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La resa giapponese nella II Guerra Mondiale: un epilogo che parte da lontano …

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La Resa giapponese

La Resa giapponese

di Eliano Bellanova

L’attacco alla base navale di Pearl Harbour, nelle isole Hawai, parte da lontano.

La strategia dell’Impero nipponico e, anche, quella degli Stati Uniti d’America, non potevano che condurre alla rotta di collisione per la difesa dei reciproci interessi.

Nel dicembre 1941 la guerra in Europa compie oltre due anni, durante i quali le agguerrite e apparentemente inarrestabili Armate germaniche avevano sconvolto gli equilibri euro-mondiali.

Dalla questione austriaca, al caso Cecoslovacchia e, infine, Polonia, gli eventi si erano succeduti con un vortice da capogiro.

Il Diktat di Versailles, mai metabolizzato dalla Germania, raggiunge l’apice del “diniego” allorquando le truppe naziste varcano la frontiera polacca, prendendo a pretesto il Corridoio di Danzica, che garantiva alla Polonia lo sbocco al Mar Baltico ma divideva in due il territorio tedesco, esattamente nelle regioni che nella Prima Guerra Mondiale erano state teatro di epici scontri fra la Russia e la Germania.

Il 1° settembre 1939 si alza il sipario della guerra europea, mentre esattamente sei anni dopo il Giappone firma la resa.

Il Patto Tripartito, stipulato fra Germania, Italia e Giappone, appariva come la riedizione della Triplice Alleanza stipulata nel 1882.

L’anomalia è costituita dal fatto che a comporre il sodalizio siano due potenze vincitrici (Giappone e Italia) e una potenza sconfitta (la Germania).

La Germania nel settembre 1939 inizia da sola la guerra, coprendosi le spalle a Oriente, stipulando il Patto di non-aggressione con l’Unione Sovietica di Stalin.

Stalin aveva trovato in Hitler un ineguagliabile “collega” in fatto di cinismo e spregiudicatezza, per cui partecipa all’ennesima spartizione della martoriata Polonia.

Essendo stata aggredita dai sovietici e dai tedeschi, la dichiarazione di guerra alla sola Germania da parte di Gran Bretagna e Francia, sembra un’anomalia, sulla quale si è imperniato un inestinguibile dibattito storico dalle tesi e ipotesi le più disparate possibili.

“Vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”, forse anche Alessandro Manzoni si sarebbe astenuto o avrebbe trovato difficoltà a schierarsi da una “parte” o dall’ “altra”. E poiché il fatto esula dalla presente trattazione, “ci chiamiamo fuori”, come nel gioco del tressette.

Nel giugno 1940 l’Italia scende in guerra e poco dopo il proclama alla nazione del capo del Governo Benito Mussolini trova increduli, consenzienti e “astemi” che rifiutano il “vino fascista”.

Lo “spezzeremo le reni alla Grecia” si rivela un calice amaro, tant’è che le esigue truppe elleniche passano al contrattacco sul confine albanese costringendo alla ritirata e poi all’acquartieramento le Armate italiane.

In effetti, i vertici italiani avevano “ventilato” l’ipotesi dello sbarco sulle coste greche per evitare di impelagarsi sulle montagne dell’Epiro e della Grecia propriamente detta. Gli Alti Comandi della Marina si erano opposti, sia per timore di un contrattacco britannico, sia perché la flotta era priva di adeguati mezzi da sbarco, che avrebbero potuto incontrare problematiche difficoltà nell’assalto alle frastagliate coste greche, come dichiarato da Inigo Campioni (Comandante in capo della Flotta) e dagli Ammiragli Jachino, Sansonetti e Riccardi.

La guerra di posizione, una penosa riedizione della guerra di trincea della Prima Guerra Mondiale, è in fase di stallo, quando la Germania, ponendo fine con un colpo di maglio alla guerra parallela, spedisce le sue truppe in Jugoslavia e poi in Grecia per liquidare la questione greca.

A Papagos, che aveva dimostrato tanta capacità strategica con le deboli truppe italiane,  viene presentato il conto dai grandi della guerra germanici: Wilhelm List (Comandante in Capo germanico), Maximilian Von Weichs, Ludwig Von Kleist e Kurt Student.

 L’Operazione Marita, varata dai Tedeschi e diretta contro la penisola balcanica, ha quindi il duplice scopo di conquistare la Jugoslavia e di penetrare in Grecia per metterla in ginocchio e, nello stesso tempo, privare l’Italia dell’ipotetica supremazia nel Mar Mediterraneo e contenere la preponderanza inglese “attestata” dalle basi navali di Gibilterra (Amm. Somerville) e Alessandria d’Egitto (Amm. Cunningham).

Il 1941 dimostra che la Blitz-krieg sia un sogno irrealizzabile.

L’attacco tedesco alla Russia straccia il Trattato Molotov-Ribbentrop e consegna il mondo ad altri quattro anni di guerra su tutto il globo.

Il 7 dicembre 1941 la task-force al comando dell’Amm. giapponese Nagumo attacca la base statunitense delle Hawai e “costringe” Roosevelt alla guerra, dopo la laconica dichiarazione consegnata dai diplomatici nipponici all’America.

Il Primo Ministro nipponico Tojo il 1° dicembre 1941 al Consiglio della Corona aveva dichiarato: “Sulla base della decisione del Consiglio della Corona in data 5 novembre, la nostra Armata e la nostra Marina hanno lavorato al completamento dei preparativi per le loro operazioni, mentre il Governo ha intrapreso tutti gli sforzi che gli erano possibili per migliorare le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti”.

In realtà, nell’autunno 1941 il Giappone aveva già predisposto i piani operativi per lo scacchiere del Pacifico.

La Marina nipponica aveva già predisposto i piani di attacco a Pearl Harbour. Il Capo di Stato Maggiore della Marina Amm. Nagano, il Comandante delle Flotte riunite Amm. Yamamoto e il suo Capo di Stato Maggiore Amm. Ugaki, avevano raggiunto l’accordo per ordinare l’attacco alle Hawai, sotto la direzione suprema dell’Imperatore Hiro Hito e del Primo Ministro Gen. Tojo.

Il 26 novembre 1941 la Flotta nipponica al comando dell’Amm. Nagano fa rotta verso Pearl Harbour. L’indicazione della rotta sarebbe stata ottenuta in un modo inedito e singolare: la musica delle canzoni ascoltate dai soldati statunitensi di stanza alle Hawai.

Il gruppo di attacco è affidato all’Amm. Nagumo. Le portaerei giapponesi con i velivoli a bordo avrebbero svolto una parte fondamentale nell’attacco a Pearl Harbour.

L’attacco riesce parzialmente, in quanto le portaerei statunitensi non sono presenti alla rada di Pearl Harbour.

Tuttavia l’esito è ugualmente disastroso per la Marina statunitense.

I colloqui fra il Principe Konoye e Cordell Hull avevano ottenuto un esito negativo…

Si apre con Pearl Harbour la lunga guerra del Pacifico fra giapponesi e statunitensi.

Il Maresciallo Douglas Mac Arthur è costretto lasciare al Gen. Wainwight il comando dopo la laconica espressione “ritornerò” pronunciata a Corregidor nelle Filippine.

Amato e apprezzato dagli indigeni, Mac Arthur sarà il simbolo della resistenza statunitense.

Tornerà in auge anche dopo la guerra quando la Corea del Nord attaccherà la Corea del Sud per sovvertire l’ordine ottenuto sulla base del 38° parallelo.

Il 6 maggio 1942 al Monte Malinta il successore  Gen. Wainwight si arrende al nemico.

Mentre le foto delle corazzate statunitensi Arizona, West Virginia, Arizona e Tennessee fanno il giro del mondo, il10 dicembre 1941 anche la Marina britannica paga il suo tributo, con l’affondamento delle corazzate Prince of Wales e Repulse. Scampata miracolosamente ai calibri della Bismarck in Atlantico, la Prince of Wales scompare con la sua “gemella” dalla scena della Seconda Guerra Mondiale.

Il Pacifico sarà un mare di fuoco e fiamme, senza esclusione di colpi, in un logoramento che condurrà alla resa del Giappone, in seguito al lancio delle atomiche su Hiroshima (6 agosto 1945) e Nagasaki (9 agosto 1945).

Il 2 settembre 1945 sulla nave Missouri il Giappone firma la resa. I sottoscrittori sono il Gen. Yoshijiro Umezu per conto del Giappone e il Maresciallo Douglas Mac Arthur per conto degli Stati Uniti. Alla cerimonia sono presenti, per volere del Comandante Supremo del Pacifico, il Gen. Jonathan Wainwight e il Gen. britannico Arthur E. Percival, liberati dal campo di prigionia nipponico poco prima.

A 77 anni di distanza dalla fine dell’immane conflitto, che aveva seminato morti e distruzioni, si apre sul mondo uno scenario dagli esiti incomprensibili e incerti. Il mondo continua nel suo viatico che potrebbe essere il preludio di una tragedia senza soluzioni. Il conflitto russo-ucraino, che si protrae da sei mesi, sembra entrato in un vicolo cieco. I protagonisti cambiano, ma lo scenario si ripete con una cadenza che chiede sempre un contributo di sangue.

La fine della Guerra Fredda, successiva alla caduta dell’Unione Sovietica, sembrava preludio di un mondo dominato dalla pace. Invece oscuri bagliori di guerra incombono sull’umanità, sull’altare di interessi occulti e patenti.

Le zone calde del mondo destano apprensione e rivelano la debolezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, così come era accaduto alla Società delle Nazioni.

Gli attori hanno un nome diverso. La tragedia ha un solo nome, che non muta e si rivela in epigoni sempre alla vanga e pronti a chiedere all’umanità l’ennesimo tributo di sangue e dolori.


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