IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Le “case di tufo” di Luigi Bray

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di Maurizio Nocera

Per i tipi di Vittoria Iguazu Editora, è stata pubblicata nel 2021 la raccolta di poesia Case di tufo del poeta Luigi Bray, salentino doc che vive però nel Nord Italia. Lo stesso titolo del libro ci dice quanto sia profondo il legame del poeta con le sue origini. Infatti al Nord non ci sono case di tufo, perché esse insistono invece solo al Sud, in particolare nel Salento, dove il carparo tufaceo è presente abbondantemente.

La silloge si apre con i Ringraziamenti del poeta, rivolti a

            «Riccardo, amico affettuoso ed editore attento./ Andrea Colamedici per il tempo della meraviglia […]/ Michele Cerro per le sue dolci pennellate […]/ Laura Rizzo per la puntuale consulenza sul titolo/ Le ragazze e i ragazzi della comunità “F. Abbondanza”, senza i quali molta poesia non sarebbe stata scritta./ I miei nonni assenti ingiustificati».

Poi ci sono dei distici assemblati, che dicono:

            «Alle assenze di questo tempo sospeso. Perché l’oblio della quotidianità non le dimentichi./ A chi si è infagottato di nuove stoffe./ Ai vivi perché ricordino./ Alle paure che ci scrolliamo per riconsegnarci esseri più leggeri./ Al tempo che, come sappiamo, “Invecchia in fretta”./ A Caterina e Marco frequentatori di futuro».

Per chi non lo sapesse Caterina e Marco sono la moglie e il figlio del poeta.

Bella l’introduzione di Andrea Colamedici, che scrive:

            «La poetica di Bray è un esercizio di uscita dal tempo, di sguardo dall’alto che rende manifesta persino la malinconia del digitale, sospesa tra modernità ed alchimia. È la nostalgia eterna che un giorno proveranno le generazioni future verso quel che oggi ci sembra avveniristico […] e che grazie alla poesia possiamo vivere persino per il futuro./ La distrazione, la stanchezza, la noia, il vento, l’effimero, il mare: nei suoi versi la nostra vita si manifesta finalmente come un’inedia vorace, una saggezza che esprime il proprio vertice nel tentativo di disfarsi di se stessa. Ed è una stanchezza ancestrale, portatrice di quell’eredità preziosa che Bray trasmette lucidamente nelle sue parole: il dono dolcissimo e assurdo dell’essere umani» (dalla quarta di copertina).

Nel 2011, quando Luigi Bray pubblicò la raccolta di poesia I sorrisi e le rose, mi piacque scrivere una sua riflessione, ripresa dal grande poeta portoghese Ferdinando Pessoa:

            «Essere poeta non è una mia ambizione. È la mia maniera di stare solo».

E scrivevo pure che conoscevo Luigi da quando aveva «ancora i pantaloni corti (lo so, è un’esagerazione, ma sta per dire che lo conosco da tanto tempo) e passava le giornate impegnato a fare seriamente politica per un partito che egli sentiva vicino al mondo del lavoro e dell’impegno sociale e culturale. Non si è mai risparmiato Luigi, e le sue migliori energie le ha profuse in direzione dell’emancipazione dell’umanità. Tuttavia, nonostante egli svolgesse l’incarico politico, mai ha smesso di dedicarsi alla lettura dei classici e soprattutto dei testi poetici. Per cui, come dire, è stato facile per lui passare dalla lettura al tentativo di scrivere sulla pagina bianca i suoi versi.

Di quando in quando, alcune delle sue poesie Luigi me le passava per leggerle, insisto solo per leggerle, perché al giovane poeta non interessava conoscere il mio giudizio o una mia considerazione di merito. Anzi: spesso, dopo avermele consegnate, egli si eclissava totalmente, per cui era per me impossibile dirgli che mi erano piaciute, che mi avevano fatto passare momenti di serena lettura. Dovevo aspettare una delle occasioni di incontri pubblici, magari la presentazione di un libro, o una manifestazione politico-culturale, per incontrarlo nuovamente e dirgli cosa pensavo dei suoi versi. Quasi sempre finivo col dirgli che non solo mi erano piaciuti, che li avevo trovati interessanti, ma che sarebbe stato pure utile pubblicarli perché qualcun altro, leggendoli, avrebbe provato le mie stesse emozioni, il mio stesso sollievo.

Niente da fare. La risposta di Luigi era sempre la stessa. Perentoria: «Non si tratta di poesia. E poi io non sono poeta». Gli rispondevo che il giudizio se uno è o non è poeta, non spetta a lui medesimo quanto a chi lo legge. Ciononostante, niente da fare. Per anni, Luigi Bray ha resistito alla mia richiesta di pubblicare i suoi versi. Per uno come me che ama la poesia e che senza di essa non saprebbe come vivere, sentivo la sua risposta come una sonora sconfitta. E andavo alla ricerca dei motivi che la determinavano. Infine, deluso, ho finito col perdere tutte le speranze di vedere pubblicate le poesie di Bray.

La vita poi ti porta a fare altre cose, a porti altre domande, a perderti nei mille e uno rivoli dell’effimeratezza e della quotidianità. Fino a quando, all’inizio di quest’estate 2011, come un fulmine a ciel sereno, una email da Martignano, a firma di Luigi Bray, garbatamente mi chiedeva se poteva inviarmi una raccolta di poesia, alla quale scrivere alcune righe di presentazione.

Apriti cielo! Nessuno ci crederà ma, con ancora aperta la piaga della sconfitta subita a causa del non riuscito convincimento a fargli pubblicare le sue poesie, mi sono alzato dalla scrivania e, come un bambino che ha appena ricevuto il dono che da tanto tempo aspettava dalla mamma, mi sono messo a ballare nella stanza davanti ad altri occhi presenti e stupiti che mi giudicavano quasi fossi un matto.

Mi sono messo subito a leggere i versi di Luigi Bray, poi a rileggerli. In essi c’è tenerezza, incanto, voglia di riscatto, voglia di essere presente, voglia di dire al mondo che c’è bisogno di giustizia sociale, che occorre rispettare la natura, che a volte basta un piccolo sorriso per trovare la soluzione a un problema difficile, che l’umanità è tale se riesce a vedere la bellezza anche nei piccoli gesti della quotidianità.

Dopo qualche giorno, rispondo alla mail giuntami da Martignano, dicendo sì alla richiesta di Luigi, ma che di tempo ne è passato tanto e che di lui, di quello che fa, di dove e come vive, di come passa le sue giornate, non so più nulla. Nuova risposta, dalla quale vengo a sapere che si è sposato, che vive felicemente con la moglie e una bimbetta che è la gioia dei suoi occhi, che lavora presso un’azienda salentina, e che si è finalmente deciso di pubblicare i suoi versi, perché egli la poesia l’ha incontrata presto, da quanto la sua maestra (la signora Rosetta) delle elementari, disse a lui e ai suoi compagni di provare a scrivere una poesia. Luigi ricorda che molto probabilmente egli si esercitò in uno scritto che aveva a che vedere con la religione. Oggi è ancora rammaricato per non essere riuscito a rintracciare quel vecchio infantile componimento. Bray mi scrive poi che da allora egli non smise più di scrivere versi, perché, sono parole sue, «la poesia mi accompagna nella quotidianità, come una macchina fotografica che mi porto sempre dietro».

Vengo a sapere inoltre che nella vita egli si è sempre sentito colpito da due pensieri forti: quello di Pessoa, che abbiamo visto sopra, e quello del sempre amato Cesare Pavese, quando scrive: «Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi».

Infine, la sua stoccata finale: «Non ho mai pensato, credimi Maurizio, è così, d’essere poeta, troppo impegnativa questa definizione. Preferisco continuare a giocare con le parole, per fissare attimi, forse mai esistiti, forse vissuti, forse da vivere piuttosto che credere d’essere qualcosa che non mi sento d’essere. Condividere dei sentimenti per vedere se possono diventare ‘comunità’. Mi piacerebbe essere un partigiano della poesia perché la poesia per me è un modo per non essere indifferente, perché è proprio vero, gli indifferenti sono odiosi».

Che dire? L’ultima dichiarazione di Luigi Bray di non sentirsi poeta, rivolta poi a me, vecchio ‘scrivitore’ (definizione datami dal buon Antonio L. Verri), mi giunge alle orecchie come la sommessa affermazione di un buon poeta che, giustamente, prima di sentirsi o definirsi tale, ama giocare con le parole e lottare come un partigiano alla conquista di un salutare spazio poetico.

Sia chiaro, conoscevo Luigi fin da quando aveva «ancora i pantaloni corti» (ovviamente si fa per dire), impegnato com’era nel dedicarsi alla lettura dei classici e soprattutto dei testi poetici. A quel tempo egli negava la sua poesia, tant’è che, alle mie perentorie richieste di pubblicazione, rispondeva sempre «che non se la sentiva di farlo». Poi la metamorfosi: il giovane poeta martignanese, impegnato nella battaglia per la difesa dei diritti umani, mi scrive da Martignano che voleva una mia introduzione alla sua prima silloge. Lo feci.

La sua attività di poeta, schivo e appartato, lo ha portato oggi a questa nuova silloge, Case di tufo. Me l’ha inviata con la dedica: «Settembre 2021. A Maurizio e Ada/ con l’affetto di sempre. Luigi».

Colamedici definisce la raccolta presente come «dono dolcissimo». A ciò io aggiungo nostalgico, e non nel senso comune del termine, abusato e bistrattato a più non posso da cialtroni e ignoranti, ma nel senso etimologico della parola: dolore, sofferenza, male di vivere nel ricordo di ciò che è passato e mai più può ritornare.

Già la sua prima poesia è colma di tutto ciò:

            «Gli amori rimandano/ ai nostri animi inquieti;/ come innocenti specchi./ Alla fine loro ci fanno/ (ci hanno fatto),/ origliare il sangue che fluisce,/ sentire vivi,/ nel bene e nel male./ Ci manca non il loro essere,/ ma quello che ci facevano sentire./ Almeno credo».

È quel «che ci facevano sentire» del penultimo verso che ci rimanda alla nostalgia di cui parlavo.

E ancora:

            «Ricordo il tuo canto leggero,/ penso di ricordarlo,/ ma poco importa,/ abbiamo riempito inostri sospiri con il nulla./ Tu sei inchioda,/ io, partito./Ci siamo persi/ da un punto più in là./Rimangono le assenze/che non siamo mai in grado di presenziare./ Poche parole./ Singhiozzate./ Passi in-versi./ Scontrini di visite mai fatte./ Tu non conosci le mie lacrime,/ed io le tue/ Ci lega una ferita. Inconsapevole./ Eterna e carnale./ È affanno l’amore».

È quell’«affanno l’amore» che ci lascia col sospiro sospeso. La sospensione è la condizione dell’amore nostalgico, che provi una volta poi mai più.

Tutto questo ma non solo, perché poi leggiamo altro. Come nel caso di

            «Come perdersi/ tra un frammento e un dettaglio./ Solo due giorni prima/ ad un giorno di ritardo./ A pochi passi dal suolo./ Galleria di sensazioni e di ottimismo./ Divenute pietre./ L’annotazione a mano/ non parla più con una bella grafia./ Si perde di fronte a un latro giorno./ Così all’infinito./ L’addio ad un volto.// Il suo appoggio poetico./ Tra modernità ed alchimia./ Ogni arte ha il seguace./ Falchi sospesi in attesa/ di un giorno di felicità./ Diventano pochi, (pochi)/ dettagli e frammenti./ Dimenticati».

Si tratta dei dettagli e dei frammenti della vita che passa.

E ancora.

            «Il tagliacarte con la sua rifinitura greca/ non riesce a far nulla con l’ultima mail./ Come sorsi di luce e stanchezza, verso il mattino./ Dentro queste finte lettere/ dal sapore di uomo assorto./ Ho messo in fila un piccolo torneo di umanità,// sicuro di non avere mai avuto un momento d’armonia.// Io sono come loro./ Luigi Bray/ il tuo destino è vivere in un tiretto/ di lettere e letture./ Smarrite./ Siamo così./ Lontani da tutti./ Dentro queste mail./// Persi dentro minuta fantasia».

Stupendo, questo, ritratto di vite smarrite in un contesto sociale dilaniato dalla rivoluzione tecnologica.

Infine, la poesia che dà poi il titolo alla silloge:

            «La mia casa al mare/ è una casa di tufo.

Carparo./ Come le altre,/ tufo e calce/ patina su patina di ossido di calcio,/ ogni anno uno nuovo./ Così, anno dopo anno./ Strati bianchi di tempo./ Erano fatte così/ le case di tufo;/ bianche stelle/ dentro un incastro stregato./ Purificata./ Sono come gli uomini e le donne,/ il tufo;/ si sgretola ma sostiene tutto./ Resistenza e trasformazione./ La mia casa al mare/ è una casa di tufo,/ corrosa ma non corrotta dal mare./ Tutti dovrebbero avere/ una casa di tufo dove tornare».

Poesia alta quella di Luigi Bray che, leggendola, ti fa stare bene, nel chiuso dei tuoi pensieri, nella sospensione del tempo che, Signore di ogni cosa, languisce.

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