IL PENSIERO MEDITERRANEO

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La contessa di Cocumola, una favola a lieto fine di una donna salentina

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Quello che vi narrerò viene annoverato tra le belle favole a lieto fine del nostro straordinario Salento. La mia personale opinione è che con molta probabilità questa storiella, caratterizzata da un sentimento d’amore semplice, pulito, ingenuo, ma forte, sia stata una storiella vera.

Nel lontano 1423 e precisamente il 23 di aprile, mercoledì, nel remoto e silenzioso borgo di Cocumola, una deliziosa signora, di nome Fermina, avanti negli anni, passeggiava solitaria nei pareggi dell’unica chiesa esistente nel borgo . Il 21 di settembre scorso aveva festeggiato i suoi 50 anni con i suoi familiari. Non si era mai sposata e asseriva di essere fidanzata con un caruso che risiedeva molto lontano, che nessuno, o quasi, aveva conosciuto. Lei ne era innamorata e rifiutava ogni avance da parte dei suoi compaesani. Era rispettata e benvoluta da tutti, dotata di una dolcezza che non passava inosservata. Gentile, riservata, la sua  disponibilità a rendersi utile alla comunità aveva favorito una grande stima nei suoi confronti e tutti le volevano un sacco di bene. Nel piccolo e modesto borgo sperduto nel profondo sud del Salento viveva uno scrivano, lo scribacchino, come qualcuno lo aveva soprannominato, conosciuto in tutta la contea, in quanto sapeva leggere e scrivere. Aveva avuto, in quanto figlio adottivo di una benestante famiglia di Tricase, la possibilità di studiare. Il suo nome era Fiorentino. Fiorentino era oramai anziano, aveva compiuto da pochi giorni i 70 anni, era felicemente sposato da oltre 40 anni e viveva a discretamente bene del suo lavoro. Scriveva lettere, predisponeva contratti agrari e tutti, bene o male, avevano bisogno della sua erudizione. Aveva una fervida intelligenza, astuto negli affari e ottimo conoscitore della legge. Nel borgo di Cocumola non si faceva nulla senza lo zampino di Fiorentino.

Fermina e Fiorentino si erano incontrati una sola volta, avendo avuto, Fermina,  bisogno di una missiva da inviare, non si sa dove, ma certamente molto lontano.  Fiorentino era solito vantarsi sottolineando, senza modestia,  la sua cultura e la scaltrezza negli affari e nel sapere trarre da qualsiasi cosa un tornaconto, che nella maggior parte delle volte andava a favorire non se stesso ma coloro che intorno a lui sapevano dimostrargli amicizia. Anche lui era stimato, perché aldilà della sua falsa modestia, era comunque sempre disponibile e altruista. Fiorentino e Fermina, come anzidetto,  si erano incontrati una sola volta, e pur vivendo da tempo nello stesso piccolo borgo, non si conoscevano se non di nome ma non di fatto.

In una bella giornata di maggio, quando il sole stava tramontando adornando il borgo di una straordinaria luce dorata, Fermina aveva finito di ricamare un centro tavola e stava recandosi a far vedere il suo lavoro ad una sua carissima amica. Era molto brava nei lavori  con l’uncinetto. Non solo, la sua fervida fantasia le permetteva di realizzare, attraverso il ricamo, disegni molto apprezzati che, in un certo qual modo le consentivano di vivere. Nell’attraversare la piccola piazzetta antistante la sua abitazione, scivolò, e avendo piovuto nella mattinata, combinazione volle che il suo ricamo cadesse in una pozzanghera. Per fortuna non si bagnò del tutto ma il fango lo aveva sporcato. Fermina, che aveva riposto in quel lavoro la speranza di un ricavo che le avrebbe concesso di arrivare sino a fine mese, con discrezione, cercando di non farsi notare dagli altri, pianse. Più si allontanava dalla piazzetta e meno gente incontrava, più il suo pianto aumentava.

Il destino volle che di fronte a lei sopraggiungesse Fiorentino che, salutandola, con la coda dell’occhio, si accorse del pianto di  Fermina. Fece due passi indietro e con fare gentile le rivolse la parola: «Signora, Signora Fermina, buon pomeriggio, cos’ha? Ha bisogno del mio aiuto? Posso fare qualcosa per lei?».

Con lo sguardo rivolto a terra e con gli occhi tumidi, Fermina rispose «Grazie Signor Fiorentino, va tutto bene, ho un po’ di allergia agli occhi, poi con questo sole così bello ma accecante, fa aumentare di più il mio disagio».

Fiorentino non era stupido ne tanto meno insensibile. Aveva notato del lavoro realizzato da Fermina, oramai insozzato dal fango e forse non solo da quello, per cui, avendo compreso la situazione, con fare gentile ma fermo, le disse: «Signora Fermina, Fermina, si faccia aiutare. Se vuole posso rimediarle il danno che ha subito, venga con me, qui appena fuori dal borgo c’è una piccola fontanella che nessuno usa perché un po’ fuori mano e nessuno sa che ha dei poteri magici. Venga, si fidi, non le costerà nulla, al limite avremo fatto una piacevole passeggiata insieme, sperando che la mia compagnia le sia gradita». Mentre Fiorentino proferiva queste parole, vide non poco lontano Cupido, che in quei tempi era solito interagire con gli umani. Gli sorrise e gli fece l’occhiolino.

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Il suo sbigottimento e la sua incredulità fu alquanto apparente per cui Fermina gli chiese cosa lo stesse turbando.

Sarà stato Cupido, quel bel pomeriggio di sole di silenzio e di serenità, la voce suadente e il volto radioso di Fermina, che Fiorentino incurante di quanto stava per fare, preso da una irrefrenabile voglia di abbracciare Fermina, le disse: «Fermina, non so cosa mi sta succedendo ma la tua presenza ha scatenato in me un grande desiderio di abbracciarti, di accarezzare il tuo viso, di baciarti sulle labbra. E’ come se tutto ad un tratto mi sentissi un ragazzino, che alla presa dei suoi primi amori gli batte forte forte il cuore. E’ qualcosa che inconsapevolmente da tempo mi porto dietro e solo adesso me ne rendo conto. Non vorrei sembrare sfrontato e irrispettoso ma sentivo l’irrefrenabile bisogno di dirtelo».

Fermina non si sarebbe mai aspettata una reazione di questo tipo. Nutriva della simpatia per Fiorentino, forse in cuor suo le voleva pure bene, ma non al punto di ricambiare il suo amore.

«Fiorentino, quello che mi hai detto mi lusinga, comprendo la tua genuina sincerità, ti voglio bene anch’io, ma il mio non è amore come quello che tu hai dichiarato a me. Vedi questo anello? E’ del mio amore lontano. Mi spiace, comprendo il tuo sentimento ma non posso ricambiarlo».

Fiorentino rattristito, mortificato, con gli occhi lucidi, baciando la mano di Fermina con un fare gentile come mai aveva fatto in vita sua, accomiatandosi, le disse di lavare la tovaglia alla fontanella, di portarla in casa e stenderla  ad asciugare per tutta la notte.

Si salutarono, Fiorentino prese la strada di casa e Fermina andò a lavare la tovaglia come le era stato consigliato e tornata a casa la stese e dopo una frugale cena andò a dormire. Non prese sonno subito, le parole di Fiorentino le avevano lasciato il segno. Una dichiarazione d’amore inaspettata ma non disdegnata, perché Modestino, se pur non rappresentasse per lei l’amore era una persona a cui ci teneva. Tra un pensiero e l’altro, prese sonno per svegliarsi il mattino dopo, un mattino splendente che solo le terre del Salento sanno regalare.

Nel recarsi in cucina, dove la sera prima aveva steso la tovaglia, si accorge che la tovaglia non c’è più. Sparita. Il suo sguardo viene attratto dalla sedia vicino al camino dove scorge la sua tovaglia ben piegata.

Il tutto le sembra inverosimile e il turbamento e una certa preoccupazione prendono il sopravvento. Vuoi vedere che Fiorentino durante la notte è abusivamente entrato in casa? Oddio cosa sarà successo? Queste sono le perplessità che frullano nella testa di Fermina. Prese la tovaglia e la stese sul tavolo  accorgendosi che tutti suoi ricami si sono trasformati in oro, con un centinaio di pietre preziose incastonate. Aveva perso la parola. Sbigottimento e incredulità lasciarono ben presto il posto a tanta felicità.

Uscì di casa e ai suoi vicini chiese se avessero mai utilizzato la fontanella appena fuori il borgo. Le risposero che non esiste nessuna fontanella ne tanto meno che abbia qualche potere magico. Chiese se avessero visto Fiorentino. Fiorentino chi? Le risposero in coro. Lo scribacchino. Lo scribacchino? Alcune delle sue amiche si preoccuparono dello stato confusionale di Fermina in quanto sia la fontanella nonché Fiorentino non erano mai esistiti. Turbata, disorientata, sconvolta, corse a casa per verificare  se anche la tovaglia altro non fosse stata che un sogno fatto ad occhi aperti.

La tovaglia era ancora sul tavolo, splendente e raggiante con i suoi filamenti d’oro e con le pietre preziose.

Pensò immediatamente a Fiorentino, avrebbe voluto abbracciarlo, ringraziarlo ma non sapeva come fare. Per giorni e giorni chiese per tutta la contea di Fiorentino ma tutti sembravano essersi messi d’accordo nell’asserire di non aver mai conosciuto o sentito parlare dello scribacchino .

Fermina successivamente sposò il suo amore lontano, con le pietre preziose comprò un grande castello e con il castello anche il titolo di contessa. Ebbe una vita felice e spensierata e non dimenticò mai Fiorentino, non perché da lui ebbe questa grande fortuna, ma perché le rimase scolpito nel cuore la dolcezza con cui quell’essere irreale le aveva detto di amarla.

Fiorentino e Fermina sono due nomi che io ho voluto assegnare ai due protagonisti di questa storiella ispirato dal libro “L’amore al tempo del colera” che consiglio a chi ancora, nel XXI secolo, crede nell’amore quale vera storia romantica.

Infine non mi resta che, in occasione della Giornata Mondiale della Donna, dedicare a tutte voi questa paginetta “romantica” certo che a qualcuna di voi, il cuore continua a battere “forte forte”.

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