IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Il prete buono un racconto di Vincenzo Fiaschitello prima parte

il prete buono

il prete buono

In principio era l’amore.

In quell’ultimo incontro mons. Agostino Bisleri  O.S.M. volle dare le ultime raccomandazioni al suo allievo che lasciava l’università, dopo aver conseguito la laurea in teologia. Don Mario era lo studente prediletto, come il figlio primogenito che eredita l’autorità e i possedimenti del padre e quindi particolarmente apprezzato e amato. Quante volte mons. Agostino aveva sottolineato la portata rivoluzionaria del vangelo di S. Giovanni! Diceva che in fondo tutto il Nuovo Testamento era racchiuso nel testo di S. Giovanni, che andava a scardinare una gran parte del Vecchio Testamento. Bisognava perciò riflettere tanto e continuamente su quel vangelo a cominciare dal prologo.

In verità S. Giovanni aveva scritto: In principio era il Verbo (il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio).

Sulla base della dottrina platonica, nell’anima dell’uomo convivono

ragione e follia. La conquista di un equilibrio nella invitabile conflittualità è opera della ragione che si pone come forza regolatrice delle passioni grazie al Verbo, alla Parola. E’ indiscusso il fascino che la parola, e dunque il linguaggio, ha sempre esercitato sull’anima. Ne è derivato un processo continuo e vitale che è armonia e bellezza, cui spetta il nome di cultura.

Don Mario non aveva dubbi sui benefici che la cultura ha apportato ai fini della civilizzazione e in genere del progresso dell’umanità. Tale cultura, soprattutto nel mondo occidentale, orientandosi verso la valorizzazione del metodo razionale, ha creato la scienza galileiana e la tecnologia. La conseguenza di una strada così pianificata è stata quella del raggiungimento di un enorme benessere materiale, ma al tempo stesso di una inestimabile perdita. Quando la scienza emargina il mito, la poesia, la metafora, la religione, la filosofia e intende servirsi esclusivamente della logica disgiuntiva (una cosa è questa e non altro), non immagina neppure quali e quanti significati nascosti le rimangono ignoti.

Don Mario camminava lungo il marciapiedi. La gente gli passava accanto, qualcuno lo urtava. Ma ancora prima che quello si scusasse, il prete sorrideva e muoveva il braccio verso l’alto, dicendo: “Nulla, nulla!” Di tanto in tanto dava una occhiata alle vetrine. Le ragazze, le donne giovani e meno giovani si fermavano dinanzi ai negozi di scarpe, di abbigliamento; facevano commenti, ridevano. Si fermò dinanzi a una libreria. Lesse alcuni titoli di libri e mentre stava per riprendere il cammino:-“Don Mario, che piacere incontrarla qui, nel mio paese! Si ferma per qualche giorno?”

-“Oh, caro Federico, non pensavo di incontrarti per strada. Mi ero proposto che ti avrei chiamato domani. Ci sono delle novità per me, credo che ti faranno piacere. Sto recandomi dal vescovo perché mi ha comunicato che vuole assegnarmi una parrocchia della diocesi. Ho dato la mia disponibilità ed eccomi qua. Tu mi conosci: bisogna sempre rispondere con gioia e positivamente ad ogni richiesta di servizio. Ma tu piuttosto, come va la tua salute? Quando ci siamo incontrati l’ultima volta, non stavi molto bene. Però ora ti vedo in forma!”

”Grazie, don Mario: tutto bene. Allora aspetto che mi chiami lei e per il momento la saluto e la lascio tutto al suo vescovo”.

-“Bene Federico, a presto. Ma ricordati che mi davi del tu!”

Per più di un’ora don Mario fu trattenuto a colloquio dal vescovo. I due si conoscevano già. Sua Eccellenza aveva ascoltato un paio di conferenze tenute da don Mario alla comunità ecclesiale di P. ed era rimasto particolarmente colpito per la grande capacità comunicativa e per la profonda cultura teologica di quel giovane prete. Per questo ora lo aveva voluto nella sua diocesi, come parroco della chiesa di San Francesco. Il vecchio parroco aveva anticipato di qualche mese le sue dimissioni, sia per ragioni di salute, sia perché affaticato e angosciato dalle molte discordie, tanto poco cristiane, di due gruppi di fedeli ostinati nel sostenere le proprie opposte tendenze che normalmente vengono definite conservatrici e innovatrici.

Don Mario fu accolto dalla comunità parrocchiale con grandi aspettative, preceduto dalla fama di essere un ottimo comunicatore, giovane e animato da viva e sincera spiritualità. Come accade in situazioni simili, a don Mario parve utile come primo passo conoscere subito i parrocchiani, stabilendo un incontro colloquiale con gli anziani, con le famiglie, con i giovani e i ragazzi. Era fermamente convinto che per ascoltare i pensieri degli altri, i loro problemi, occorresse avvertire una grande responsabilità morale, sostenuta da una fede profonda. Pensava che il modo migliore per dimostrare affetto verso la propria comunità fosse quello di creare una salda amicizia, partecipando agli eventi della loro esistenza.

Fu un mese di attività intensa e proficua, durante la quale don Mario volle capire i bisogni dei vari membri della comunità.

In una delle prime omelie domenicali, dopo aver commentato il vangelo, espose in sintesi le sue impressioni, invitando la comunità a riferirgli, eventualmente anche per iscritto e in forma anonima, se non aveva colto qualche aspetto importante. In tal caso, egli si riprometteva di effettuare una migliore riflessione. Ma nel complesso, ciò che era emerso in fatto di conoscenza del vangelo, sosteneva don Mario, era quello che aveva previsto: c’erano molte “incrostazioni”, qualche residuo di superstizioni, una tendenza a una certa rigidità nella valorizzazione di quel che comunemente si dice “bene comune”.

Con molta discrezione si informò dello stato di salute di alcuni anziani parrocchiani; predispose un calendario di visite che furono molto apprezzate dagli ammalati e dai loro parenti, a tutti portando una parola di conforto e di incoraggiamento.

Venuto a conoscenza che una signora aveva il figlio di otto anni ricoverato in ospedale, volle programmare una visita. Il suo amico Francesco espresse il desiderio di accompagnarlo e insieme un pomeriggio raggiunsero l’ospedale. La signora li aspettava nell’atrio e li accolse con gioia, anche se i suoi occhi lasciavano trasparire tutta la sua angoscia per un verdetto che attendeva dall’équipe medica da un momento all’altro. Entrarono in una grande camera dove il piccolo Matteo giaceva sul letto, circondato da varie apparecchiature mediche, piccoli schermi, tubi, spie luminose. Una sofferenza indicibile aleggiava su quel volto pallido e emaciato. Pure gli occhi erano vivaci: cercavano lo sguardo della madre o di una persona conosciuta. Un sorriso triste, appena accennato, si disegnò sulle labbra del piccolo Matteo alla vista della madre.

Uscendo dall’ospedale, Federico disse a don Mario:

– “Ho bisogno di parlare con te a lungo. Mi piacerebbe incontrarti questa sera dopo cena. Posso venirti a trovare?”

-“Certo, ti aspetto. A stasera!”

Francesco sentiva un gran bisogno di ottenere dall’amico teologo delle risposte ai suoi dubbi che gli opprimevano il cuore. E, giunta l’ora, si presentò al prete con la speranza di arrecare un po’ di serenità alla sua anima.

-“Don Mario, inutile dirti dell’angoscia che provo dinanzi alla sofferenza. E se poi la sofferenza è quella di un bambino, puoi immaginare quello che ho provato oggi incontrando quel bambino, respirando quell’aria di dolore che impregnava quei lunghi corridoi, quelle stanze. Ti chiedo, allora, perché la sofferenza? Perché il dolore? E soprattutto, che senso ha la sofferenza per un bambino innocente?”

-“Federico, comincio col dirti che la mia fede mi dice che la carezza di Dio è per tutti, non c’è persona sulla terra che ne è esclusa. Questa carezza è ancora più speciale per i poveri, per coloro che soffrono e in particolare per i bambini. Tu sai che nella Bibbia non si pensava così. La malattia, l’infermità, erano viste come il castigo di Dio, come una punizione. Se ricordi il cieco di Gerico, la domanda che viene rivolta al Signore da parte dei sacerdoti è: “Chi ha peccato lui o i suoi genitori?” Gesù esclude ogni relazione tra malattia e peccato, tra malattia e colpa.

-“Ascolta don Mario, come si fa a far cambiare opinione alla gente? La religione stessa ha insegnato da sempre che il male è una conseguenza del peccato. Dinanzi al male ho sempre sentito dire: Perché è capitata a me questa sciagura? Che peccato ho fatto, Signore? Io ho ubbidito ai tuoi comandamenti, ho dimostrato una grande fede. Perché mi colpisci con la tua vendetta? Non sarebbe stato meglio riservarla ai malvagi, a coloro che vivono senza riguardo alla tua legge?”

-“Sì, è vero. Dalla teologia della Bibbia si ricava proprio questo concetto di remunerazione: ai giusti, il bene; ai peccatori, il male. E allora per liberarci da queste idee errate, ti invito a fare con me qualche passo indietro. Nel libro della Genesi è scritto che: In principio Dio creò il cielo e la terra. Secondo la tradizione ebraica il mondo è stato creato da un Dio che esige ubbidienza ai principi dei dieci comandamenti, scolpiti nella pietra e consegnati a Mosè. A coloro che rispettano la Legge si assicura ogni grazia e beneficenza da parte del Creatore; a coloro che non la rispettano Dio minaccia il male e infine l’inferno. Come vedi questa concezione ci ha portati a farci l’idea di un Dio severo, punitivo e anche vendicativo. E’ chiaro che partendo da una Legge (il decalogo), se non la rispetti devi di conseguenza aspettarti una punizione e, come ci hanno insegnato sin da bambini, il massimo delle punizioni che è l’inferno.

-“Ma scusami, don Mario, i miei amici non credenti mi fanno osservare: è possibile che dalla prima disubbidienza dei nostri progenitori, Adamo ed Eva, sia derivato tutta questa gran pena per l’umanità, dolori, sofferenze, lutti, disastri, morte? Abbiamo qui una terribile equivalenza: peccato originale-paradiso perduto. Io, ad essere sincero, trovo queste osservazioni non per niente sbagliate”.

-“E hai ragione, Federico! Se noi consideriamo che Dio ha creato il mondo e poi si è particolarmente compiaciuto con la creazione dei nostri progenitori, plasmandoli a sua immagine e somiglianza, è certo che la narrazione della loro cacciata dal paradiso sembra illogica. Si dice perché non hanno ubbidito al divieto di mangiare la mela; si dice perché hanno peccato di orgoglio in quanto l’intenzione nascosta era quella di elevarsi alla sommità della potenza divina. Ma proviamo a ragionare. Se è razionalmente corretto attribuire a Dio tutte le qualità e diciamo che Dio è massimamente buono, come possiamo pensare che abbia voluto destinare al fuoco eterno dell’inferno l’uomo, la sua creatura prediletta, sia pure perché peccatore? Anche il discorso dell’orgoglio non può reggere. Tutto ciò che Dio ha creato, la natura, le cose tutte, dal fiore dei prati alle acque dei fiumi, alle montagne, agli astri del cielo, all’uomo, tutta la vita generata da Dio, manifesta un riverbero divino e ha bisogno di salire, di avvicinarsi al Creatore. Dunque il desiderio di Adamo e di Eva di salire fino a essere simile a Dio, non va visto come orgoglio e quindi una colpa, ma al contrario come risposta di amore verso il proprio Creatore”.

-“Don Mario, io credo che quel che tu dici ci annunci una grande rivoluzione biblica, perché a questo punto oso chiederti: Che ne è del paradiso terrestre? E che dell’inferno?

-“Bene, Federico, hai colto nel segno. Vediamo perciò quali sono le conseguenze. Possiamo certamente credere in un paradiso, ma non nell’inferno. Vediamo come e perché. Il paradiso, al di là di come ciascun credente possa immaginarlo, non è altro che un simbolo che ci richiama all’origine. Se pensiamo a un Dio buono, a un Dio che non respinge i malvagi, a un Dio che non punisce, è chiaro che nella nostra coscienza non c’è spazio per il rimorso o il senso di colpa. Siamo portati ad accostarci con fiducia al mistero di una vita che continua dopo la morte. E questa vita eterna, attraverso il simbolo del paradiso, è il luogo e l’incontro dell’anima con la sua radice dalla quale non può separarsi”.

-“Don Mario, come sai, io sono del sud. Quando ero appena arrivato dal mio paese tutto mi sembrava difficile, estraneo: le vie, le piazze, la gente. Ero preso dall’angoscia, dalla nostalgia per ciò che avevo lasciato. Poi sono passati i mesi, gli anni e mi sono adattato: quello che prima vedevo come estraneo, ora mi è familiare, non è più lontano dalle mie origini, dalle mie radici. Ma se da un lato mi è sparita l’angoscia, dall’altro mi accorgo che gran parte della mia identità se ne è andata in fumo”.

-“Ecco, Federico, il punto è proprio questo. Tu dici che l’angoscia non c’è più; in compenso ti sta sorgendo l’alba di un risveglio, di un riconoscimento di uno stato della tua persona che, ricordando le radici, ti fa sentire privo di identità. E si fa avanti

prepotentemente la nostalgia. Abiti qui, senza che tu ti senta pienamente coinvolto. Ciò che fa di te un essere richiamato da un altrove. Ma se ci pensi bene, questa non è soltanto la tua situazione, è la condizione dell’uomo di oggi che si trova ad abitare un mondo, divenuto del tutto estraneo, dinanzi al quale si sente svuotato. Oggi, ogni uomo ha perso la coscienza di sé, avverte che la dimora nella quale è ospitato gli offusca l’anima. E allora ci chiediamo se non esiste un’altra dimora che ci attende. Nel frattempo è urgente che la nostra anima, al di là dell’abisso che la scienza ha scavato, torni a guardare il mondo come un mistero. In tal caso esso sarebbe il primo tratto di quell’arcobaleno che continua e va a raggiungere il tratto finale che s’incurva sull’altra sponda del mistero che ci attende”.

-“E allora l’inferno? Esiste o non esiste?”

-“La risposta possiamo ricavarla come conseguenza di quel che si è detto prima. Se Dio è amore e dispensa questo suo amore a tutti gli uomini, nessuno escluso, è improprio parlare di inferno. Dio non può volere il castigo eterno del fuoco. E’ lui che va verso gli uomini e porta la sua luce secondo i loro bisogni, al di là dei meriti o dei peccati. Certo è che se si può pensare a una differenza tra uomo e uomo, sarà quella del livello di accoglienza da parte di ciascuno. Un rifiuto totale non ci sarà mai neanche da parte del peggiore peccatore o dell’ateo. Ma in ogni caso è bene che non cadiamo nello stesso errore dei discepoli, quando interrogando Gesù sul Regno che annunciava, chiesero chi di loro avrebbe potuto occupare i due posti più prestigiosi, a destra e a sinistra di Lui”.

-“Don Mario, non ti pare che connesso a questo tema dell’inferno, si possa discutere dell’esistenza o meno del demonio, di satana?”

-“Bene, bene! Lasceremo senza lavoro gli esorcisti! Ne ho conosciuti diversi e ognuno con una fede incrollabile nella sua abilità a scacciare satana da quelle persone ritenute indemoniate. Chiamati a quell’ufficio dai parenti della vittima o dai sacerdoti, intrecciano preghiere, invocazioni e ordini autorevoli nel nome del Signore, affinché il demonio desista dal trascinare quell’anima secondo i suoi bassi voleri. E a coloro che mostrano tutta la loro perplessità dinanzi a una tale discutibile pratica per un caso che quasi sicuramente potrebbe invece richiedere il soccorso della scienza medica, rispondono che anche Gesù, come è scritto nei vangeli, si occupava della cacciata dei demoni dalle persone, che mostravano segni inequivocabili della loro presenza nel corpo e nell’anima. In realtà la storia di Lucifero, degli angeli ribelli precipitati nell’inferno, di un satana come occhio del Signore al quale segnala i peccatori, non trova una giustificazione, dal momento che crediamo in un Dio che non punisce. Il demonio o gli spiriti maligni sono un residuo di antiche mitologie che facevano riferimento a personaggi come i satiri, i fauni, lo stesso Pan (metà uomo e metà capra), che abitavano i boschi e avevano la funzione di incutere paura. I biblisti ci assicurano che nella lingua ebraica il termine demonio non esiste. Questa e altre spiacevoli credenze sono nate da errori di traduzione della Bibbia (dall’ebraico al greco, dal greco al latino). L’inferno è l’Ade o il Tartaro della mitologia greca: gli angeli disubbidienti furono precipitati negli inferi, cioè negli abissi tenebrosi, sottoterra, dove vengono sepolti i morti. Lo stesso San Girolamo cadde in vari errori di traduzione dall’ebraico-aramaico e dal greco in latino con la famosa versione detta Vulgata, perché destinata al popolo. Ma certo non gli si può fare una colpa, dal momento che si trattò di una immane opera, per la quale spese oltre quindici anni della sua esistenza. Essa è rimasta la versione ufficiale della Chiesa fino al Concilio Vaticano II. Solo ora in questi ultimi decenni si sta procedendo a revisioni che fanno prevedere l’inizio di una grande rivoluzione biblica”.

-“Don Mario, questa sera uscirò dalla tua casa completamente cambiato, rinnovato nella fede. E’ naturale che dovrò meditare molto su quello che con tanta maestria mi hai spiegato. Ma vedi, non è facile modificare le proprie sicurezze che abbiamo costruito sin dal tempo del catechismo. Avverto tutta la mia inadeguatezza per logorare tanti luoghi comuni, renderli inespressivi e invalidi, liberarmi dalle innumerevoli incrostazioni che si sono accumulate sulla Chiesa. Accettando queste nuove prospettive, occorre cambiare anche il testo delle molte preghiere che la Chiesa ci ha insegnato per rivolgerci a Dio”.

-“E’ vero, Federico. Tutto questo chiede tempo, riflessione e…amore. Io credo che tutto ci verrà più facile se partiamo dall’unico comandamento che Gesù raccomanda. Con estrema chiarezza è detto nel vangelo di San Giovanni: Vi do un comandamento nuovo, quello dell’amore; amatevi come io vi ho amato. Ora è importante considerare il termine “nuovo” non come qualcosa che si aggiunge al decalogo, per cui i comandamenti di Mosè diventerebbero undici, ma come comandamento di maggiore qualità, di maggior prestigio, che va a sostituire i precedenti. Dunque se tutto deve partire dall’amore che Dio ha per gli uomini, sue creature, tutte, nessuna esclusa, (castigo, peccato, inferno, demonio, sono categorie che perdono di significato), nonché dall’amore dell’uomo verso tutti i suoi simili e anche non simili, includendo gli animali, la natura tutta, è comprensibile come la fede di un cristiano si modifichi: la vita eterna, intesa come vita indistruttibile, dopo la morte, non è da considerare un premio destinato solo ai buoni, ma una possibilità per tutti, nella misura in cui ciascuno ha saputo accogliere in sé l’amore di Dio. Allo stesso modo la fede non è un dono di Dio, ma la risposta di ciascuno a questo amore. E questa fede è tanto più forte, quanto più sappiamo mantenerla viva anche nelle avversità (sofferenze, disgrazie, lutti), pensando che Dio non intende vendicarsi, castigandoci con il male. Ognuno di noi è persona, individuo unico e irripetibile, progetto esistenziale amato da Dio, portatore di luce in lotta contro le tenebre. Tutti noi siamo all’interno dell’ordine creativo di Dio che continua a realizzarsi per fare arretrare le tenebre e abbiamo il dovere di collaborare. Il male sono le tenebre che si possono respingere solo accettandole con fede, per far sì che la luce cresca. Non è difficile capire che tutta l’opera creativa di Dio, essendo regolata da leggi da Lui stabilite, non è soggetta a modifiche o sospensioni”.

-“Don Mario, mi domando allora come siano possibili i miracoli”.

-“Il tema dei miracoli è materia molto delicata, incomprensibile per la mente umana e richiama il concetto di onnipotenza di Dio. Riguardo a tale concetto, i biblisti ricordano che il termine onnipotente, riferito a Dio non è presente nella Bibbia, è una traduzione inesatta di San Girolamo. Ma al di là dell’errore, il nodo essenziale della questione sta nel domandarsi se Dio creatore può in alcune circostanze far venir meno o stravolgere le sue stesse leggi, per esempio far deviare dalla sua traiettoria un macigno che precipita per la forza di gravità verso la testa di un passante (tenuto conto delle possibili variabili), oppure no. Secondo la logica razionale non c’è alcun dubbio che siamo portati a negare tale possibilità, ma secondo la logica della fede nulla impedisce di considerare quel che chiamiamo miracolo o azione prodigiosa un libero segno compiuto da Dio. Anch’esso fa parte dei misteri, ai quali ci si accosta con umiltà, senza possibilità alcuna di poterli interpretare”.

La mezzanotte era passata da poco. Don Mario e Federico misero fine alla lunga conversazione e si salutarono con un fraterno abbraccio.

Federico si avviò verso casa con l’anima ribollente, come d’autunno il mosto nei tini. Era stata una conversazione suggestiva, evocatrice di dubbi che a lungo lo avevano dilaniato. Ora gli sembrava di conoscere meglio la religione su cui si fondava la sua fede e soprattutto credeva di vedere una svolta a quell’antico progetto della sua vita che fioriva ancora dentro di lui.

Quella lettura nuova del vangelo e dell’Antico Testamento, fatta con grande amore da don Mario, se da un lato lo aveva sconvolto, dall’altro lo aveva confermato nella sua decisione di darsi alla vita sacerdotale. Capiva che tale decisione cadeva in un momento di profonda crisi della Chiesa, di attesa di un vero cambiamento. Ma ciò non lo spaventava ed era pronto ad accettare la sfida della solitudine alla quale ogni prete avverte di essere destinato.

I giorni che seguirono furono intensi per meditazione e per incontri spirituali. Infine seguì un cammino di studi e di spiritualità che lo portò alla ordinazione sacerdotale.

Don Mario fu molto felice della scelta fatta da Federico; ebbe modo di incontrarlo frequentemente, perché nei primi anni del suo ministero, fu assegnato a una parrocchia di una diocesi vicina. Entrambi erano convinti che la Chiesa dovesse mettersi sempre al servizio degli uomini e spendersi per il loro bene e lavorare sempre avendo un solo pensiero come diceva don Mario: “Portare Dio agli uomini e non viceversa, in modo che nessuno rimanga escluso”.

Nel vangelo si evince un cambio radicale: non più l’umanità rivolta verso Dio, ma l’umanità orientata verso l’uomo. Infatti Gesù vuole che il nostro cuore si espanda verso il prossimo, per cui il peccato non è da intendersi come offesa verso Dio, ma contro gli uomini, quando appunto compiamo atti di ingiustizia, quando arrechiamo agli altri sofferenza e morte. In tal senso è peccato tutto ciò che ottunde e soffoca l’umanità del prossimo.

Don Mario con queste idee chiare, profondamente meditate, da oltre dieci anni svolgeva umilmente il ministero sacerdotale nella sua parrocchia, cercando di essere pragmatico e coerente.

Spesso si trovava in imbarazzo quando nel suo ufficio riceveva un operaio che, licenziato dalla ditta presso la quale lavorava e a cui aveva dedicato con onestà e sacrificio tutte le sue energie, gli esponeva i problemi di sopravvivenza della famiglia. Aveva notato che negli ultimi tempi, queste visite con richieste di aiuto si erano intensificate. In qualche caso aveva provato a parlare con i proprietari delle ditte o a prendere contatti con i responsabili dei sindacati, ma senza alcun successo.

Quando la sera consumava la cena, un po’ di minestra calda un uovo e una mela, andava col pensiero alle famiglie dei suoi parrocchiani e si domandava se tutti si trovassero nelle condizioni di assicurarsi un pasto. Certi giorni rientrava a casa tardi, molto stanco e rattristato per quel che aveva visto e udito. La visita ai parrocchiani era sempre ai primi posti nel programma della giornata. Distribuiva il suo cordiale saluto, il suo immancabile sorriso, il suo conforto e la sua benedizione con calore e sincerità. Assicurava per quel che poteva un piccolo aiuto economico, un interessamento per la ricerca di un lavoro, per una prestazione medica, per l’appianamento di una questione familiare. Aveva portato tutto il suo cordoglio alla povera madre di Matteo, il bimbo che tempo prima era ricoverato in ospedale e che in  quei giorni era stato sepolto. Come era stato difficile tradurre nella concretezza, dinanzi a quella donna con gli occhi pieni di lacrime, quelle idee sulla morte, che va intesa come apertura definitiva alla luce che è in noi, come ingresso nella vita eterna, indistruttibile, non certo come male o castigo di Dio. Don Mario rifletté a lungo su queste difficoltà. Forse era la sua inadeguatezza, la sua insufficienza nei rapporti umani a creare quel gap tra quanto sinceramente sentiva nella sua coscienza e la parola che si calava nella realtà! Poi si consolava pensando che in fondo chi lo aveva voluto in quel posto e in quel momento gli assicurava misteriosamente di aver fatto buona testimonianza di amore verso gli altri. Sentiva che la sua solitudine di prete era nulla di fronte alle tante sofferenze che vedeva all’interno della comunità;

avrebbe voluto meglio inserirsi nella vita di ognuno, portare sollievo e con un sorriso di fanciullo aggiungeva tra sé che se ne avesse avuto la possibilità avrebbe venduto pure il Vaticano.

La gente guardava a don Mario come a un buon prete, buon parroco, colto e sensibile, ma forse non riusciva a vedere in lui un uomo come tutti gli altri, con i suoi problemi, i suoi dubbi, le sue manchevolezze, i suoi sentimenti, sebbene particolarmente sorretto da una fede che gli ispirava un amore disinteressato verso tutti, compresi coloro che si tenevano lontano dalla Chiesa. La fede e l’amore disinteressato erano i segni più caratteristici della sua personalità, che facevano dire ai suoi parrocchiani che don Mario si distingueva da tutti gli altri preti, che invece avevano nel cuore la carriera e l’interesse economico.

Di lui, dunque, si fidavano ciecamente, così tanto, che quando lanciò l’idea di acquistare un terreno accanto alla chiesa per costruirvi una casa per accogliere i più bisognosi e un campo sportivo per i giochi dei ragazzi, le offerte fioccarono con una abbondanza straordinaria, inaspettata. Le offerte anonime o accompagnate da una firma o da una dedica venivano aperte la sera e il giorno dopo, puntualmente, portate in banca.

I mesi seguenti furono segnati da un intenso lavoro amministrativo, al quale il povero prete non era abituato: mai tanto denaro era passato tra le sue mani; mai tanti calcoli e tanti contatti con professionisti, architetti geometri tecnici. A malincuore dovette rivedere l’agenda dei suoi impegni spirituali: conferenze, incontri, visite, studio. In compenso vedeva giorno dopo giorno i lavori che procedevano speditamente senza intoppi: scavatrici, fondamenta, betoniere, impalcature, muri. Con entusiasmo di fanciullo vedeva crescere quel fiore del suo impegno attorno alla chiesa: parrocchiani e cittadini mai prima conosciuti si avvicinavano e, incontrandolo, si complimentavano.

Ogni quindici giorni convocava una riunione con un gruppo ristretto di parrocchiani che si erano offerti volontariamente per fare un rendiconto delle spese, per raccogliere suggerimenti ed eventualmente critiche per quel che ritenevano inadeguato. Tra i suoi collaboratori c’era anche un parrocchiano che esercitava la professione di ragioniere, il quale aveva notato che da qualche mese “i conti non tornavano”. Nel bilancio del fondo destinato al progetto c’era sempre una piccola somma in più non registrata. Don Mario, messo alle strette, dovette confessare che aveva voluto risparmiare qualcosa del suo per aggiungerlo al fondo. Diceva che non era difficile risparmiare da quegli introiti (piuttosto modesti e inferiori a quelli suggeriti dall’autorità ecclesiastica), derivanti dalle sacre cerimonie dei battesimi, dei matrimoni, dei funerali, delle benedizioni delle case, delle piccole offerte delle messe domenicali. Questo spiegava il perché don Mario andava in giro con una vecchia vespa scassata, con una tonaca un po’ logora e perché se ne stava con la canonica e la sua abitazione piuttosto fredde durante le giornate invernali, consumando pasti molto frugali. Il ragioniere si arrogò il diritto di rimproverarlo con affetto e commozione, approvato da tutti gli altri.

Sul suo volto si affacciavano le prime rughe, sul suo capo i primi capelli bianchi. Erano rughe di sorrisi, di bontà, dicevano i parrocchiani; erano bianchi capelli che mostravano saggezza e comprensione paterna. Sapeva cogliere sempre l’aspetto positivo in ogni situazione difficile. Per lui il “fiat voluntas Dei” non era una espressione astratta, ma una adesione concreta e totale alla realtà della vita, guidata dall’occhio divino. ( continua la seconda parte il 7 ottobre).

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