IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Elena di Troia: una Eva greca”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello – Seconda parte

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Elena di Troia, Parigi, Louvre

Elena e Paride. Faccia A di un cratere a campana apulo a figure rosse (Taranto?), 380–370 AC (fonte: Wikipedia)

Quando la nuvola si diradò, Paride non c’era più. Le donne si stropicciavano

gli occhi e si tranquillizzarono non appena mi videro: Abbiamo temuto per la

tua vita, Elena, la nuvola scesa improvvisamente dal cielo ci ha costretto alla

immobilità e al silenzio. Sia ringraziato Zeus che ha spazzato il cielo e ha fatto

riapparire il sole!

Mantenendo fede al mio giuramento, la notte seguente fuggii con Paride,

lasciando lo sposo e la figlioletta. La fuga, protetta dai compagni di Paride e

dagli dei, ci portò presto fuori dal palazzo e da Sparta. Dopo aver ucciso o

corrotto con l’oro alcuni guardiani, salimmo sulla nave che doveva condurci a

Troia. Gli dei ci mandarono un vento favorevole e i marinai ne approfittarono

per aumentare il nostro vantaggio sugli inseguitori. La nave solcava

velocemente il mare. Paride, timoroso, al sorgere del sole non si staccava dalla

poppa per scrutare l’orizzonte. Così per tutto il primo giorno. Al mattino

seguente, Paride, anche se non aveva chiuso occhio per tutta la notte, mi

apparve più tranquillo e si compiacque degli sguardi ammirati che rematori e

compagni mi rivolgevano. Non rammento più quanti tramonti dovetti contare

durante quel lungo e difficile viaggio. Il timoniere li segnava facendo con la

punta del suo coltello una incisione su una vecchia tavoletta di legno. A bordo

gli ultimi giorni furono particolarmente difficili, perché non c’erano né cibo né

acqua a sufficienza per tutti. Paride voleva che non mi mancasse nulla, ma io

rifiutai. Fu tutto razionato in eguale misura. Un mattino, esausta, posai persino

le mie labbra sulla frisata di legno della barca bagnata dalla rugiada salmastra

della notte! I rematori erano stremati dalla fatica e dal digiuno, ma

continuavano senza sosta, incoraggiandosi l’un l’altro, finché finalmente

apparve la costa. Paride mi indicò con gioia la città circondata da possenti

mura; si commosse quando ormai vicinissimi alla riva, mi fece notare le porte

Scee di legno pregiato, scolpite dai migliori artisti e incastonate tra le mura.

Una schiera di guerrieri accolse il figlio di Priamo e me, la sua preda, la cui

fama di bellezza si era da tempo diffusa in tutto il territorio sotto il dominio di

Troia. Le donne del popolo, affacciate alle finestre, accanto agli usci di casa,

lungo le strade, applaudivano al passaggio dell’improvvisato corteo, mentre

schiere di fanciulli correvano avanti e indietro, schiamazzando, cantando,

felici. Il grande portone del palazzo reale si aprì al nostro arrivo. Dieci ancelle

mi attendevano. Scambiai un rapido sguardo di intesa con Paride e le seguii

nelle stanze a me destinate.

Verso il tramonto, con splendide vesti, mi trovai a fianco di Paride nel salone

del trono, dinanzi al re Priamo, attorniato da una schiera di nobili e dai suoi

numerosi figli, tra i quali Paride mi indicò Ettore e Deifobo.

La regina Ecuba che sedeva accanto al re mi accolse con un sorriso e mi invitò

ad avvicinarmi. Priamo lodò la mia bellezza e rivolse un lieve rimprovero al

figlio Paride che aveva osato offendere il re Menelao, sottraendogli la moglie.

-Ma so bene per esperienza – diceva il vecchio re – che quando Afrodite

decide sul nostro destino amoroso, niente e nessuno può resisterle. Ora

piuttosto la nostra città deve prepararsi alla difesa, perché gli Achei ci

muoveranno guerra. Dopo i festeggiamenti per il vostro matrimonio, Ettore

penserà a organizzare la difesa per tutta la pianura che si estende oltre le mura

fino al mare, tra i due fiumi Scamandro e Simoenta. Siamo fiduciosi di poter resistere e uscirne vittoriosi, le nostre mura protette da Apollo sono

invulnerabili.

E mentre gli uomini non finivano di ammirare il mio splendido corpo, le donne

sottovoce si scambiavano sorrisi e ammiccamenti. Mi sembrò di udire che

qualcuno dicesse:”Non è poi tanto bella, come la fama ci aveva fatto credere!

Per colpa sua avremo la guerra e molti nostri figli periranno.”

Trascorsero giorni deliziosi, ma di tanto in tanto sentivo il bisogno di restare

sola nella mia stanza. La mia fedele ancella mi guardava, non diceva nulla, ma

indovinava i miei pensieri. Un’ombra di malinconia scendeva su di me e riflettevo su quanto avevo perduto: la mia Ermione e il marito che in fondo era

stato gentile con me, anche se quasi sempre mi trascurava, lontano dalle mura

domestiche, a seguire i compagni nelle avventure di caccia o a dirimere piccoli

conflitti tra genti limitrofe. Ora avevo doveri verso un altro uomo, verso una

nuova patria a cui non potevo far mancare la mia fedeltà. Ero anche molto

preoccupata per gli eventi terribili che ormai tutti sentivano vicini.

Ogni mattina, sin dall’alba, Ettore, che per riguardo a me aveva lasciato libero

Paride, riuniva i suoi fratelli e tutti i valorosi capi guerrieri nell’ampia pianura,

attraversata dai due fiumi, per continue esercitazioni con le armi e con i

cavalli. Ciascuno di quei valorosi guidava un piccolo squadrone di cavalieri e a

cavallo e a terra con le lunghe aste e con la spada per lunghe ore combattevano

fino a crollare a terra per la stanchezza.

Qualche volta rimproveravo Paride: ”Dovresti essere anche tu con loro, dopo

tutto siamo noi la causa della vendetta di Menelao.”

Mi rispondeva: “Ora non preoccuparti, ci sarò anch’io quando sarà il momento e vedrai che mi farò onore come gli altri!”

In quei momenti emergeva il mio carattere forte e risoluto. Non mi sentivo

soltanto una donna al cui fascino non si poteva resistere, ma una sposa pronta a

sollecitare il marito e, se necessario, imporre il proprio punto di vista e la

propria volontà. Era questo aspetto forte e determinato del mio carattere che mi

aveva sempre spinto lontano dalla tradizionale immagine di donna subordinata

all’uomo.

Un giorno sentii gridare vicino al grande portone del palazzo. Mi affacciai e

vidi una giovane donna, scarmigliata, seminuda, che alzò ancora di più le grida

quando si accorse di me: “Elena, che tu sia maledetta dagli dei! Hai portato la

rovina nella nostra città. Io prevedo che Troia brucerà, tutto il palazzo andrà in

cenere, ci saranno morti dappertutto, le gloriose mura della città verranno

abbattute. Non scenderà dal cielo nemmeno una goccia di acqua a ristorare il

nostro dolore!”

Le guardie facevano del loro meglio per allontanarla, ma si vedeva bene che

nessuno osava toccarla. La punzecchiavano con la punta delle lance o con le

spade sguainate. Alla fine, esausta, la donna si accasciò a terra priva di sensi. Il

capo delle guardie ordinò a un gruppo di donne, che avevano assistito alla

scena di trascinarla nel suo tugurio, in una delle case lì vicino. “Povera

Cassandra- dicevano- povera pazza, non sa bene quel che fa e quel che dice!”

La adagiarono a terra, appena oltre l’uscio di casa e andarono via. Tutti temevano

quella donna che prediceva il futuro, credevano che parlasse continuamente

con gli dei. Perciò nessuno osava contrastarla, la lasciavano profetizzare

liberamente, anche se poi le sue parole restavano inascoltate. Tuttavia quella

donna mi fece crescere l’angoscia, il senso di colpa per quello che già si

preparava.

All’imbrunire, come altre volte, ero uscita accompagnata dalla mia ancella per

una passeggiata lungo le mura. Giunsi fino alle porte Scee. Saliva nella purezza

cristallina dell’aria un forte inebriante odore di gelsomino, quando a un tratto

sentii alle mie spalle la voce di un uomo. Era Ettore che, vedendomi da

lontano, si era rapidamente avvicinato. Da qualche tempo si dimostrava molto

gentile; forse insieme al vecchio re Priamo, era l’unico a non far pesare su di

me la responsabilità della guerra.

“Oltre alle porte Scee che ti mandano il loro profumo -disse Ettore- anch’io ti offro questa violetta che ho raccolto lungo il cammino. Tu vedi – e con la mano indicava l’orizzonte verso il mare – che le navi degli Achei sono già arrivate numerosissime. Fra poco questi odori non si sentiranno più, si svolgeranno battaglie feroci sotto queste mura, i cavalli faranno alzare nuvole di polvere e l’odore del sangue dei guerrieri caduti salirà fino a te.”

Una lieve commozione gli incrinò la voce, ma subito dopo aggiunse:

“Ho sentito dire che durante un banchetto presso il palazzo di Menelao,

qualcuno raccontava che ormai nelle nostre terre non ci sono più leoni, perché

l’ultimo era stato ucciso da Eracle, e che a Troia avrebbero trovato soltanto

leoni di pietra! Io dico che gli Achei si sbagliano: qui troveranno tanti eroi che

combatteranno come leoni in difesa della patria.”

Quella sera stessa, Ettore mi annunciò che l’indomani avrebbe sposato, su

consiglio del padre, la giovane Andromaca, una principessa ittita, con la

speranza di ottenere un congruo sostegno alla guerra da parte di quella gente.

Accennò a un sorriso e si avviò per continuare la sua ispezione lungo le mura.

Ora che gli Achei avevano cominciato ad accendere i fuochi e che da ogni

parte in riva al mare baluginavano torce e lanterne, mi rendevo conto dello

spiegamento di forze e del gravissimo pericolo dell’assedio. Certamente gli

eroi greci avevano rispettato il giuramento di Tindaro e ciascuno era

intervenuto con navi e guerrieri.

Da una fessura delle mura sporgeva il piccolo capo di una lucertola che,

immobile, mi guardava.

Chiamata l’ancella, mi asciugai una lacrima e ci dirigemmo verso il palazzo.

Quando giungemmo, le prime stelle già brillavano in cielo; in lontananza un

cane latrava alla luna che si alzava sopra i tetti delle case.

Il giorno dopo, gli allarmi si susseguirono ripetutamente. Si udivano prolungati

suoni di corni e scalpitii di cavalli che percorrevano la pianura fra i due fiumi.

Poi fino a sera ci furono grida, fragore di armi e nitriti di cavalli. Già si

contavano i guerrieri caduti. Al calare della oscurità, come per un accordo

d’onore, si raccoglievano i cadaveri e nella notte si udivano i lamenti delle

madri, delle sorelle e delle spose. L’aria notturna diveniva irrespirabile per il

fumo che si alzava dalle pire.

Il triste spettacolo del primo giorno di guerra era destinato a ripetersi, giorno

dopo giorno, con personaggi sempre diversi. Spesso mi avventuravo fin sulle

mura per vedere da vicino i combattenti. Restavo per lunghe tempo a guardare

le battaglie che infuriavano. La luce del giorno si avvinghiava al vento,

torcendosi in mille mulinelli. Le mie mani si intrecciavano al suono di uno

scalpitio ravvicinato di cavalli, al fragore delle spade che si abbattevano sulle

armature. Ogni duello sotto i miei occhi mi procurava un’ansia infinita e dalla

mia bocca uscivano lamenti; levavo grida acute e invocazioni agli dei. La mia

fedelissima ancella saliva anch’ella con me e, confortandomi, mi dava consigli

di prudenza, rivelandomi le antipatie, gli odi, il disprezzo, che le matrone

troiane, tutte, nutrivano verso di me. E c’era qualcuna che pregava gli dei

perché una freccia achea colpisse il mio cuore.

Ma questo non accadeva. Gli Achei che avrebbero voluto la mia morte

abbassavano i loro occhi alla vista della mia persona: la bellezza e il fascino

vincevano l’odio. Riconobbi i miei amati fratelli. Ero sicura che si

vergognavano di me perché avevano cura di combattere lontano dalle mura

della città. Conoscevo tutti gli eroi greci che frequentavano la casa di mio

padre e li indicavo al vecchio re Priamo che qualche volta saliva sulle mura,

faticosamente, ad assistere alla battaglia. Aveva sempre un elogio per il

valoroso Ettore e un rimbrotto per la debolezza, se non per l’inettitudine, di

Paride.

Col passare del tempo, mi mostrai delusa del comportamento del mio sposo.

Glielo feci notare varie volte, unendomi ai rimproveri che lo stesso fratello

Ettore gli rivolgeva. Di notte spesso mi tormentavo. Ero io la colpevole di

quella guerra infinita e avrei voluto trovare il tempo e il coraggio, finita la

battaglia dopo il tramonto, di piangere tutti quei morti. Avrei voluto alzare il

loro scudo, guardarli negli occhi, toccare le loro ferite abominevoli, coprirli ad

uno ad uno coi pepli più preziosi del mio corredo. Ma il terrore mi fermava.

Che sarebbe successo se qualcuno di quei valorosi, ancora agonizzante,

avrebbe levato lo sguardo su di me? Se i suoi occhi si sarebbero riempiti di

lacrime alla vista del mio corpo splendente? Se avessi udito ancora lamenti e

nitriti di cavalli? Avrei pianto con loro? Li avrei chiamati per nome? E mi

immaginavo cumuli di cadaveri, corpi inanimati, belli, forti, illuminati dalle

torce, mentre le stelle in cielo splendevano come tutte le notti.

Passavano i giorni sempre con lo stesso fragore delle armi, con le grida dei

guerrieri, con le nuvole di polvere che sollevavano i cavalli in corsa, con i lutti

e con il dolore. Poi venne il giorno più tragico per Troia: la morte di Ettore per

mano dell’invincibile Achille. Lo piansero Andromaca, il re e la regina, i

fratelli e io stessa, per il quale nutrivo simpatia e affetto.

L’intera città era smarrita. Era stata abbattuta una vera colonna della difesa della patria.

Ma quale patria? Non capivo più se era meglio che vincessero gli Achei e che

Menelao mi riportasse a Sparta o che i troiani salvassero la loro città.

Cominciai ad avvertire questa duplicità di sentimenti quando riconobbi l’astuto

Ulisse che un giorno sotto le spoglie di un mendicante si era introdotto in città

e si aggirava attorno al palazzo del re. Il mio istinto fu quello di non

denunciarlo. La morte di Ettore aveva gettato nello sconforto i guerrieri troiani.

Io ebbi l’ardire di disapprovare apertamente il comportamento vile di Paride

durante il duello con Menelao; lo incitai alla lotta più dura, sostituendosi al

fratello Ettore. Qualche giorno dopo, forse con l’aiuto di un dio, scoccò una

freccia che uccise Achille, colpendolo nell’unico punto vulnerabile. Ma prima

del tramonto, a sua volta, un arciere sconosciuto lo colpì al petto con una

freccia avvelenata.

A Paride furono resi gli onori dovuti al suo rango. Io portai il lutto per tre

giorni. La sera del terzo giorno, il re Priamo mi fece chiamare e mi comunicò

la sua decisione. Avrei dovuto sposare Deifobo, l’ultimo dei suoi figli, perché

non restassi vedova e non si disperdesse il mio tesoro. Gli ultimi avvenimenti

avevano fiaccato la mia volontà e, nonostante disprezzassi quell’uomo per la

superbia e il suo violento temperamento, fui costretta a ubbidire.

Era chiaro a tutti che le cose volgevano in favore degli Achei. Quindi grande fu

la sorpresa quando un mattino vedemmo che all’orizzonte il mare era pieno di

vele che si allontanavano da terra. Erano le navi greche che finalmente

toglievano l’assedio alla città? La guerra era finita? Prima sospettando qualche

inganno, poi sempre più fiduciose, le guardie aprivano le porte della città ai

cittadini che volevano uscire per andare a vedere più da vicino la pianura

deserta. Deserta del tutto proprio no, perché una enorme sagoma di cavallo,

appena dietro una collinetta, apparve ai loro occhi increduli. Era un cavallo di

legno. Tutti lo osservavano con curiosità, gli giravano attorno, toccavano i suoi

garretti; qualcuno tirò persino un sasso sulla pancia e si sentì uno strano

rimbombo. Chi diceva che era un inganno, chi un simulacro lasciato in onore

degli dei e in memoria degli eroi achei caduti, chi voleva darlo alle fiamme.

Alla fine prevalse il parere di persone autorevoli che decisero di tirarlo fin sotto

le mura della città. E poiché la sua altezza impediva il passaggio attraverso la

porta, fu deciso perfino di abbattere il tratto di muro che la sovrastava. Inutili

furono le urla di Cassandra che invitava i troiani a tenere lontano dalla città il

cavallo. Ma il destino di Cassandra era quello di restare sempre inascoltata.

Fu l’inizio della fine. Quella notte, anch’io come tutti fui svegliata dalle urla di

terrore, dalle fiamme che spinte dal vento avanzavano in tutte le direzioni.

L’ancella mi porse un peplo finemente lavorato e un velo e gridò di correre

verso l’altare di Afrodite. Girai il capo e vidi che un guerriero acheo le era

saltato addosso e l’aveva sgozzata. Era proprio lui, Menelao, che come un

pazzo furioso mi inseguiva e gridava di fermarmi. Feci appena in tempo ad

abbracciare i piedi della statua di Afrodite, quando Menelao mi raggiunse. Con

la mano sinistra mi afferrò per un braccio, con la destra alzò la sua terribile

spada per colpirmi, ma ebbe un attimo di esitazione. Certo pensò che sarebbe

stato un sacrilegio uccidere in un luogo sacro. Così mi trascinò fuori e in quel

momento caddero a terra il peplo e il velo che mi copriva il capo e le spalle.

Bastò la vista di questa mia nudità, perché Menelao restasse ancora fulminato

dalla mia bellezza. Si calmò, mi strinse a sé e poi, sempre con la mano incollata

al mio polso, mi trascinò attraverso le stanze e i lunghi corridoi del palazzo in

fiamme e le strade ingombre di cadaveri, fuori della città.

Non avevo paura di morire. Quando fui a bordo, mi accorsi che tutti mi

odiavano; li tratteneva dall’impugnare la spada contro di me il fascino della

mia persona. Ma io ero infinitamente triste. Rannicchiata in un angolo, mentre

la nave lasciava quella terra, io pensavo alle centinaia di giovani che erano

morti per causa mia, a quei giovani che al mio arrivo a Troia avevano da poco

lasciato i loro giochi, la caccia agli uccelli, ed erano passati a conoscere la

battaglia, il fragore delle armi, il dolore e la morte.

Il mio arrivo a Sparta, alla reggia, suscitò un’ondata di sdegno, di profondo

disprezzo, tanto che rischiai di essere lapidata. Poi qualcuno alleviò il mio

senso di colpa, la persistente autocondanna, spostando il biasimo su Paride e

sugli dei.

Giunse tardi il perdono di Menelao, perché dopo poco tempo egli morì,

lasciandomi completamente sola, esposta al rischio della vendetta. Fragile

bellezza, fragile vita! Navigai intere notti di solitudine, finché un giorno mi

annunciarono che dovevo lasciare Sparta per raggiungere Rodi. Lì, la regina

Polisso, dapprima mi accolse benevolmente, poi un giorno mi disse che aveva

scoperto la mia completa responsabilità osservando il tremore della mia mano

inanellata tutte le volte che veniva pronunciato il nome di Paride.

Finì con l’ordine di appendere a un albero dalla dura scorza il mio collo

delicato, che conobbe i migliori unguenti d’oriente. Che pena! Venne quasi

subito la morte! Zeus non si scomodò affatto dal suo seggio dell’Olimpo a far

salva l’immortalità promessa. Fra migliaia di figli che aveva generato non

poteva ricordarsi di me! E con la morte crebbe il mito della mia bellezza.

Ora che la mia storia è giunta al termine, uomo del ventunesimo secolo, la farai

conoscere. Quanti si batteranno per la mia difesa? Quanti continueranno a

odiarmi e a condannarmi? Saprò aspettare la vostra sentenza, così come ho

sempre fatto con tutte le generazioni che vi hanno preceduto. Pensatemi come

una farfalla che si posa sui capelli di una bimba, come chi parte e sventola la

mano a salutare quelli che restano. Tutte le cose che la vita mi ha riservato

porto dentro di me, in attesa che il mondo cambi e si evolva verso il bene e la

giustizia”. Tacque!

-“Elena, resta sempre nella mia memoria, nel mio sogno -disse Giorgio- tu che

hai vinto i secoli, che hai generato infinite generazioni di donne, che hanno

amato e sofferto in un mondo spesso amaro e perduto, dove il cuore degli

uomini null’altro ha sempre visto, se non il labile corpo di smalto,

impareggiabile cielo, che l’egoismo e la violenza ha mutato in sentiero buio,

tempestoso e impercorribile. Tu, Elena, sei una piuma che voli sulle ali del

tempo. Tu sei l’eterno femminino!”

Giorgio non poté mai dimenticare quella notte. Spesso nella conversazione con

gli amici raccontava con enfasi quel sogno. Ancora vecchio, ascoltando la

notizia di un ennesimo femminicidio, non poteva trattenere le lacrime.

Ricordava l’ultimo giorno quando andò a trovare la moglie in ospedale.

Pensava:” Porto con me la pena che non le mostrerò”. Poi rivolgendosi alla

moglie: “Vengo a trovarti e porto l’azzurro del cielo, l’odore del mare, il canto

degli uccelli, il sapore della primavera; tutto questo ti offro con un sorriso.

Questa sera dormirò qui sulla poltrona, accanto al tuo respiro e ti terrò la

mano!”

Vincenzo Fiaschitello

Nato a Scicli il 18/10/1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma con il massimo dei voti (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (Esami di Stato D.M.10/8/1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali (Vincitore Concorso nazionale a 119 cattedre, indetto con D.M. 30/6/ 1969) e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola –Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974 (Vincitore Concorso nazionale D.M.25/9/1970), preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I. Autore di vari saggi sulla scuola, di opere di narrativa e di poesia.

Onorificenza su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri: Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana (Decreto Pres. Rep. 2/6/1997).

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