano, perché dice l’autore, a inizio di raccolta, che in vecchiaia i poeti “tornano bambini/ con l’età che li lima».

Nel mistero del tempo (quinta raccolta), la Postfazione è del filosofo Giovanni Invitto, che scrive:

            «Il titolo di questa raccolta unisce due termini metafisici ed esistenziali: mistero e tempo. Non a caso l’insieme è suddiviso e scandito in tre sezioni, intervallate da tre poemetti, collocati prima del Tempo ultimo, non a caso chiamato così e non l’Ultimo tempo. Nel primo tempo è lo spazio della famiglia, come riserva di affetti e certezze, e dell’infanzia intesa non come ricordo e nostalgia ma come dono che noi viviamo nell’età adulta e senile. Il secondo tempo è il tempo dei fiori, degli animali, delle stagioni; il terzo è quello di un commiato, non di un addio».

Passaggi di stagioni lontane (sesta raccolta), dove si raccolgono sue antiche liriche, è prefato dalla narratrice Martina Gentile, che scrive:

            «I componimenti di questa raccolta risalgono agli anni ’40 e ’50. Nel mezzo stanno i fatti di una guerra patita e gli anni difficili e tormentosi del dopoguerra, che, sorprendentemente, non si riverberano sui versi. […] Calda è l’umanità che sale dai versi di Bernardini: essa si effonde nel suono delle parole e da lì s’irradia in ogni fibra e in ogni muscolo. Perché, in questa raccolta di versi, c’è vita. C’è l’essenza di ogni umano esistere con le strade, le facce, le bocche tremule. Ci sono il plenilunio e i paesaggi di tanta sconfinata provincia italiana a far vibrare una sottile nota di sensualità, un brillio di luce argentea, quasi lunare. […] Si ha come l’impressione che ben poche siano le parole impresse sui fogli dinanzi alle tante parole taciute, dinanzi ai silenzi dei quali solo l’eco resta in questi versi che cavalcano senza fatica il tempo».

Nel buio la parola è l’ultima raccolta poetica (settima) del poeta. Il prefatore, Antonio Lucio Giannone, scrive:

            «in queste poesie egli prosegue nelle sue riflessioni esistenziali, affrontando apertamente e con coraggio le cosiddette “questioni ultime”: la morte, la vecchiaia, la solitudine, il senso della vita. Il suo pessimismo ora si accentua e sfocia quasi nel nichilismo. […] Il tono piuttosto cupo, nel suo complesso, della raccolta, viene alleggerito a tratti dalle osservazioni ironiche e autoironiche presenti in certe poesie e dalla capacità, che emerge in altre, di rievocare figure e momenti del passato».

Ecco. La poesia di Giovanni Bernardini è come una sorta di sentiero dei sentimenti, che si dipana per una lunga vita, trascorsa spesso nel silenzio e nella solitudine letteraria, e tuttavia intrisa di luminosa bellezza.

Non poche volte, quando ci incontravamo nel patio della sua casa di Monteroni, dove egli di solito soleva passare, ci sedevamo uno accanto all’altro. Io gli leggevo (Giovanni ha sempre avuto lungo tutta la sua lunga vita problemi di vista) alcune delle sue poesie da me ritenute le più belle. Egli ascoltava ammiccando qualche lieve sorriso subito represso per non apparire tutto ciò che egli non è mi stato.

Così gli leggevo «Ci vuole coraggio// a vivere nel Sud,/ in questi paesi di biacca/ bruciati dalla miseria e dal sole,/ dove senza uscita i sentieri sprofondano/ nei vigneti polverosi/ e gli uomini ascoltano in sé/ un vano sciabordio di parole/ da se stesse scavate/ né eco risponde al grido/ lungamente scagliato/ verso il Nord» (da Segni del Diluvio, Lacaita editore, Manduria, 1981, p. 26).

Poi gli leggevo «Segni del diluvio// quest’aggrumarsi di sangue nelle strade/ la melma montante di scandali e di truffe/ a donna violentata in ascensore/ il pensionato a capofitto dal balcone/ il ragazzo che si buca su un sedile» (p. 58).

E poi «Mattine lontane// d’ottobre con squilli di galli/ dall’uno all’altro pollaio./ Era come se la stagione piegasse serena/ al richiamo d’una primavera rinata./ Più splendenti i narcisi lungo i muretti,/ lieve l’anima lanciata verso il cielo,/ e la Terra un balocco,/ una palla multicolore/ per i nostri giochi di ragazzi« (da Emblema e metafora, Manni editore, Lecce, 1988, p. 39). E di questa stessa raccolta: «Il passo del tempo// Ti è compagno il silenzio/ nella tua lunga solitudine/ dove neanche lo squillo del telefono/ più ti raggiunge ma solo il passo/ veloce del tempo» (p. 44).

Poi gli leggevo «Il tacco del tempo// Ti preme il tacco del tempo/ e ti schiaccia, mia vita,/ miei giorni dove fuggiti/ lo ignoro» (da Nell’imminente inverno, Lacaita editore, Manduria, 1995, p. 13). E da questa stessa raccolta, bellissima poesia: «Ragazzo del ’68// L’hai visto il ragazzo/ nello stesso posto/ davanti alla Standa/ distribuire volantini./ Quasi vent’anni/ sono passati dal Sessantotto:/ lui sempre lì./ T’ha fatto un po’ pena/ e tanta tenerezza./ Anche perché era tuo figlio» (p. 21). E ancora «Gli amici// Al vento degli anni/ gli amici si disperdono/ non s’incontrano più/ neppure telefonano/ poi si viene a sapere/ uno dopo l’altro/ che se ne sono andati/ via per sempre» (p. 59).

Poi gli leggevo «Ritrovare la rima// Sai perché in vecchiaia// i poeti ritrovano la rima?/ Perché tornano bambini/ con l’età che li lima» (da Parapagliapiglia, Conte editore, Lecce, 1998, p. 18).

E ancora «Quando muore un poeta// che si chiama Salvatore Toma/ non cadono le stelle né il cielo s’oscura./ Dopo la neve rifulge il sole di marzo/ e l’erba luccica più verde./ Qualche donna piange,/ gli amici affermano ch’era un vero poeta./ Ma lui ride

andandosene per la sua strada/ nei boschi azzurri di corbezzoli e viburni» (da Nel mistero del tempo, Manni editore, Lecce, 2005, p. 34).

E ancora: «Vecchi// Stanno i vecchierelli al sole/ biascicando tremule parole,/ ma bianco è il sole e non li sa scaldare» (Pescara, gennaio 1943) (da Passaggi di stagioni lontane, Calcangeli edizioni, Carmiano, 2011, p. 35). E sulla stessa raccolta: «Felicità perduta// Dispersi per questa via senza meta/ i coriandoli scorgo soltanto/ della Felicità, ch’è già passata» (Firenze, 6 febbraio 1941) (p. 47).

E poi: «Cremazione// Sulla Terra/ – nota Terzani [Tersilio] -/ camminiamo/ su miliardi e miliardi/ di sepolti/ In famiglia/ abbiamo deciso/ di farci cremare/ e spargere al vento/ Nessuno potrà calpestarci» (da Nel buio la prola, Edizioni Esperidi, Monteroni, 2016, p. 65.)

Infine, gli leggevo «Poesia// facile parola/ per un tormento quotidiano» (Monteroni, 1952) (da Passaggi di stagioni lontane, Calcangeli edizioni, Carmiano, 2011, p. 83).

Giovanni Bernardini l’ho conosciuto – l’ho già scritto sopra – alla fine degli anni ’70 e, nel 1981, lo invitati a Gallipoli alla presentazione della sua raccolta poetica Segni del diluvio. A quell’epoca eravamo entrambi impegnati a lottare contro gli armamenti (l’impianto dei missili Cruise in Sicilia) e per la difesa della pace. Per cui, in un momento simile, parlare di poesia, non era facile. A quel tempo si spendevano miliardi per gli armamenti o per pagare eserciti di provocatori e di terroristi (un po’ come sta accadendo oggi a causa della guerra Russia-Ucraina), mentre un terzo dell’umanità soffriva e moriva di fame. Tuttavia trovammo il coraggio di fare la presentazione. In quell’incontro, Giovanni volle sottolineare la necessità di utilizzare la poesia per dire cose che non erano affatto meno rivoluzionarie e liberatrici di quant’altro. Ci raccontò della sua difficile esperienza di poeta del Sud, la sua angoscia per i troppi fallimenti registrati dalle forze sociali, politiche e culturali, che altrimenti avrebbero dovuto fare. Ci disse:

            «È vero, in Segni del diluvio c’è il dolore. In certi momenti può sembrare addirittura che ci sia la disperazione. Certamente c’è l’angoscia, ma solo nel senso leopardiano. C’è il tentativo di guardare in faccia la realtà, ma non per rinunciare, non per tirarsi indietro con il senso della sconfitta, della propria sconfitta personale, che poi sarebbe un fatto marginale, ma soprattutto della sconfitta (almeno per ora) di tutta la classe subordinata alla classe dominante. Questo momentaneo arretramento, però, non ci deve far rinunciare all’impegno: dobbiamo muoverci ed ascoltare, qualunque sia la voce che ci parla. Certo, non per soggiacere, ma per affrontarla e vincerla. In definitiva, agiamo e cerchiamo di fare di questo nostro Meridione qualcosa di migliore, anche se noi possiamo contribuire in una parte che certo non è molto ampia, gigantesca come forse vorremmo».

Stupendo. Stupenda la sua voce. È come se l’ascoltassi ancora. Egli, con voce flebile ma coraggiosa, ci annunciò l’idea di un Manifesto per la difesa e il riscatto del Meridione. Altro che “Autonomia differenziata” come vorrebbero imporci alcuni barbari del Nord Italia. Tuttavia Giovanni Bernardini non ha scritto solo poesia o narrativa, perché concretamente, per dare senso alle poetiche parole che andava scrivendo sui libri, «si è messo in gioco» divenendo egli stesso soggetto attivo nelle pubbliche istituzioni e nelle lotte degli anni ’70-80-90. Egli, già docente e preside di Istituti superiori di secondo grado, mi concesse non poche volte l’onore di stare al suo fianco nei cortei di proteste antifasciste e nelle manifestazioni di massa. Fu quella una grande stagione di lotte e di impegno civile con Giovanni sempre in prima fila. Tant’è che, nella premessa alla raccolta poetica di Nell’imminente inverno (Lacaita editore, Manduria 1995), scrive:

            «Questa mia terza raccolta poetica si pone in ideale e sostanziale continuità rispetto alla seconda, Emblema e metafora./ I temi toccati rimangono la vecchiaia, la malattia, la morte, ma anche la memoria dell’amore. Con un titolo certo meno trans-figurativo, a sottolineare l’inevitabile caduta degli anni./ Tuttavia senza ripiegamenti totali, se il mio costante impegno civile mi ha condotto ad accettare e reggere, in età in cui di solito si sta in pensione, fra il ‘92 e il ‘93, la gravosa carica di sindaco per contribuire alla svolta politico-amministrativa nel paese dove risiedo./ Dunque temi spesso dolenti, filtrati attraverso la scrittura nell’ottica non d’una superiore serenità, bensì d’una faticata capacità di guardare la vita in alcune tappe fondamentali senza facili o consolatori ottimismi, secondo la grande lezione a me venuta in primo luogo dal Leopardi» (p. 5).

E proprio nella raccolta di liriche del volume Emblema e metafora (Manni, Lecce, 1988), il suo amico Donato Valli scrive:

            «Portavamo di lui un ricordo di impegni e di battaglie altamente civili: era lo scrittore meticoloso e sapientemente crudele di un Sud così vero, così familiare da doverne soffrire; l’intellettuale dalle analisi lucide e insieme partecipate, nelle quali la letteratura disvelava quasi con virgineo pudore la sua matrice popolare ed epica; il sommesso poeta che discorrendo del suo Salento reale ci faceva intravedere ciò che di perenne e di sublime, di fatale e di tragico ci fosse dietro la scorza di quella realtà, gli spazi di maleficio nei quali si incontravano la nostra quotidiana povertà e l’universale ragione che impera a danno dell’uomo, la disperata impotenza d’una società non ancora matura al grande salto di redenzione e di pace» (p. 9).

Il suo impegno civile e sociale, trasparente nella sua opera letteraria, è ben individuato dal duo Donato Valli e Anna Grazia D’Oria i quali, nell’Introduzione a Novecento letterario leccese (Manni editore, Lecce 2002), scrivono:

            «Anche Giovanni Bernardini non si sottrae alla tipologia. Nelle sue opere in prosa la tematica affrontata è di chiara ispirazione sociale che rimarca le caratteristiche di una terra lontana e periferica quale il Salento, le ingiustizie subite, la povertà dei contadini, l’onestà della sua gente ma senza mai scadere in descrizioni romantiche o volgarmente realistiche e sempre con un rigore che in fondo nobilita e rende universale la stessa sofferenza di un territorio che paga lo scotto della sua marginalità» (p. 16).  

Io l’ho conosciuto così, sempre impegnato cioè, a partire dall’inizio degli anni ‘70, sempre presente – silenzioso e attento – nel nostro movimento studentesco prima e di massa poi, movimento che in quegli anni andava contestando quell’autoritarismo dilagante che mai seriamente era stato sconfitto fino ad allora, a partire dai tempi del fascismo, del secondo dopoguerra ed anche dopo. Egli, Giovanni, con la testa già calva e circondata da una coroncina di capelli, già affermato e stimato professore di un liceo leccese, fu allora presente a molte nostre manifestazioni democratiche ed antifasciste, in difesa dei valori della libertà e della giustizia sociale.

Qualcuno ha detto che Giovanni partecipò a quelle manifestazioni di piazza più che altro per non lasciare solo un suo figliuolo (Paolo), allora dirigente di quel movimento. Non è vero. Ho sempre creduto che tale affermazione sia stata fatta unicamente per sminuire la portata della sua presenza nel movimento studentesco e di massa di intellettuali come lui. Egli, allora, aveva già scritto e dato alle stampe Provincia difficile (Adda Editore, Bari 1969) e Compare Brigante (Adda, Bari 1973) due libri bellissimi di sicuro impianto neorealista, che egli aveva scritto negli ‘50-70, a partire dalla sua esperienza di redattore e collaboratore fisso della rivista culturale leccese «Il campo».

Bernardini con Meria teresa e Ada Donno

Ancora oggi, anno di luce 2023, se si vuole veramente contribuire alla formazione delle nuove generazioni, sia opportuno e imprescindibile dotare ogni ordine e grado di scuola di quei due volumi di Giovanni Bernardini. Solo così, in una provincia apparentemente periferica come il Salento, sarà possibile avere qui, domani, delle classi dirigenti e delle classi produttive coscienti del loro vivere in un territorio che ha connotati e caratteri specifici. E proprio su tale indirizzo, Michele Tondo, introducendo Provincia difficile, scrive che si tratta di

            «pagine che, oltre all’eloquente forza del documento, hanno sempre una loro pensosa e dolente bellezza, perché in esse, insieme con l’appassionato e consapevole meridionalista, convive lo scrittore fine e discreto, per il quale l’estrema misura letteraria della pagina fa tutt’uno con l’impegno morale. […] Giovanni Bernardini è rimasto laggiù, nel Salento: gli anni sono passati, ma egli non s’è intruppato […] è invece uscito all’aperto, si è guardato intorno e, nella consapevolezza che lo scrittore oggi più che mai non deve chiudersi nella torre d’avorio, si è rimboccato le maniche. Lasciateci credere che un tale scrittore possa non poco giovare anche nella nostra scuola» (pp. 12-13).

Ecco. Nella poetica e nella narrativa di Giovanni Bernardini, noi troviamo sempre l’impegno civile, l’impegno sociale, e quelle verità di fondo che stanno alla radice della vita umana. Tale impegno è stato visto anche da Carmen Starace (all’epoca responsabile del Centro per il diritto alla salute) nell’Introduzione al libro La divisa del paziente (Conte Editore, Lecce 1993), là dove scrive di aver trovato nel libro di Bernardini, che ha vissuto l’esperienza assurda di un’ospedalizzazione “disumana”:

            «l’eco delle denunce più vibranti delle nostre battaglie, una pregevole espressione del tema dell’umanità negata dalle strutture ospedaliere che rinnova la nostra passione civica, il nostro impegno per la difesa dei diritti del malato […], mettendo a nudo la violenza subdola […] di tutta una cultura ospedaliera che ‘cosifica’ l’ammalato fino all’annichilimento totale».

Il mettere a nudo la violenza subdola di questo o di quell’altro aspetto di una società putrescente, questa sì malata, per Giovanni Bernardini non ha significato armarsi di chissà quale micidiale arma di offesa. No. Affatto. Egli non ha usato nessuna arma né di distruzione di massa né di distruzione della persona fisica. È noto a tutti il suo pacifismo democratico, il suo impegno concreto contro qualsiasi tipo di guerra, la sua partecipazione attiva nel movimento per contrastare l’idea nichilista dell’autodistruzione. Egli ha lottato servendosi del verso poetico, della parola, la cui forza dirompente nei confronti di qualsiasi atto malefico, è stata ben colta da Walter Vergallo, nella silloge poetica Nell’imminente inverno (Piero Lacaita editore, Manduria 1995), con questa riflessione: quella di Bernardini

            «è una grande lezione a tutti noi: il silenzio dell’attesa può scagliare una parola, una sotterranea conoscenza erompere in rottura; una grande fede nella parola, nella sua capacità di presenza denuncia pugnacità narrazione identità: di sé e del mondo. Un ottimismo che sa l’impossibilità della consolazione e della salvezza piene. La parola guarda dice vive la vita; null’altro. Ma è già molto. Un ottimismo, dunque; sia pure negativo perché senza grido né idillio né canto, secondo la lezione quasimodea. Sguardo di sole lunare; opacità. Semitono. Coro muto» (p. 75).

Anche Romano Luperini, nel recensire il libro Allegoria (semiseria) del viaggiatore e altri epiloghi (Bastogi, Foggia 1984) riesce a cogliere nella poetica di Bernardini il senso profondo della sua

            «polemica contro il mondo moderno [che] ricalca [con] gli schemi dell’ideologia umanistica […] Bernardini è uno scrittore vero, e si vede da ogni pagina, da ogni periodo, dall’uso stesso della parola. Insomma, qui c’è uno stile, una personalità artistica originale e complessa, capace di riflessione sui destini generali dell’umanità e di uno sperimentalismo formale inquieto e raffinato» (v. R. Luperini, L’umanesimo è dentro di noi, paginone di «Quotidiano di Lecce», 22/23 luglio 1984).

Nel 1985, in una recensione al suo libro Allegoria (semiseria) del viaggiatore e altri epiloghi, pubblicata su «Il Corriere Nuovo» (Galatina 1985, p. 3), scrissi che il poeta, senza alcun sarcasmo, senza alcun ironico sorriso della condizione umana, si concentra sull’atto finale. Nell’Allegoria, infatti, egli, più che in altre opere, affronta il tema della morte indicandolo come segno ammonitore, come un punto fermo per ciascuno di noi, che mai deve essere dimenticato. Ed anche in questo caso, egli si serve del tema – crudelissimo – della morte, di questo pericolo immanente per l’uomo, per scagliare il suo urlo di poeta contro la disumanità dilagante, contro l’alienazione che cresce esponenzialmente con i ritmi acceleratissimi del processo di automatizzazione e robotizzazione della società super-capitalistica. La sua non è sterile polemica contro l’uso disumanizzante della tecnologia e a favore della forza dei grandi valori etico-morali del passato. Vale a dire che non è per lui un semplicistico schierarsi con il vecchio e contro il nuovo. Affatto. Quella di Giovanni è la ferma denuncia contro ogni cosa della vita che è stata venduta a vile prezzo, perfino la stessa dignità umana, l’amore, la poesia, ogni altra cosa. Per lui, perfino la morte è stata mercificata e a lui viene quasi da piangere al pensiero che nella società disumanizzata dal profitto vi siano dei cinici che giungono al punto di ridicolizzare anche l’unico ed inesplorabile enigma dell’esistenza. Nel suo piano di lettura manifesto, l’Allegoria (semiseria) è il viaggio di Giovanni su un lungo treno verso paesi dell’aurora boreale. Nello stesso scompartimento viaggiano con lui dei poveri emigranti del Sud e con loro il nostro viaggiatore parla della morte nei termini di un affare come un altro, affermando che pure essa è una questione di soldi, e chi ce li ha, può permettersi tutto, anche il modo e il tempo di rinviare la morte definitiva. Magari comprandosi una capsula ibernante

            «entro cui (come) defunto verrebbe comodamente alloggiato in attesa del proprio auspicabile vantaggio di resuscitare».

Ma, a questo futuro per niente fantasioso e che comunque comporta sempre aspetti di estrema crudeltà il Viaggiatore/Giovanni accosta una Bella Addormentata in un bosco, una sorta di buona Fata (che ci fa pensare alla Terra) verso cui tutti noi andiamo, quella stessa Bella Addormentata contro la quale, sotto un

            «cielo di silenzio e solitudine […] violarancio […] e nudo…»

si è infranto l’appello alla Terra del disperato astronauta sperduto nel suo volo senza fine. Come si vede, il tema della morte domina tutto il racconto, ma il nostro Viaggiatore/Giovanni non si sgomenta, anzi ci scherza su, arrivando a dire che essa è, tutto sommato,

            «un fenomeno provvisorio e come tale destinato ad essere superato in un futuro non lontano di cui il trapianto di organi e le capsule ibernanti costituiscono segni chiaramente anticipatori».

Ma, accanto a questa possibile realtà, l’autore ama ricordare anche che la morte può essere ancora come la Bella Addormentata, dal «capo folto d’odore di boschi» dentro cui affondare dolcemente e non invece lo scatenamento delle

            «Furie dell’Apocalisse se da una base qualunque, in un attimo qualunque, un dito d’uomo o d’uomo robot pigiasse il pulsante che scagliando il primo missile desse inizio alla conflagrazione definitiva».

Allora sì che a vincere, sovrana su tutto e su tutti, sarebbe la morte totale, che lascerebbe la Terra devastata e deserta

            «che vola nello spazio, addosso i colori del giudizio universale […] L’immane deflagrazione la scopriranno i navigatori sbarcati da altri pianeti dopo secoli […] Procederanno con reverenza o con spregiudicata fame di conoscere su questo corpo desolato […] Ritroveranno qualche ferro contorto, ultimo relitto di treni aerei automobili e constateranno come le magnifiche sorti e progressive si siano realizzate con visibile definitivo giovamento per le razze terrestri».

Per il Viaggiatore/Giovanni questa sciagura sarebbe il massimo di quanto potrebbe accadere all’umanità, perciò scaglia la sua ironia contro i pazzi di tutte le guerre, proponendo surgelate casse entro cui sistemare tutti i morti da resuscitare. Ma ora, anche per lui viene il turno di pensare seriamente alla morte ed anche per lui comincia l’attesa di quell’elegantissima Signora, che egli riesce solo a vedere e della quale non s’accorge neppure il Figlio-ragazzo che

            «ancora non l’ha veduta perché era troppo buio […] Figlio che ormai se ne va, altri orizzonti, altre Sirene lo chiamano, altri itinerari»,

mentre lui, povero Viaggiatore, è costretto alla rassegnazione, alla sua capsula ibernante, dentro cui attendere l’immortalità, con la sola speranza di poter guardare negli occhi la Bella Addormentata millenaria.

Dell’attualità della sua denuncia, Giovanni Bernardini ha dato forza poetica, grazie alla capacità di astrazione attraverso la metafora.

Nel racconto Lento nel duolo, che segue, Bernardini ripercorre con la memoria i momenti del tenero amore per quella donna

            «dagli occhi dal volto scoperto diventato già un momento struggente impossibile a fissare».

Anche qui è presente il tema della morte, magari diffuso tra le righe, nel senso profondo della fine sempre vicina, di un olocausto definitivo sempre possibile. E perciò egli sente dolore, immane dolore, questa volta dolore fisico, fatto di amaro sapore di sangue in bocca, di polmoni che scoppiano dentro la scatola toracica. Dolore che diventa poi idea-fissa ne L’agguato, il terzo epilogo, il cui stesso titolo sta ad indicare che anche qui il tema dominante è quello della morte e del suo star dietro l’angolo. L’agguato è un   «morire […] che lo restituisce alla coscienza del silenzio e della paura […] fino alla fine».

È un ininterrotto monologo rivolto al proprio Super-Io, il conscio che cerca di abbattere l’inconscio, la vita che si contrappone strenuamente alla morte in agguato. Questo bellissimo parlarsi di Giovanni Bernardini dimostra il suo coraggio nel trattare le tragedie umane di incommensurabile catastroficità.

Qualche tempo fa, prima che Giovanni lasciasse questo mondo di lacrime, andai a trovarlo nella sua casa di Monteroni. Mi aspettava col sorriso sulle labbra. Per stare comodi, aveva scelto il divano migliore della casa, sul quale ci siamo seduti io con un “limoncello” da sorseggiare, lui con null’altro se non i suoi amati libri. Parlammo di scrittura, dei suoi 90 anni – anni che egli ormai vive con quella serenità tanto cercata durante l’intera sua esistenza -, della sua scrittura, di alcune memorie lontane nel tempo, come quella di una mia recensione post pranzo sul viale colmo di erbacce. Insomma parlammo di molte cose, ed egli, che di solito parlava poco, ritenendo il silenzio una delle forme più alte dell’espressività, invece, quella volta, si dilungò un po’ più del solito, spiegandomi alcuni enigmi della sua scrittura a me non ancora chiari. Passò in rassegna quasi tutti i titoli della sua ormai consistente bibliografia. Di uno solo Giovanni non mi parlò. Per la verità anche i suoi critici ne parlano poco. Eppure è il libretto che a me sta a cuore più di ogni altro per come è scritto, per come è fatto, per la collana a cui appartiene. Si tratta del n. 17 dei «Quaderni del “Critone”», curati da Vittorio Pagano. Ha una bellissima copertina, disegnata da Lino Paolo Suppressa, e contiene i disegnini schizzati dall’allora giovanissimo Alberto Bernardini, figlio di Giovanni. Il titolo: La neve, ormai rarissimo libretto (in tutto 200 copie numerate, finite di stampare il 10 dicembre 1965 dall’Ind. Tip. Ed. del Salento, a Lecce, in via Sozy Carafa, 74). La neve è anche l’ultimo capitolo del romanzo Compare brigante.

La neve è un elemento atmosferico che qui da noi, in Salento, non si vede mai. Quasi sempre è molto avara a farsi notare, tanto che Antonio L. Verri, amico e sodale di Giovanni, un altro nostro poeta e scrittore di “farandule” e metafore salentine, spesso la sognava. Così è stato anche per Giovanni Bernardini che, al suo lungo e dolce racconto dà questo epilogo:

            «un pettirosso saltellava solitario sulla ghiaia, scomparve dietro un mucchio di legna per riapparirvi in cima, immobile un attimo, poi subito volò via verso la campagna dove della neve non restava più che qualche ultimo lembo» (p. 48).

Bernardini e Nocera

L’ultimo epilogo, che dà il senso al tutto e che ho voglia di citare, è Probabile ritratto d’Autore. Qui Bernardini esplicita fino in fondo la drammatica condizione di un autore di oggi, un autore del Sud, per intenderci. Vien da dire quasi un autore come lui, anzi lui stesso, di un autore cioè che non scrive per venalità o per esibizionismo o vanità. Non è facile, come può sembrare al superficiale, fare questa operazione. Perché

            «le pagine bianche, i temibili fogli davanti ai quali ogni volta si scopre inerme desideroso di fuggire a nascondersi» glielo impediscono o «il pensiero vagola a tentoni» fino a che poi «la macchia, sì la macchia minuta si delinea […] e le parole non si schierano in ordine di battaglia muovendo all’assalto, già occupando le prime posizioni sui fogli».

Ecco come nasce il ritratto dell’Autore/Giovanni Bernardini. Per tutto questo, noi (io in particolare), gli siamo molto grati. Inchiniamo il nostro capo e siamo fieri e onorati di averlo conosciuto e amato.

NOTA. Volontariamente non ho incluso un commento su tutti gli altri libri di narrativa che sono venuti dopo. Qui mi sono concentrato soprattutto sulla sua poesia e sul suo fare poesia. Verrà il tempo in cui apriremo gli occhi su quel tanto che Giovanni ci ha lasciato.

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