IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Il capostazione di Acilumera” un racconto di Vincenzo Fiaschitello

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CAPOSTAZIONE

di Vincenzo Fiaschitello

La divisa e il berretto dormivano in un angolo buio di un armadio. Da quando aveva lasciato il servizio di capostazione, Michele Ucciardo aveva preso l’abitudine di andare a rivederli, toccarli e odorarli. Tastava nella tasca della giacca il fischietto e, rassicurato che tutto fosse in ordine, chiudeva l’armadio e usciva per la sua consueta passeggiata.

CAPOSTAZIONE

Ora che vedeva vicina la sua morte, gli tornava sempre più insistente il pensiero che la vita per lui aveva perso ogni significato. La dolcezza di un tempo si era mutata in disinganno, in insopportabile pienezza. Eppure qualche volta riusciva a mettere a tacere quell’afflizione che lo tormentava e si soffermava a ricordare con tenerezza il tempo che aveva vissuto con le persone amate. Gli sembrava ieri quella primavera del 1930. Era stato nominato capostazione da qualche mese e ricordava di percorrere il sentiero che si inerpicava verso la collina da dove lo sguardo poteva spaziare da un lato verso il mare e dall’altro verso il paese, per metà disteso in una piccola valle e per l’altra metà sparso lungo una altura di roccia costellata di chiese e di palazzi.

In lontananza sorgeva la stazione: controllò l’orologio, segnava le dieci in punto. Stava pensando che il “merci” fosse in ritardo, quando proprio in quell’istante vide un pennacchio di fumo e sentì il fischio che annunciava il suo arrivo. Era davvero il tempo in cui anche i “merci” viaggiavano puntuali. Aveva chiesto un giorno di congedo e la stazione era rimasta affidata al suo vice. Il medico lo aveva tranquillizzato sul malessere che da qualche giorno lo angustiava. Gli aveva suggerito di fare qualche passeggiata all’aria aperta e di assumere cibi più semplici e vari.

Quella passeggiata era destinata a cambiargli la vita.

Fu quel giorno infatti che incontrò lei. Se ne stava seduta su una roccia sporgente a guardare dal lato del mare.

donna seduta su una roccia che guarda il mare

“E’ bello, vero?”, disse salutandola gentilmente. Quella sorrise e si limitò ad annuire col capo. L’aveva vista varie volte alla stazione. Lei lo conosceva bene e non ebbe alcun timore quando le chiese se poteva sederle accanto. Parlarono a lungo, poi nel momento in cui accennò ad alzarsi, lui la baciò. Fu come un alito di vento che accostò due fiori di primavera. Lei ricambiò, abbandonandosi a una dolcezza sconosciuta che le sconvolse tutto l’essere.

Non passò molto tempo che i due si ritrovarono marito e moglie in quell’appartamento che ospitava il capostazione. Fino ad allora le finestre che si affacciavano sui binari non avevano conosciuto vasi di gerani.

Caterina, dopo circa un anno, mise al mondo un maschio.

Michele vedeva crescere il bimbo e provava tanta tenerezza quando gli faceva delle domande sulle stelle, sui piccoli animali per i quali nutriva un gran rispetto, sui treni che correvano verso luoghi sconosciuti.

Caterina gli riferiva che la sera Marcello non riusciva a prendere sonno se non dopo aver udito sferragliare l’ultimo treno della giornata. Quando finalmente Michele rientrava, lo trovava già addormentato. Immaginava che Marcello provasse le stesse sensazioni che lui aveva provato da bambino. Al fischio del treno si tirava sopra il capo la coperta e chiudeva gli occhi, aspettando il sonno. E il sonno scendeva velocemente come il treno che si avventurava per luoghi lontani, attraversando valli e gallerie misteriose, fischiando e sbuffando. Non distingueva il momento preciso quando sprofondava nel sonno. E tra sonno e sogno vedeva passare un treno, lo salutava. Le luci dei finestrini si allontanavano come le stelle al giungere dell’alba e si perdevano nello spazio interminato di una valle. Il chiarore del giorno e lo spegnersi delle luci creavano un paesaggio simile a quello del grande presepe della chiesa che Marcello contemplava a lungo a Natale. Restava stupito da quell’improvviso mutamento, solo che al posto dei canti natalizi, era il fischio del treno che spezzava una quiete titubante.

bambino che dorme

Per Marcello il giorno si apriva lacerato da quel fischio che lo caricava di una strana felicità e di desideri inespressi. Al giungere del treno e al silenzio del campanello, lasciava il tepore del letto, ancor prima che la madre venisse a svegliarlo e ad aprire la finestra che illuminava la stanza. E con allegria e impegno si preparava ad andare a scuola, dove si era fatti tanti amici.

Spesso la sera alla finestra, la luce spenta, contemplava il cielo stellato e il lungo rettilineo della strada ferrata fino all’ultimo tratto della curva dove prima di scomparire dietro la collina il treno rallentando scagliava piccole faville che a lungo duravano nelle sue pupille vive, stelle accanto a stelle, eteree, infinitamente belle. Pensava al giorno in cui quel treno lo avrebbe portato al di là di quelle colline dove lui non era mai stato. Che gioia scoprire il cielo dietro quei colli, il mare, i giardini di aranci e di limoni, ai quali talvolta la brezza strappava inebrianti profumi che giungevano fino a lui. Ma non era che un bel sogno. E una tristezza dolce gli scendeva nel cuore e a lungo taceva.

Venivano, venivano in tanti i ragazzi sul piazzale antistante la stazione, certi pomeriggi assolati. Correvano come forsennati dietro l’unica preziosa palla di gomma; correvano divisi in due squadre: ora fuorilegge che inseguivano gente inerme, ora uomini di legge contro banditi. Poi andavano a riposare entro i vagoni dei treni lasciati in sosta sui binari di servizio. Le bambine preferivano giocare a parte, vestivano e svestivano le loro bambole, fingevano di preparare il pranzo, si riposavano distese sui sedili di legno di terza classe.

Così trascorrevano i giorni delle vacanze estive, la luce del cielo privo di nuvole che entrava prepotentemente tra le finestre dei vagoni, finestre di giorni interminabili.

La chiamarono a lungo Clara, quando il sole cominciò a declinare. Nessuno rispose, nessuno l’aveva vista! La cercarono per tutta la notte con i lumi in mano, mentre i cani annusavano dappertutto.

Tre giorni e tre notti la cercarono. Poi qualcuno disse che il treno l’aveva portata via, lontano: quel desiderio lo aveva sentito dire proprio da lei. E tutti i bambini si tranquillizzarono e cominciarono a invidiarla. Clara affacciata al finestrino di un treno veloce che attraversava laghi, monti, città. Clara che aveva incontrato una dama, bella come una fata, che l’aveva vestita come una principessa e tutti si inchinavano al suo passaggio.

Piansero tutti quando si seppe la verità. Prima la sua scarpetta, poi il suo corpicino martoriato entro il tubo di cemento della nuova fognatura, dove a nessuno prima era venuto in mente di cercare.

Pensarono ogni giorno a quel che era accaduto e i loro occhi non smisero di fuggire quel cielo triste di agosto.

Michele ricordava che quella brutta storia aveva cambiato il suo bambino. Ora lo vedeva più riservato, meno allegro, più timoroso. Qualche volta invitava a casa i suoi amici preferiti con i quali faceva diligentemente i compiti e nei momenti di pausa, richiamato dal trillo del campanello o dal fischietto del padre che dava il segnale di partenza a un treno, si affacciavano dalla finestra per salutare i viaggiatori.

Poi venne la guerra che sconvolse la sua vita.

Spesso, camminando, Michele pensava a quel terribile bombardamento. Le nuvole sfilacciate fuggirono atterrite. Chi non poté fuggire furono i vecchi, le donne, i bambini, che nudi e scalzi raccolsero tra la polvere.

Poi venne il silenzio e dopo il silenzio il lamento dei vivi tra le case e i vicoli del paese. Con voce tremante, piano, perché nessuno lo sentisse, diceva a se stesso: “Caterina eri tutta nel sogno, i tuoi capelli crespi, i tuoi occhi lucidi di pianto, i tuoi zigomi rosei come minuscole colline, il tuo corpo di alabastro. Eri tutta nel tuo silenzioso operare di giorno in giorno, a curare ogni dettaglio che facesse bella la nostra casa, a far crescere il bimbo con il nostro amore. E sempre nell’aria della sera ti sentivo affaticata, tu mutata in lunga giornata di lavoro!”

Li tirarono fuori dalle macerie, abbracciati, lei con il grembiule da lavoro, il bimbo con il quaderno della scuola stretto al petto.

Di giorno in giorno Michele sentiva venir meno le forze. La sera se ne stava con i gomiti poggiati sul tavolo della cucina, le mani che premevano le tempie, sforzandosi di richiamare gli eventi della sua vita. Sapeva che per un vecchio non ci sono speranze al di fuori della reminiscenza. Era dunque importante tenere accesa la memoria, non lasciarsi sovrastare dal torpore dell’età, dalla sazietà della vita, dall’abitudine, dall’eterno ripetersi delle cose.

Un pensiero teneva per un po’ lontano la sua solitudine e tristezza: si vedeva diritto, alto, vestito con l’elegante abito a due petti in stoffa drappé nera con panciotto di piquet bianco e con il suo imponente berretto rosso con fregio e palme ricamate in oro, fermo sulla banchina accanto al treno. Solo lui con il berretto rosso, la paletta luminosa in mano e il fischietto poteva autorizzare la partenza del convoglio. Affacciate ai finestrini del treno le belle ragazze lo ammiravano e non appena il treno si muoveva qualcuna trovava l’ardire di salutarlo con la mano, mandandogli anche un bacio.

Gli capitava di udire il suono ritmico del campanello della stazione che annunciava l’arrivo di un treno o il fischio imperioso del fischietto che dava il segnale della partenza. E l’illusione dei sensi era così viva che lo spingeva quasi a ripetere nella realtà gli stessi gesti di allora, fissati nella memoria di una abitudine solidificata. Lo smarrimento che immancabilmente seguiva gli dava la certezza che quel passato non esisteva più, era un inganno doloroso, era come il vento d’autunno che continuava a tormentare le povere foglie morte già da tempo staccate dal ramo.

La sua casa non era più quella della stazione dove per quaranta anni aveva trascorso la sua vita di lavoro. Ora i suoi giorni scorrevano in una piccola abitazione a piano terra circondata da un minuscolo giardino a qualche decina di metri dalla stazione.

casa con giardino

Al mattino presto vedeva passare i pendolari, studenti, impiegati e operai, che a piccoli gruppi raggiungevano la stazione, seguiti sempre da quei due o tre ritardatari, quasi sempre gli stessi, che si affrettavano, preoccupati di non fare in tempo a salire sul treno, che già fischiava e sbuffava. Il vapore si diffondeva nell’aria e d’inverno si mescolava alla nebbia. Di pomeriggio, specie con il bel tempo, i ragazzi giocavano dinanzi alla stazione, dove sostava l’unico cocchiere del paese con il suo vecchio cavallo aggiogato a una carrozza verde su cui era impresso il numero uno, in attesa di qualche viaggiatore.

Di fronte alla sua casa lungo la strada c’era una fila di magazzini ripieni di carrube che per tutta l’estate fino all’autunno inoltrato quando finalmente partivano per varie destinazioni gli ultimi “merci”, mandavano un odore che si spandeva nell’aria, un odore intenso, dolciastro, insidioso e inconfondibile, che ristagnava durante il giorno e la notte. L’odore delle carrube si mescolava a quello del carbone che bruciava nella fornace della motrice.

Quando certe mattine d’inverno il vento sbatacchiava porte e finestre e non c’era verso di fermarlo, pur tappando ogni fessura e buco tra il muro e il legno delle imposte rese secche e cedevoli per il lungo trascorrere degli anni senza mai sentire la presenza di una vernice riparatrice, il capostazione se ne stava pensieroso a guardare da dietro i vetri le cime degli alberi che ondeggiavano paurosamente e le facciate delle case schiaffeggiate da una pioggia insistente. Si sentiva al sicuro, sotto un tetto che lo proteggeva e ciò gli dava compiacimento e voglia di ricordare la sua vita di ragazzo. Vide passare un gruppo di pendolari che chiusi nei loro impermeabili, tenendo a due mani gli ombrelli perché il vento non li portasse via o li rovesciasse, quasi correvano per raggiungere la pensilina e ripararsi.

-“Che vita”!- esclamò fra sé il vecchio. Continuò a restare con i suoi pensieri che gli procuravano tanta nostalgia e un’ombra di malinconia. Ma non risalivano alla coscienza soltanto gli eventi di quando era ragazzo, la memoria gli riportava alla mente i giorni di pioggia e di freddo al tempo in cui già svolgeva il suo lavoro di capostazione e quando una notte qualcuno bussò alla porta del suo appartamento per informarlo che una frana aveva ricoperto i binari. Si era vestito in fretta e con l’aiuto di due operai era riuscito ad evitare un disastro ferroviario. Fu una notte memorabile che gli regalò un elogio e una polmonite che per poco non interruppe per sempre la sua carriera.

Di lì a poco la pioggia cominciò a scemare, il vento calò, Michele socchiuse un po’ la finestra e una folata di aria odorosa di terra e di foglie gli colpì il volto. Si svegliò da quella specie di torpore che gli impediva di prendere alcuna iniziativa. Gli venne voglia di uscire e di gironzolare attorno alla stazione.

Quando era ancora ragazzo spesso lasciava il gruppo degli amici e si intrufolava nella stazione da un ingresso laterale. I binari in mezzo alle due banchine brillavano al sole, in attesa che un treno sferragliando spuntasse dalla curva sul ponte di ferro appena ricostruito, dopo che la piena del torrente l’anno prima l’aveva fatto crollare. Ricordava benissimo il viavai quotidiano dei militari del genio con gli autocarri carichi di materiali e di attrezzi che avevano lavorato senza risparmio e la gente, nei brevi momenti di pausa, che si avvicinava offrendo loro formaggio, frutta e acqua fresca attinta da una anfora di argilla porosa, che le donne tenevano tra le braccia avvolta in un panno. Per lunghi mesi la stazione non vide passare treni. La sera, al chiarore della luna, in lontananza si scorgevano due tronconi del ponte separati da un’ombra nera che si perdeva nell’alveo erboso del torrente.

Da qualche tempo Michele aveva preso l’abitudine di sedersi su una panchina di ferro. Se la ricordava sin da quando bambino si divertiva con i compagni a saltarla con agilità. Un grosso ippocastano la teneva quasi sempre in ombra per cui nella buona stagione trovava piacevole riposarvi dopo la passeggiata. Quella panchina si era abituata al riposo di Michele, a quegli occhi che guardavano i treni, ai battiti del suo cuore, al suo respiro.

panchina vuota

Più di una volta aveva avuto la sensazione che accanto a lui sedesse qualcuno, quando invece in realtà non c’era nessuno. Si era sorpreso a pensare che stava invecchiando e che tutti i suoi amici, uno dopo l’altro, non c’erano più: la maggior parte riposava nel piccolo cimitero del paese, altri relegati in casa perché malati e non autonomi. Avvertiva dunque un vuoto attorno a sé e la smania di tormentarsi l’anima andava crescendo ogni giorno di più.

-“E’ giunto il tempo, diceva a se stesso, di riflettere sugli eventi più importanti della mia vita perché possa a questo punto dell’esistenza capire e valutare”. Per questo gli era venuta in mente l’idea di immaginare accanto a sé, di volta in volta, il personaggio coinvolto nell’evento che la sua memoria richiamava. Un mattino a Michele parve di riconoscere nell’ombra che gli sedeva accanto sulla panchina, Girolamo, il suo amico ferroviere addetto al controllo degli scambi e ai rifornimenti dell’acqua per la caldaia del treno. Gli era molto simpatico perché lo teneva di buon umore con le sue barzellette, con il racconto di tutto ciò che accadeva in paese e di ciò che si diceva attorno ad alcuni personaggi noti per comportamenti stravaganti.

Credette di udire la voce del suo amico:

”Michele, ti ricordi di Vanni, il calzolaio? Tutto il giorno lo si vedeva dinanzi al suo deschetto, ora canticchiando ora salmodiando secondo l’umore e le persone che gli stavano attorno. Batteva con forza sulle suole lucide i chiodi, dritti e sottili come lui, che scomparivano in un istante lasciando appena intravedere dei puntini lucenti. L’ultimo atto era quello di ammirare le scarpe, dopo averle lucidate con sputi e vernice, alla debole luce naturale che entrava dall’unica apertura: una porticina che dava sulla strada e che lasciava passare appena una persona. Capitava spesso che qualche ragazzo a bottega del falegname che stava alcuni passi più avanti, si prendesse gioco di lui. Portava un largo pannello di compensato e lo poggiava quasi per caso proprio lì davanti alla porticina di Vanni, coprendola completamente e oscurando quel bugigattolo. Per i primi minuti, il calzolaio sopportava, poi si alzavano fino al cielo le grida, le ingiurie, le imprecazioni. A quel punto scorgeva lo sguardo canzonatorio del ragazzo che lesto lesto toglieva quel coperchio e si scusava dicendo che non si era nemmeno accorto che lì ci fosse una porticina. Era sempre la stessa storia che si ripeteva con altri apprendisti, istruiti a dovere dal falegname. La sera Vanni si trasformava, era un altro uomo. Non fosse stato per le sue mani nodose che mandavano ancora l’odore della cera con cui faceva scorrere lo spago e i piccoli tagli sulle dita che gli procuravano l’affilato trincetto e la lesina, lo si sarebbe scambiato per uno studente universitario fuori corso o per un giovane professore. Alto, magro, occhi neri e brillanti, vestito con eleganza, passeggiava lungo il corso sempre accompagnato dai soliti amici che ammiravano la sua cultura e i suoi giudizi sugli avvenimenti riportati dai giornali. Spesso le sue opinioni venivano accolte con sorpresa, perché i tempi non erano ancora maturi, per esempio come l’accettazione del matrimonio per i preti cattolici o l’estensione dell’obbligo scolastico fino ai diciotto anni”.

Michele si alzò dalla panchina, rasserenato e sorridente dopo avere guardato attorno a sé. Dell’ombra non c’era più traccia.

I suoi occhi erano ancora vivaci, intenti a esplorare i cespugli, i fiori di mandorli che sbocciavano ai primi tepori del mite inverno, i suoi occhi erano pieni di sogni. Un silenzio rugoso si faceva strada nel suo animo se qualche volta era tentato di ammettere che la vita in fondo non era stata bella. Quante rinunce, quanti piaceri perduti! Il parroco che passava per uomo di grande esperienza, saggio e colto, durante l’omelia domenicale non mancava mai di confortare i bravi lavoratori ancora giovani che la sera tornavano stanchi, privati di ogni piacere della vita se non di quel poco che la povera casa poteva offrire, perché una volta raggiunta l’età della pensione avrebbero avuto tutto il tempo per recuperare quanto era stato loro tolto in gioventù. Ma ora che era giunto alla condizione di pensionato, Michele era convinto che aveva subito un inganno. Le privazioni del tempo della gioventù erano niente a confronto della attuali. Nessun compenso poteva sperare da un corpo senza vigore, da un cuore senza entusiasmo e audacia, da una mente che nuotava nella nebbia se solo per poco la lasciava in riposo senza richiamare i ricordi. Era certo di essere stato beffato.

Tuttavia, grazie alla bontà della sua indole, ora trovava compensi nell’avere pensieri più modesti, meno altezzosi di quelli del tempo della gioventù che chiedeva sempre la supremazia sugli altri. Ora avvertiva che il suo sguardo era più corto, che aveva più tempo per chinarsi a osservare un sassolino, un piccolo animale che si muoveva circospetto lungo il muro, un filo d’erba, una goccia di rugiada che pendeva da una fogliolina. Il corpo, un tempo agile e scattante, ora era flaccido, lento e debole, pronto a quella metamorfosi da tutti temuta che porta all’unità della materia che ci circonda. E l’anima silenziosa e delicata ospite del suo corpo? Che ne sarà di lei? Quale viaggio intraprenderà? 

Dinastiche interrogazioni senza risposte soddisfacenti!

Michele rifletteva guardando il limpido cielo di certe sere estive che accoglievano le prime luci del tramonto. Ricordava quando ragazzo disteso supino sulla panchina, vicino ai treni fermi, restava a lungo ad ascoltare i compagni che raccontavano storie di fantasmi; ricordava il nonno che non mancava mai di indicargli i nomi e le posizioni degli astri e i miti costruiti attorno ad essi. Non si perdeva un gesto, né una parola. Con quanta gioia e commozione guardava quella eternità che si squadernava innanzi ai suoi occhi.

-“Vedi, diceva il nonno, non bisogna aver paura della morte; io molto prima di te mi unirò a questa immensità che ci sovrasta e raggiungerò i nostri avi, tutti gli altri esseri che ci hanno preceduto. E così sarà di te e di tutti coloro che dopo di te verranno sulla terra. Noi abbiamo un appuntamento con la morte dal momento in cui nasciamo, un appuntamento al quale ciascuno di noi non può sottrarsi. La morte arriva sempre e dunque è meglio non farla aspettare. Dobbiamo perciò considerarla come parte di noi stessi, come un atto naturale, qual è quello del mangiare, del dormire, del camminare”.

Quelle riflessioni del passato erano ora il presente per Michele.

Non trascorsero che pochi giorni, quando il capostazione, lasciata la sua abitazione dopo una notte insonne che lo aveva prostrato per quel senso di abbandono e solitudine sempre più insopportabile, si avviò verso la solita panchina. Ripeteva a se stesso che ormai non c’era più quella umanità, parenti, amici, conoscenti, con i quali per tutta la vita si era confrontato con colloqui, litigi, dibattiti. Erano tutti scomparsi. Il cielo aveva disposto diversamente per lui. Per fortuna che quell’estate che sentiva come l’ultima della sua vita, gli aveva donato la grazia di voci e ombre amiche.

-“Oh, sei tu don Ignazio! Caro amico perduto troppo presto. Da te speravo di ricevere a questa età che ho raggiunto un conforto con i tuoi saggi consigli. E invece te ne andasti così dolorosamente ancora giovane”.

L’ombra fece udire la sua voce:

”Tu ricordi la mia felice vocazione sacerdotale, la devozione al mio parroco alla guida di tanta povera gente che frequentava la chiesa, la nostra bella e ricca chiesa del paese? Io ero un prete giovane e senza esperienza e tuttavia non mi tiravo indietro nell’assistere i moribondi, nel confortare gli ammalati, nell’insegnamento del catechismo ai bambini che si preparavano alla prima comunione. Sentivo il mio parroco che approvava e aveva fiducia in me. Credevo ciecamente nel buon senso di quell’uomo, nello spirito di carità, nella capacità di sopportare anche le offese. Insomma lo ritenevo un prete integerrimo, magari un po’ severo, dai modi un po’ rudi a volte, ma in definitiva un parroco da prendere come esempio. Mi sbagliavo. Una mattina entrando in chiesa mi accorsi che mancavano due antichi candelabri di legno; al loro posto ce ne erano due di lucente metallo dorato. 
“Ti piacciono, mi disse, i due nuovi candelabri? Ho dato via quelli vecchi a un rigattiere e me li ha sostituiti con questi due nuovi moderni”. Nei giorni seguenti con rammarico notai che le tre poltrone intarsiate e dorate del ‘700 erano scomparse. Al loro posto facevano bella figura tre poltroncine moderne di velluto rosso. Dinanzi a questi cambiamenti e a numerosi altri restavo perplesso e non avevo più il coraggio di fare alcuna osservazione ed esprimere il mio parere contrario. Finì che un giorno non vidi più, sopra i rispettivi altari, le due pregevoli tele: una della Natività, l’altra raffigurante la Vergine Assunta in cielo con gli angeli e ai lati due figure di santi inginocchiati in preghiera. Quella volta non potei fare a meno di domandare perché erano state rimosse. Il reverendo parroco si limitò a darmi una risposta piuttosto sibillina: “Sua Eccellenza il Vescovo ha disposto che venissero restaurati”.

Qualche giorno dopo per caso scoprii che non era vero. Sua Eccellenza non ne sapeva nulla e anzi mi incaricò di indagare. Scoprii così che don Simeone aveva costruito una doppia immagine di sé nella comunità cristiana del paese: da un lato appariva come un parroco colto, fine teologo, ottimo predicatore, valido direttore spirituale di anime bisognose del suo aiuto; dall’altro era né più né meno che un vero affarista, attaccato al denaro come un usuraio e pronto a sacrificare la fede e ogni principio morale per un vantaggio economico. Naturalmente questo aspetto, espressione di quel male che lui nelle prediche contrapponeva al bene, era purtroppo noto in quel periodo solo a pochi, finché si arrivò allo scandalo che lasciò senza parole tutti coloro che come me riponevano stima e fiducia in lui. Ciò che più dispiacque, oltre al fatto che prestando denaro aveva acquisito un buon numero di botteghe del paese, fu la spoliazione sistematica della chiesa con la vendita di oggetti sacri, paramenti, arredamenti e delle bellissime tele del cinquecento, vendute non intere, ma ritagliate opportunamente (la Vergine, gli angeli, i santi, ecc.), sì da poterle incorniciare in quadri separati più remunerativi.

Il vescovo lo privò della parrocchia; poco prima della partenza volle salutarmi e con aria di sincero compatimento mi disse: “Don Ignazio, ti ringrazio per la comprensione che mi hai dimostrato in questi frangenti e per il fatto che a differenza di tanti altri tu non abbia infierito contro di me. Tu sei una persona buona e semplice e temo che gente come me ti potrà arrecare delusioni e sofferenze. Ma vedi, io ho sempre odiato la povertà, il fascino del denaro mi ha soggiogato al punto da farmi dimenticare ogni mio dovere. Riconosco che la mia grave colpa non è stata soltanto il furto, ma la distruzione di ciò che l’artista aveva creato come bellezza per l’eternità e che io invece ho assoggettato ai miei meschini bisogni materiali”.

“Sì, don Ignazio, disse il capostazione, ho ancora un ricordo di quel parroco che fece tanto male alla nostra comunità. Anche io gli fui buon amico. E quando divennero noti quei fatti, mi sembrò che la mia anima si staccasse non solo dal mio corpo, ma anche da quello di un amico che era come una radice infissa nel terreno e all’improvviso si trovò ad agitarsi senza sicurezza alcuna come un lenzuolo scosso dal vento. D’un tratto quel corpo dell’amico  diventò niente, meno di una misera spoglia di una cicala che aveva cantato durante la lunga estate”.

Poi l’ombra di don Ignazio riprese: “Per alcuni anni non ebbi più notizie di don Simeone. Un giorno ricevetti una lettera proveniente dal Vaticano. Con grande sorpresa vidi che portava la firma di monsignor Simeone P. L’antico parroco mi invitava in Vaticano per un colloquio privato per alcune importanti comunicazioni e mi raccomandava di non mancare. Seguivano fraterni saluti nel Signore. Dopo aver letto più volte la lettera e riflettuto, decisi di chiedere udienza a Sua Eccellenza il Vescovo. Questi, non poco perplesso, si riservò il tempo necessario per fare una opportuna verifica e il giorno dopo, accertata la autenticità della lettera, non esitò a darmi il consiglio di andare in Vaticano a trovare l’ex parroco, promosso monsignore.

Entrando in Vaticano superai ogni ostacolo, mostrando la lettera del monsignore e dopo una breve anticamera fui introdotto nel suo ufficio. Mi accolse abbracciandomi e dimostrando molta cordialità. Confesso che quella accoglienza in una stanza elegantemente arredata con mobili costosi, quadri alle pareti, un grande crocifisso di legno di scuola giottesca e un enorme tappeto che ricopriva quasi tutto il pavimento, servì ad allentare il mio imbarazzo iniziale. Il mio volto sicuramente teso assunse un aspetto più tranquillo e cominciai a fargli qualche domanda, evitando accuratamente di ricordargli le disavventure al tempo in cui era parroco. In breve mi narrò che il merito di quell’avanzamento nella carriera ecclesiastica era stato di una sua sorella, più anziana di lui, che era tornata da un paese dell’Africa dove per più di trent’anni aveva svolto la sua preziosa opera di missionaria. Sua Eminenza il cardinale Giacomo R. si era prodigato per un ricovero urgente in un sanatorio perché gravemente malata. Quale segno della riconoscenza della Chiesa, aveva voluto premiarla con l’attribuzione di una carica importante in un ufficio della Curia al fratello prete che viveva in un paese della provincia. Da quel punto privilegiato di osservazione, proseguì don Ignazio, monsignor Simeone mi fece capire che era venuto a conoscenza di fatti, di opinioni, di segreti, che “noi poveri umili preti di periferia non ci immaginiamo neanche”.

Dopo questa anticipazione, mi pregò di restare per qualche settimana suo ospite. Rifiutai con il pretesto che avevo promesso ai miei parrocchiani che sarei tornato entro due o tre giorni. Insistette, usando anche parole di cortesia, di preghiera. Rifiutai ancora. Ma quello, divenuto improvvisamente severo e rosso in viso, mi si accostò e all’orecchio con voce grave e con tono minaccioso mi disse:

”Non puoi rifiutare! Ho già fatto il tuo nome a Sua Eminenza e mi basta che io faccia una telefonata perché le guardie ti impediscano di uscire e ti arrestino”.

Istintivamente mi diressi verso la porta, la aprii e mi accorsi che ai lati c’erano due guardie svizzere, che entrando non avevo visto.

“Ma insomma, ribattei, vuoi spiegarmi che cosa vuoi da me?

“Stai tranquillo, non ti chiederò nulla di illegale. Ora ti spiego. Conoscendoti come un prete colto e umile, ho pensato subito a te per un incarico assolutamente segreto che Sua Eminenza il cardinale Giacomo R. vuole assegnare. Forse hai sentito parlare del santo frate francescano Egidio che vive nel convento di S. Ebbene, si è diffusa da qualche tempo in Vaticano la notizia che questo frate ha scritto una lettera segreta di profezie che riguardano la Chiesa. Ci sono coloro che sottovalutano queste voci, ma altri, cardinale e prelati, dimostrano un vivo interesse e sono convinti che per il bene della Chiesa è necessario venire in possesso di questo documento. Ora sappiamo con certezza che la lettera è stata nascosta nell’archivio segreto in mezzo ad altri documenti. Solo il prefetto conosce con esattezza lo scaffale e la cartella. Ebbene, don Ignazio, io ho fatto il tuo nome come quello di un prete studioso dedito alle ricerche storiche. Tu avrai un permesso speciale per entrare liberamente e fermarti senza destare alcun sospetto. L’archivio, come sai, è immenso; ci sono chilometri di scaffali, ma io non dubito che tu potrai far valere oltre la tua cultura, anche la tua fede e la tua umiltà”.

Accettai, sebbene non fossi sicuro di portare a buon fine quella missione. Il pensiero di poter visitare l’archivio segreto, il grande luogo della memoria della Chiesa, e muovermi a piacimento mi lusingava. Il primo mese mi limitai a visionare con discrezione quasi a caso alcune cartelle: le aprivo, osservavo i timbri, le firme, la numerazione. Prendevo appunti su un grosso quaderno e facevo la massima attenzione a rimettere a posto ogni cosa, perché mi sentivo osservato, ora da un anziano monaco, ora da qualche custode. Un giorno vidi che un barnabita parlava con il prefetto e questi guardò più volte verso la mia direzione.

Era già trascorso un mese, allorché un giorno mi spinsi verso gli scaffali che contenevano i documenti più antichi. Su una cartella trovai scritto il nome di Santa Caterina da Siena. Ah, la grande santa che aveva aiutato a guarire lo scisma della chiesa nel medioevo. Avignone, il papa Urbano V, mi venivano in mente nomi e avvenimenti di quella antica epoca.

Lo scisma!… D’un tratto un lampo mi colpì il cervello. E se il santo frate avesse profetizzato qualcosa di simile per il prossimo futuro della chiesa? Perché no?, mi dicevo. E se appunto per una sorta di associazione di idee, il prefetto avesse voluto nascondere proprio tra quelle carte la lettera misteriosa del fraticello?

Aprii la cartella con le mani tremanti, mi guardai attorno spaventato, ma più sfogliavo quelle carte e più mi convincevo che la mia era stata una falsa intuizione. Stavo rimettendo tutto in ordine, quando tra le ultime carte spuntò una busta di colore arancione. Mi accorsi subito che non poteva far parte delle antiche carte di Santa Caterina: la busta era recente e per di più aveva un sigillo di ceralacca che era stato violato. Con il cuore che mi batteva forte, la aprii e cominciai a leggere rapidamente.

BUSTA CON SIGILLO DI CERALACCA

Non avevo ancora finito di leggere l’ultimo dei tre fogli scritti con grafia minuta, che sentii posarmi sulla spalla una mano: “Eh, bravo don Ignazio! Mi dia subito questo documento, rimetta a posto la cartella di Santa Caterina e venga immediatamente nel mio ufficio”.

Mi sentivo colpevole come uno scolaretto dopo aver commesso una marachella. Ma la faccenda era molto seria.

Il prefetto guardò attentamente quei tre fogli, li infilò nella busta arancione e buttò tutto nel braciere dove ardeva un piccolo fuoco. Con una paletta frugò tra la cenere, poi finalmente mi rivolse la parola:

“Don Ignazio, leggendo quel documento lei ha appreso un contenuto che, pur se espresso come profezia da quel santo frate francescano, può danneggiare la Chiesa. Le chiedo che cosa l’ha più impressionato e che cosa esattamente ricorda. Mi risponda con piena sincerità”.

“Io sono giovane e godo di un’ottima memoria. Ricordo quasi tutto di quel che ho letto: corruzione del clero, contestazione della morale tradizionale, messa in discussione dell’autorità del papa, fede cattolica compromessa dal dialogo con le altre religioni. Ecco, quel che più mi ha atterrito è stata l’ultima frase che ho letto prima che lei intervenisse a interrompere la mia lettura: il trasferimento della Chiesa da Roma a Gerusalemme”.

“Sì, è vero, uno scisma! E’ probabile che questa profezia si avveri. La curia è devastata da due correnti contrapposte: una vuole l’apertura al nuovo mondo che si va delineando e i cardinali che la sostengono sono molto potenti, capaci di influenzare le decisioni dei pontefici; l’altra è quella dei conservatori, anch’essa rilevante, che intende salvaguardare la tradizione millenaria della Chiesa che ha garantito stabilità, certezze, fiducia nel concetto di un Dio unico. Oggi i conservatori si vedono spiazzati dalla diffusione del nichilismo che nega ogni tipo di metafisica, pronto a confermare che Dio è morto, che svaluta i valori supremi, ammettendo una pluralità di valori, con il rischio che non si può più fare riferimento a un faro, a un valore assoluto, che dia certezze sicure e indubitabili. La conseguenza peggiore, dunque, sarà tra non molto che la Chiesa perderà ogni credibilità, non potrà più avere un controllo sulle coscienze individuali, come ancora oggi è possibile, attraverso principi unificanti e assoluti che discendono dalla legge divina. E dunque, se questa è la strada che i progressisti intendono percorrere, favoriti dalla affermazione della tecnica, si apre la possibilità di uno scisma nel caso di una sconfitta dei conservatori. Presso quale luogo sicuro potersi rifugiare se non a Gerusalemme, il luogo dell’ebraismo, il luogo delle radici del monoteismo, il luogo che ha irradiato la parola dei vangeli.
Dimentichi questo nostro colloquio, dimentichi quella lettera, non si congedi neppure dal suo protettore intrigante, monsignor Simeone, se ne torni oggi stesso nella sua diocesi e preghi il Signore che, se la profezia dovesse avverarsi, mandi una nuova Santa Caterina per la guarigione della Chiesa”.

Michele, emozionato e alquanto confuso da ciò che aveva appreso, disse:” Sì, don Ignazio, ricordo il tuo rientro in parrocchia. Eri cambiato! Ora capisco il dolore che ti viveva negli occhi. Il tuo Dio forse non era più quello dei nostri avi! Ti avviasti alla morte nel volgere di pochi giorni per quel male che solo tu sapevi e ci lasciasti spogli come la nostra chiesa a lungo depredata e che avresti voluto rivestire con amore e pietà”.

Finiva l’estate. Il ventoso autunno iniziava il suo cammino, strappando foglie e ossa, pronto a cremare la sofferenza di una vita che viaggiava ancora nell’ultimo vagone di terza classe del treno della sera.

Lo trovarono sulla panchina con il capo reclinato sul petto, dormiva il sonno dell’eternità. Il suo sonno era lungo, interminabile, fermo tra due occhi ombrati, aperti a un suono vasto che correva dietro la motrice col fumo bianco soffiato verso il cielo. Nessuno della gente di una volta era là a piangere, nemmeno le ombre.


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