IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Profumo del passato”, un libro di Vincenzo Fiaschitello (Avola, Libreria Editrice Urso, 2019)

copertina volume

di Vincenzo Greco, e sei componimenti scelti dal testo

Da una amichevole conversazione avuta con l’Autore, ho appreso il segreto della sua poesia, come  siano autentiche le emozioni che riesce a trasmettere e come sia teneramente viva la rivisitazione di una infanzia e di una età giovanile, non certo ridotte a semplice rimpianto per un tempo che non c’è più o a pura nostalgia.

Tutti i suoi versi sono percorsi da una vena di malinconia che certamente è parte della sua personalità e che tuttavia non gli impedisce di trattare i temi prediletti con levità, sempre accompagnata da riflessione morale sulla vicenda umana; malinconia che si manifesta con una sorta di “distacco” dal dolore: “quiete apparente che scuoteva il cuore/ e ci insegnava a piangere/senza lacrime” (Sul tuo volto pallido). E ancora: “Sbocconcellavo i miei pensieri/ di bambino frammisti a dolore/e pudore” (La roba perduta).

Copertina

Quel che Vincenzo Fiaschitello mette in moto sono i ricordi, le cose che ha lungamente desiderato, amato, le persone, i luoghi. È tutto un mondo che naturalmente gli appartiene, è suo, qualcosa che ribolle di continuo nella sua interiorità. È un io poetico che non di rado si confronta con se stesso, con la sua anima. E così facendo si confronta con il lettore, il quale è lì, pronto a richiamare a se stesso il proprio mondo interiore parallelo, a completare, a provare quelle emozioni nascoste da tempo in qualche angolo oscuro della propria coscienza. Piccole emozioni, una dopo l’altra, suscitate dalle piccole cose, dalle impressioni visive, dai suoni vissuti nel ricordo, si intrecciano, si congiungono, fino a ricreare il panorama di una età perduta, irraggiungibile, se non nel sogno o nella visione poetica.

Tutto ciò è espresso con una scrittura che, pur non disdegnando la lingua di tutti i giorni, si veste di eleganza e saggia ricercatezza. “Io vado alla ricerca di parole -mi diceva Fiaschitello- perché il segreto sta nella parola. Essa è come una lampada, una specie di lampada di Aladino, che una volta scovata, udita, letta, sognata o pensata, si accende e mi suggerisce una emozione. E’ bello scoprire l’essere delle parole, anche di quelle scartate e buttate fra i rifiuti; è bello scostare quelle ombre che le ricoprono e le nascondono all’uso precipitandole nel silenzio. L’amore per la lingua mi sollecita a rispolverare le parole, a togliere loro la patina di ruggine, accostandole ad altre, per donare loro luce e sonorità nuove”.

Non trovo nei versi di Fiaschitello la presenza di complesse e affermate poetiche (simbolismo, ermetismo, avanguardia…), ma la ricerca di immagini e gesti semplici, concreti, che, rimasti scolpiti nel suo animo, tornano a rivivere con sincerità e struggente nostalgia.

La terra e i mari di Sicilia sopravvivono interiormente nella memoria: “Tu, nobile mar Ionio/ti offrivi solo di lontano/al mio sguardo acuto/di fanciullo” ( Tu, nobile mar Ionio). E’ questo il miracolo dell’anima che non ha più bisogno di pronunciare parole perché è solo il profumo del passato, di un passato che si è nutrito di gioie e di dolori.

La memoria, nella poesia di Vincenzo Fiaschitello, è un elemento lirico fondamentale che dilata lo sguardo sul mondo contemplato lungo gli assi kantiani di spazio e tempo, così che esso può correre verso l’infinito. Qui la memoria gioca un ruolo catartico, nel senso che ci guida a ritrovare quel che abbiamo vissuto un tempo e che ora, assopito e relegato nel sonno inattivo, si risveglia e scopre nelle piccole cose, nei minimi eventi, qualcosa che dà senso al nostro vivere. E’ per questa apertura verso la riflessione etica e filosofica che l’evocazione di luoghi, di personaggi, di sfumature, di incanti e di ferite, non resta un qualcosa che commuove e rende semplicemente ricettiva la coscienza, ma si propone in funzione di una volontà di impegno a costruire il presente, a prospettare nuove interpretazioni del mondo in cui si vive: “Ognuno vive/con la propria tristezza murata nel cuore/ ma cerca in ogni dove/il sorriso” (Un dono raro). E ancora di fronte al disfacimento delle cose terrene, l’unica cosa che resta e che può dare conforto è di farsi “eco del cuore di Dio” (Io sento nenie).

L’uso frequente di metafore che, trasformando i significati delle parole, rivelano verità nascoste, si muovono in verticalità (Dio, infinito, natura, destino…). Attraverso un fragile, delicato, ordito narrativo, l’io poetico di Vincenzo Fiaschitello manifesta una istanza allegorica nella quale si scopre un messaggio carico di tenerezza e in armonia con il tutto che governa il mondo: “Sento l’aroma dell’assenza di qualcosa/ e l’anima bagnata farsi sempre/più stretta” (L’aroma dell’assenza di qualcosa).

Pare qui opportuno precisare che i temi prediletti da Fiaschitello sono quelli del mare, dell’usura del tempo, dell’eterno fluire delle cose, del sentimento del vuoto, della solitudine, della partenza dal luogo natio, dell’impotenza di fronte al destino della morte.

E questi temi, intrecciati ai ricordi, fluiscono in versi che sfiorano sequenze prosastiche, narrative. Sono versi e non prosa perché le parole nuotano in acque sospese tra cielo e terra, si addensano in una temperie di emozioni, sensazioni e pensieri; sono parole che, pur non perdendo il contatto con la lingua corrente della comunicazione, trovano una elevatezza inusitata, un legame tra suono e significato, un accoppiamento tra suoni che creano musicalità e ritmo. E questo anche non ricorrendo alla metrica classica e alla rima. Infatti i versi di Fiaschitello non rientrano negli schemi tradizionali della poesia; la sua è una poesia non legata alle regole fisse delle poetiche classiche, proprio perché l’Autore vuole restare fedele alla singolarità della propria esperienza, al soffio originale del proprio spirito.

A proposito della mia osservazione che non era possibile inquadrare la sua poesia all’interno di una precisa teoria, Vincenzo Fiaschitello così rispondeva: “Per quel che mi riguarda preferisco che si pensi e si continui a pensare in tal modo. Il metro? Forse è giunto il momento di non farsi tentare nel giudicare una poesia e lo stile del poeta sulla base di una esclusiva considerazione di nozioni astratte intorno alla modalità della scrittura in versi e di concentrare l’attenzione su che cosa dice la poesia, sul suo ritmo, sulla sonorità delle parole e sul loro accostamento. E la rima? Io dico che se la rima viene, che sia la benvenuta, non sarò certo io a mandarla via!”

Un’ultima questione. Se ci chiediamo qual è o dov’è l’io del poeta che lascia queste tracce così limpide e vive sulla carta, siamo sicuri di affermare che non possiamo unicamente trovarlo nella sua autobiografia. Certo c’è un io autobiografico, ma spesso questo io è frammisto a quello di tanti altri: familiari, compagni, persone conosciute e sconosciute, ma anche cose inanimate come fiori, luoghi, sentieri, colline, stelle, mare. Tutte cose e tutti io che i ricordi fanno emergere con tale vigore affettivo che ti fa emozionare, che ti strugge di malinconia.

Il poeta Vincenzo Fiaschitello non scrive solo sulla carta, ma anche sul cuore e sulla mente dei lettori che ne percepiscono le immagini suggestive.

Sei poesie tratte dal libro di Vincenzo Fiaschitello: Profumo del passato, Avola. Libreria Editrice, 2019

Come un suono triste

Come un suono triste
di marranzano
che ti vibra in gola
e poi lentamente muore,
la vita se ne va.
E ti sembra cosa assurda
questa carne che ti porti
appresso,
trascinata, trasmutata,
derivata da quel grumo
sanguinolento che mani
esperte alzarono
perché l’aria desse l’avvio
al grido della vita,
mani che tagliarono
e separarono da altra carne,
da altro tu,
dove nuotava il tuo oscuro io.

Contavamo le stelle

Supini, con gli occhi verso
il blu cobalto del cielo
contavamo le stelle.
Gioie ammassavamo,
come grano nel granaio,
nel timore del sopraggiungere
di tempi bui. Anche l’autunno,
leggero volo di farfalle,
si adagiava accanto ai nostri cuori.
E tu pensavi d’essere curiosa
come gli angeli che spalancano
le ali e volano a guardare
come culla una madre il suo bambino.
E io pensavo allo scorrere
delle brevi stagioni che vanno
a morire una sull’altra.
E tu pensavi a quel sorriso ultimo
che avresti serbato per me.
io pensavo a te, acqua dolce
e salata che il fiume conosce alla foce,
alle lacrime che t’avrei procurato
per riempire le buche degli anni.

Non rammento più

se i tuoi occhi erano neri,
più non rammento
se t’incontrai una sera di primavera,
se portavi la gonna a quadri,
se parlavi la nostra lingua,
se ti offrii un fiore,
non rammento più
se eri bionda o bruna.
Oh, annaspante memoria,
perché vuoi far passare
il mio pensiero come il filo
sottile entro la cruna?
L’hai creduta vera
quella sera di primavera,
ma era solo il sogno della nascente
gioventù! Ora sì, lo ricordo bene
che mi diceva: vuoi proprio amare?
Amare?
Amare sono le pene, amare sono le liti,
amare sono le lacrime!
Poi scoprii che
amare è guardare il viaggio della luna,
amare è odorare il bianco gelsomino,
amare è fare una carezza  lieve
come la brezza del mattino,
amare è tenere lontano la tristezza
anche se il cuore è nudo.
Ma ora che ci penso… non so
se mai sei stata per me rosa sublime,
non so nemmeno se eri nei miei pensieri.

Sul tuo volto pallido

Sul tuo volto pallido leggo i sogni
svaniti di un tempo felice.
Nei tramonti d’estate l’eco di cicale
tracciava solchi sul nostro animo,
gli occhi traboccanti ancora
di onde di calura che s’alzavano
dalle scure vie asfaltate
a gobba d’asino per raccogliere
ai lati quell’acqua che l’avaro
cielo non voleva concedere.
A sera bastava una dolce brezza
a confortare i nostri pensieri,
a farci travolgere da una quiete
apparente che scuoteva il cuore
e ci insegnava a piangere
senza lacrime.

Il tuo sorriso

Sui rami d’oleandro
la tua mano posi e mi guardi,
un sorriso negli occhi ti splende,
più che sulla bocca dalle labbra
di ciliegia.
Come sa di dolce malinconia
e di svanita adolescenza
questa postura del tuo corpo
lasciato all’onda dei ricordi.
Vorrei saccheggiare la tua memoria,
i tuoi pensieri accerchiare
e vibrare all’ombra dei tuoi silenzi.
Appollaiati tra i rami degli alberi
si preparano al sonno gli uccelli,
lapidati dal primo freddo d’autunno.
Ai nostri anni rugginosi diciamo addio,
mi restano nel cuore le parole timide
e confuse che all’orecchio
mi sussurrasti un giorno.

Esodo dalla terra natia

Rammento ancora il giorno
della partenza quando tu, padre,
con la valigia sulle spalle carica
dei sogni miei, nella mattutina
luce mi precedevi con giovanile
passo e io, dietro, masticavo
la tua ombra fino alla stazione, dove
il treno che portava al continente
mozzava radici e spegneva stelle.
 “Non tornare più -mi dicevi-
qui la terra è arsa, le case povere
e macchiate di odi e di paure.
Semmai saremo noi a cercarti!”
Erano parole dal sapore amaro,
che giungevano al cuore disidratato
di gioia. Anch’io partivo come
le ultime rondini, altri avevano
lasciato da tempo quei luoghi
e quegli affetti.
Di tanti nomi non restarono
che le ossa; le chiusi anch’esse
nella valigia di cartone,
ma uno intatto nella mente
si fissò: fu quello che per sempre
allappò la mia bocca, a ricordarmi
la nostalgia della mia terra.

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