IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“L’amante dell’Ammiraglio”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello

Battaglia di Trafalgar

Battaglia di Trafalgar

       

Il capitano non si stancava di ripetere: “Ammiraglio, vi prego non esponetevi, potrebbero colpirvi. Dovreste, piuttosto, camuffarvi con una tenuta da semplice marinaio”!

Ma l’Ammiraglio insisteva: “Non posso, capitano, è importante che i miei uomini mi vedano e si sentano incoraggiati a combattere”.

E così Nelson si muoveva lungo la murata della nave da prua a poppa in mezzo ai suoi uomini, indossando la sua divisa e le decorazioni che luccicavano al sole. Non potevano non vederlo!

Un fuciliere, appostato sulla coffa della nave ammiraglia francese, centrò in pieno Nelson e gridò: “L’ho ucciso, l’ho ucciso! Ho ammazzato l’invincibile Ammiraglio!”

Nelson cadde in una pozza di sangue. Un proiettile gli aveva perforato i polmoni, giungendo alla spina dorsale.

Il medico di bordo, aiutato dal capitano, portò sottocoperta Nelson morente, adagiandolo su un letto. Appena morto, lo spogliarono e sotto la camicia trovarono una miniatura della sua amante, lady Emma Hamilton. Poi lo immersero in una botte piena di rum.

Finita la battaglia, i marinai seppero della morte del loro Ammiraglio.

Uno per uno passavano dinanzi alla botte dove era immerso il corpo nudo di Nelson. Ciascuno tirava fuori dalla tasca la sua piccola borraccia di rum e lo versava nella botte. Giunse il turno del più vecchio marinaio della nave, il corpo martoriato da vecchie cicatrici: si fermò, guardò il suo Ammiraglio che galleggiava nel prezioso rum, prese la sua fiaschetta e, sollevatala in alto per un istante, se la portò alla bocca e bevve tutto d’un fiato il contenuto: “Mio capitano -disse- vedo che non hai più bisogno di rum. Senza un braccio e un occhio, il tuo corpo è un po’ più leggero. Non servono queste poche gocce che ora io ho bevuto nel tuo ricordo!” Così dicendo, gli spuntò una lacrima che si perse tra la barba grigia.

Nelson non si era sbagliato. I suoi uomini lottarono, ignorando che il loro comandante fosse stato colpito e vinsero la battaglia di Trafalgar.

Nonostante la durissima sconfitta della flotta francese, Napoleone volle premiare lo sconosciuto fuciliere che aveva ucciso Nelson.

Il giovane Jean Gabasse fu ricevuto dall’imperatore con tutti gli onori e ebbe in premio un piccolo veliero.

Gabasse con altri due amici marinai partì dal porto di Toulon al timone del suo veliero verso Napoli per mettersi al servizio del re Giuseppe Napoleone.

Alla partenza del re, Gabasse pensò di puntare verso la Sicilia. Qui finalmente decise di lasciare il mare. Vendette il suo veliero e acquistò una casa ai piedi dell’Etna con un ampio terreno coltivato ad agrumeto.

Nessuno sapeva la sua storia. Lo conoscevano solo come “il francese”.

Anni prima, al seguito di Nelson, erano venute dall’Inghilterra molte ragazze alte e bionde che facilmente avevano trovato marito.

Il “francese” non sfuggì al fascino della giovane figlia di un agiato possidente, suo vicino, che aveva sposato una inglese.

La ragazza, bella e intelligente, iniziò la storia di amore con Jean Gabasse e dopo alcuni mesi già si parlava di matrimonio.

Una sera, un po’ perché ubriaco, un po’ per vantarsi, Jean si confidò con la ragazza, dicendo di essere il marinaio che aveva ucciso Nelson a Trafalgar.

In breve tempo la notizia si diffuse tra le famiglie che avevano parenti inglesi, fino a giungere a lord Bentinck a Palermo e alla corte del re, a Napoli.

Non passò molto tempo che anche Emma Hamilton venne a conoscenza di quella storia e subito cominciò a covare un irrefrenabile desiderio di vendetta. Partì da Londra per raggiungere Napoli.

Se la ricordavano ancora a Napoli, dove con la complicità della regina Maria Carolina aveva tramato al punto di convincere il suo amante Nelson a venir meno alla parola data e a assecondare il progetto del re Ferdinando che, tornando dalla Sicilia dove si era rifugiato, protetto dalle navi inglesi, aveva detto che i patrioti della Repubblica Partenopea li voleva tutti appesi come caciocavalli. E non ci fu perdono, nemmeno per la incolpevole Luisa Sanfelice, nonostante si fosse finta incinta.

Ricevuta una sorta di assenso da parte della corte napoletana, lady Emma Hamilton, forse anche nella speranza di poter recuperare qualcosa della eredità di Nelson dalla quale era stata completamente esclusa, andò in Sicilia presso un ricco proprietario terriero, che aveva sposato una inglese.

Emma entrò presto nelle confidenze della sua connazionale e le manifestò il suo progetto di vendetta. Quella conosceva la persona che poteva aiutarla.

L’autorità del barone di Cavaterra era indiscussa. Tutti lo conoscevano come: “La legge sono io in questa terra!”

Era il barone che premiava e puniva. A lui tutti si rivolgevano per avere giustizia, per ottenere favori, riconoscimenti e altro.

Verso sera, il barone soleva sedersi a godere la brezza che gli carezzava la barba e i larghi baffi. I suoi occhi ancora gli consentivano di guardare lontano. Quella sera c’era qualcosa di diverso, qualcosa che gli roteava nel cervello; si insinuava contro il suo volere, lo afferrava fino a fargli venire un groppo alla gola. Gli giungeva il suono della campana della chiesetta che aveva fatto costruire qualche anno prima con il suo denaro. Un fraticello, da lui incaricato, la teneva aperta e in ordine.

Si trovò, tra mille pensieri contrastanti, ad ammettere a se stesso che l’uomo è uno strano essere: odia e ama nello stesso tempo, distrugge e costruisce, vuole e non vuole. E lui? Lui, sì, aveva fatto tanto di quel male! Aveva fatto soffrire, piangere creature innocenti.

Il suo sguardo si posava sul lavoro degli altri, sul lavoro che lui aveva ordinato, ma anche sull’immenso lavoro sparso nella grande pianura che dominava dalla sua casa imponente, lavoro anonimo, ma così tanto nobile!

Quali tracce intendeva lasciare? Il suo cane in questo era esperto. Tutte le volte che lo seguiva nelle sue passeggiate, fiutava, si fermava a orinare, a marcare il territorio, a lasciare il suo odore. E lui? Era forse meno del suo cane?

Doveva lasciare la traccia del suo passaggio su questa terra, per far sì che diventasse un po’ meno irrilevante di quanto il fraticello, tutte le domeniche, andava ricordando.

Si radicava in lui, quasi improvvisamente e con prepotenza, un richiamo cha da giovane aveva spesso con distrazione ascoltato dagli anziani, il richiamo della morte. Era una memoria che si faceva strada nella sua anima inaridita, appassita come l’uva che, appesa in grossi grappoli su un lungo bastone in cantina, attendeva di durare fino a natale.

E tuttavia ora gli sembrava di capire: a un tratto le cose, i più minuti dettagli riguardanti le sue proprietà nelle quali aveva sempre amato specchiarsi, identificarsi e evidenziare dinanzi agli altri il suo strapotere, la sua volontà di supremazia, tutto gli procurava ansia, premonizione di una fine oscura.

Quando Ninetta, prima di cena come d’abitudine gli portò il bicchierino di rosolio con due biscotti, lo trovò con un volto accigliato, più rugoso, invecchiato.

Pensieri ossessivi e incubi per tutta la notte avevano morsicato il suo sonno.

La mattina si levò con il fermo proposito di cambiare vita. L’ultimo suo impegno si era trasformato in un peso insopportabile sulla coscienza!

Un “amico” gli aveva raccomandato di punire la propria moglie sospettata di tradimento. E lui lo aveva accontentato, ordinando ai suoi uomini di strangolarla e di murarla entro una stanza segreta di un suo castello in rovina.

Lady Hamilton fu consigliata di rivolgersi al barone. Questi conosceva l’amante di Nelson per la fama di donna bellissima e avvenente, di donna senza scrupoli che da prostituta e amante di un ricco londinese era diventata modella di famosi pittori, moglie dell’ambasciatore inglese a Napoli, ballerina, che aveva affascinato persino Goethe.

Il barone la ricevette con gentilezza e galanteria nella grande sala dove in tempi non lontani usava accogliere gli ospiti per rinfreschi e balli.

Quando lady Hamilton gli fece presente il suo odio per il “francese” e la volontà di vendicarsi, il barone rispose: “Eh, voi donne inglesi siete molto determinate, volete non solo essere pari agli uomini, ma addirittura anche prevalere. Io credo che a causa vostra, le donne della nostra terra si sono guastate, non sono più le stesse da quando siete arrivate in gran numero. Ma, va bene, vedrò quel che si può fare per il vostro problema. Avrete presto notizie”.

Lady Hamilton salutò e si avviò verso l’uscita, accompagnata dal barone.

Tornato nella sua camera, il barone si sentiva rinfrancato. Era la prima volta che lasciava in sospeso faccende del genere. Non aveva promesso nulla di concreto.

La mattina seguente, il barone chiamò il suo fidato maggiordomo: “Manda qualcuno degli uomini alla casa del francese per dirgli che devo parlargli urgentemente”.

Trascorse appena mezz’ora e già il “francese” era a colloquio con il barone. Questi lo mise al corrente di quanto si stava preparando alle sue spalle e dell’odio della comunità inglese nei suoi confronti.

-Ti consiglio di sistemare al più presto le tue faccende, di allontanarti da questi luoghi e di cambiare vita. Tu sei un marinaio, torna dunque al mare. Ad Acitrezza ho degli amici pescatori che ti potranno aiutare”.
In breve tempo il consiglio-ordine del barone fu eseguito dal “francese”.

Quando lady Hamilton venne a conoscenza degli eventi, comprese che la sua permanenza non era più gradita e si accinse a partire. Sconfortata, invecchiata, perseguitata in patria dai numerosi creditori, si era data all’alcol. Una crisi epatica stroncò la sua vita a Calais.

Jean Gabasse trovò ospitalità presso una casetta di pescatori, amici del barone. Era una dimora scavata nella roccia, sulla quale quando il mare era in tempesta arrivavano gli spruzzi dell’acqua. Le pareti non erano neppure intonacate e tra gli interstizi facevano capolino le lucertole, ma il “francese” si era ben adattato.

I suoi occhi non si saziavano di godere lo spettacolo del mare e della costa. Era impaziente di condividere le fatiche e i rischi della pesca, in quel tratto di mare particolarmente ricca.

Al calare del sole, quando tornavano, si sentiva felice e, scaricando le ceste cariche di pesci, partecipava ai canti dei pescatori.

Dopo due mesi aveva fatto proprie tutte le abitudini di quelle famiglie di pescatori, apprezzava la vita semplice, i buoni sentimenti di quella gente. E non passò molto che maturò in lui l’idea di formarsi una famiglia e restare per sempre in quel luogo meraviglioso.

Vincenzo Fiaschitello

Nato a Scicli nel1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola alla Facoltà di Magistero Università di Roma. Direttore didattico dal 1974, preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.

E’ autore di vari saggi sulla scuola, di opere di poesia e di narrativa.

E’ presente nel sito Poesie Report On Line e nell’Antologia R. Pasanisi (a cura di) “Le mattine sono ancorate come barche in rada”. La poesia italiana contemporanea, Edizioni dell’Istituto di cultura di Napoli, 2023

Attualmente è redattore della Rivista culturale telematica “Il Pensiero Mediterraneo” (Redazione di Roma).

Vincitore della XXXIX edizione (2023) del Premio dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli e della rivista internazionale “Nuove Lettere” per la raccolta edita di racconti “Ginevra, racconti storici e non”, Avola, Libreria Editrice Urso, 2021.

Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore ordine al merito della Repubblica Italiana (2 giugno 1997).


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