IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

La casa della vedova di via Bellosio

Casa-della-vedova

Casa-della-vedova

di Vincenzo Fiaschitello

Giovanni stava seduto al suo tavolo di lavoro fra libri e carte

che quasi lo soffocavano. Già da diversi giorni, la sera,

sempre alla stessa ora, quella figura di donna magra, minuta,

con i capelli bianchissimi e il viso rugoso, lo guardava con

occhi pensosi senza proferire parola.

Giovanni si era ormai abituato a quella strana e misteriosa

presenza e pensava che forse fosse soltanto frutto della sua

immaginazione turbata, come non mai negli ultimi tempi, dal

peso dei suoi sogni che si erano accumulati in maniera

incontrollabile su una smisurata quantità di carta.

Fogli ingialliti, scritti con la vecchia Olivetti lettera 32, fogli

scritti a penna in caratteri minuti e ora di difficile lettura

senza l’aiuto di una lente, fogli più recenti, ordinati, eleganti,

scritti al computer, diari, quadernoni legati e racchiusi in

pacchi voluminosi: tutto sotto lo sguardo di Giovanni che

pareva leggervi dentro, pagina per pagina.

Giovanni più volte aveva provato a domandare a quella

anziana donna seduta in penombra in un angolo dell’ampia

stanza: “Chi sei?” Ma non aveva avuto risposta, solo un lieve

impercettibile movimento delle labbra. “Eppure, ripeteva fra

sé, io questa donna la conosco. Ma dove l’ho vista? Dove?

Proprio non ricordo!”

A un tratto un lampo fulminò la sua mente: “Ma certo! E’ lei.

La stampa pubblicò la sua foto, narrando la sua disavventura

e la sua triste fine. Non è molto rassomigliante, ma sono

sicuro che è lei”.

Giovanni, da quella vicenda aveva tratto un breve racconto.

Quella sera cercò tra le sue carte, ma non riuscì a trovarlo. Se

la sua supposizione era vera, allora quella figura lì, silenziosa,

che continuava a guardarlo, non poteva che essere un

fantasma. Ma lui non credeva ai fantasmi!

Si sorprese a pensare le cose più strane intorno a quella

donna, senza parole, senza carne.

Pensava al suo ventre da giovane: il bimbo che aveva

portato? Il bimbo che aveva scalciato entro quella capsula

buia e liquida? E lì già un cuore batteva, già mani tastavano

morbide pareti, già occhi e orecchi vedevano tenui chiarori e

suoni lontani come onde appena increspate dalla brezza

marina.

Ora pensava alla propria nascita, a quel piccolo essere tirato

fuori da una carne che non avrebbe mai potuto abbracciare.

Quella madre, che lui non aveva mai conosciuto, gli era

mancata e gli mancava ancora, ora che la partita stava per

chiudersi.

Per tutta la vita si era votato alla scrittura. Il lavoro di

giornalista lo aveva obbligato a scrivere di tutto: dalla

cronaca ai resoconti di viaggi, alle interviste, ai diari, ai

racconti, ai romanzi. Per scelta o per opportunità i suoi scritti

portavano firme diverse.

La partita quasi al termine? E non c’era alcun asso segreto da

calare! Si vedeva a pezzi come dinanzi a uno specchio in

frantumi; come fare per ritrovare se stesso? Vedeva troppi se

stessi attorno a lui.

Quella sera avrebbe voluto cominciare a distruggere il peso

di quei sogni suoi e di persone che non riconosceva più, che

affollavano la scrivania, i cassetti, gli scaffali delle librerie, i

pacchi puntigliosamente chiusi e numerati.

Mentre si dibatteva in pensieri che rivelavano l’inizio della

fine, il cammino già intrapreso da una infinità di esseri

corporei che come lui avevano ricevuto la stessa eredità

irrinunciabile, sentì una voce:

-“So quel che stai pensando, Giovanni. Non farlo! Ciò che

hai scritto, sotto il tuo nome o sotto falso nome, non

appartiene solo a te, ma ai lettori che hai avuto e che

verranno. Vorrei ora ascoltare quel che hai detto di me, della

mia triste vicenda. Quella storia la puoi trovare nel secondo

cassetto a destra della scrivania. Non puoi sbagliarti!

Giovanni, sebbene scosso da quella voce, superata la

comprensibile emozione, aprì il cassetto e trovò facilmente il

racconto che aveva scritto alcuni anni prima.

-Un’anziana donna, uscita dall’ospedale, trova occupata la

sua casa. Questa storia somiglia molto a diverse altre che più

o meno frequentemente accadono in varie altre parti del

nostro paese, ma questa merita più attenzione per il tragico

epilogo.

Bechir Taburi, come tanti altri migranti, cinque anni fa era

arrivato in Sicilia dalla Tunisia. Più fortunato dei suoi

conterranei, aveva trovato un lavoro a Mazara del Vallo,

grazie a una sua precedente esperienza di pescatore. Il

proprietario di un piccolo peschereccio, dopo averlo aiutato a

regolarizzare i suoi documenti, lo aveva fatto imbarcare. La

paga e le ore di lavoro erano soddisfacenti, per cui Bechir

pensò di far venire la sua numerosa famiglia, la moglie e i

suoi cinque figli.

Tutto filò liscio per il primo anno. L’inserimento della

famiglia nella nuova comunità procedeva efficacemente, i

figli più grandi andavano a scuola, i tre più piccoli

crescevano in casa accanto alla madre che li copriva di ogni

attenzione.

Una sera, sulla banchina del porto, la famiglia come altre

volte attendeva l’arrivo del peschereccio. Quando approdò il

peschereccio della flottiglia della Società Mare Pulito, la più

importante della città, si vide un insolito affollamento di

gente e l’arrivo di una macchina della polizia. La notizia si

sparse in un baleno. Una motovedetta tunisina aveva

speronato un peschereccio italiano, minacciato i marinai e

poi anche sparato. I marinai erano stati colpiti a morte, tranne

uno che si era prontamente gettato in acqua ed era stato

successivamente salvato da un nostro peschereccio. Questo

era quel che raccontavano quegli uomini esasperati,

lanciando bestemmie e improperi contro gli autori di quelle

sopraffazioni che le nostre autorità non sapevano impedire,

facendo rispettare il diritto di pesca in un tratto di mare, che i

tunisini a torto consideravano parte delle loro acque

territoriali.

Disperata, con un groppo alla gola e seguita dai figli, la

donna tunisina aveva appresa la tragica notizia che dava per

certo che il peschereccio attaccato era proprio quello dove

era imbarcato Bechir. La sua speranza era appesa a un filo:

forse l’unico superstite era il suo uomo.

Non si sbagliava. Bechir scese con le sue gambe da un

peschereccio giunto poco dopo, affaticato per la lunga

permanenza in acqua prima di essere salvato, ma incolume.

Ma per Bechir, quello fu il suo ultimo viaggio da pescatore.

Rimase a lungo senza lavoro, finché certi suoi amici gli

prospettarono la possibilità di raggiungere Milano, dove

sarebbe stato più facile trovare una occupazione. Bechir con

tutta la sua famiglia fu costretto a vivere in una stamberga

della periferia della città. Il disagio era insopportabile, specie

per i bambini.

Un giorno, un amico gli disse:

-“Ho sentito dire che con un po’ di coraggio, un tizio con la

sua famiglia è riuscito ad accaparrarsi una casa!”

-“Mah, io ne ho tanto di coraggio, ma non riesco a trovare

nulla!”

-“Ascoltami, il segreto è presto detto. Basta sapere se un

anziano che vive solo, anzi meglio se è una anziana, un bel

giorno si ammala seriamente ed è costretta a farsi ricoverare

in ospedale. A quel punto il più è fatto. Tu e tutta la famiglia

in piena notte vi intrufolate dentro, vi chiudete e organizzate

la vostra nuova vita”.

-“E che cosa succede quando arriva la proprietaria?”

-“Intanto non è certo che la proprietaria arriverà. E’ probabile

che essendo anziana, non esca viva dall’ospedale e allora non

c’è più da temere nulla. Se ritorna, non è affatto semplice che

la proprietaria riesca a cacciarvi, specie te che hai una

famiglia numerosa.”

-“Certo, non è una bella condotta. Si tratta di commettere un

reato”.

-“Se ti fai prendere da simili scrupoli, sarai costretto a

passare con i tuoi bambini un altro terribile inverno in questa

topaia”.

-“Ma come si fa a sapere del caso buono a questo scopo?”-

“Lascia fare a me! Io conosco un tale che per pochi spiccioli

ti potrà informare al momento giusto”.

E il momento giusto non tardò ad arrivare.

La casa era in via Bellosio, circondata da un muretto con

inferriata. Tinteggiata di giallo ocra sorgeva in mezzo a un

giardino con fiori e siepi sempreverdi: due cipressi, uno

accanto all’altro, puntavano le cime verso il cielo, dal lato

destro della casa.

La signora Rosa Simonetti aveva vissuto lì per quarant’anni,

dal giorno del matrimonio. Senza figli, era rimasta vedova da

poco più di un anno e non aveva parenti, fatta eccezione per

una cugina che però viveva negli Stati Uniti.

L’epidemia di influenza aveva particolarmente colpito gli

anziani quell’anno e non aveva risparmiato la signora Rosa.

Il medico che l’aveva visitata, vista l’insorgenza di

complicazioni, le aveva consigliato il ricovero in ospedale.

Era, dunque, quella una situazione ghiotta. E infatti non

sfuggì all’attenzione di quel tizio che vendeva questo tipo di

informazioni: casa solitaria, ricovero ospedaliero della

proprietaria, vedova e senza parenti.

-“Quale altra migliore occasione, caro Bechir? disse il suo

amico nel riferirgli la notizia. Questa notte stessa muoviti

e…buona fortuna!”

Bechir caricò le sue poche cose su un carrettino preso a

prestito e, appena passata la mezzanotte, rotta la catena di

ferro che chiudeva il cancello e forzata la porta di ingresso,

in pochi minuti tutta la famiglia si trovò sotto un tetto. I

bambini, prima assonnati, si svegliarono del tutto e corsero

da una stanza all’altra, soffocando grida di meraviglia per

tutte le cose che scoprivano: tavoli, poltrone, librerie, armadi,

elettrodomestici,tutte cose che non avevano mai avuto così

a portata di mano.

Una vera gioia. E la prima notte in casa passò velocemente.

All’alba Bechir volle sistemare alla meglio la porta di

ingresso, chiudendola con un lucchetto che aveva trovato in

cantina. Raccomandò alla moglie di essere prudente, specie

per i primi giorni e di non far gironzolare fuori in giardino i

bambini. Ma né il primo giorno, né i successivi, la famiglia

fu disturbata da alcuno. Solo dopo una settimana, ebbero la

visita del postino per la consegna della bolletta della luce.

Quello, però, si servì della buca delle lettere e non manifestò

alcuna sorpresa per la presenza dei bambini che giocavano in

giardino.

Era già trascorso un mese, quando un pomeriggio la signora

Rosa, perfettamente guarita, scese dall’autobus e si diresse

verso casa. Con gioia rivedeva quei luoghi: il negozietto

della merceria, il negozio di alimentari, il bar, il

fruttivendolo. Una conoscente la salutò: “Come sta, signora

Rosa? Finalmente è tornata! A casa ci sono i parenti che

l’aspettano. I bambini, anche con il freddo, li ho visti giocare

in giardino!”

-“Ma quali bambini? Quali parenti? Io non ho nessuno!”

La salutò in fretta e allungò il passo con un strano

presentimento che le aveva spento la gioia provata un

momento prima.

-“E tu chi sei?” disse la signora Rosa, spingendo il cancello e

entrando in giardino.

Il bambino non rispose e corse via: “Mamma, mamma! E’

entrata una signora in giardino!”

Bechir e la moglie fecero subito entrare il bambino e

sbarrarono la porta. Rosa bussava, bussava, ma fu tutto

inutile. Gridava: “Questa è la mia casa! Andate…andate

via!”

Le urla della signora Rosa avevano fatto accorrere un po’ di

gente davanti al cancello. Chi conosceva Rosa, capì che cosa

stava accadendo. La verità passò di bocca in bocca e,

vedendo che la signora si disperava e piangeva, qualcuno

pensò di chiamare i vigili. In pochi minuti arrivarono e,

compresa la situazione, bussarono energicamente alla porta.

Dopo qualche esitazione, Bechir e la moglie aprirono e

fecero entrare i vigili. L’opera di persuasione durò non meno

di mezz’ora. Alla fine Bechir che aveva violato il domicilio

della signora Rosa accolse l’offerta di lasciare la casa, in

cambio della assicurazione che la proprietaria non avrebbe

proceduto alla denuncia.

Fu molto amaro il rientro di Bechir e della sua famiglia nella

baracca ancora più fredda e fatiscente di quando l’avevano

lasciata.

Alcuni giorni dopo, Bechir tornava dal suo giro giornaliero in

città alla ricerca di un lavoro qualsiasi: lavapiatti, scaricatore

di merci, pulitore di cantine, raccoglitore di cartone. Era

quasi arrivato all’ingresso della sua baracca, quando una

macchina dei vigli si accostò e un agente lo chiamò per

nome. Lo conosceva perché era uno degli agenti che lo

avevano convinto a lasciare la casa della vedova.

-“Ecco, Bechir, la signora Rosa mi ha consegnato questa

busta per te. E’ un suo regalo!”

Bechir fece appena in tempo a ringraziare che già la

macchina si allontanò velocemente. Aprì subito la busta.

Dentro c’erano venti biglietti da cento euro e una lettera.

“ Egregio signor Bechir,

io la ringrazio per aver lasciato la mia casa, dove ho vissuto

per quarant’anni. Non avrei potuto sopportare di vivere

altrove, lontano dalle cose di tutta la mia vita, dai miei ricordi

più cari. Le sono veramente grata per avermi concesso la

possibilità di terminare i miei giorni tra queste mura, in modo

particolare perché sono consapevole della gravità delle sue

condizioni, senza un lavoro e con una famiglia così

numerosa. E tutti quei bambini!… Io sono una vecchia

maestra in pensione, ho conosciuto tanti, tanti bambini che

ho sempre amato e rispettato. E’ nel loro ricordo e in quello

dell’unico mio bambino, morto subito dopo la nascita, che mi

sento in coscienza di offrirle un segno tangibile della mia

gratitudine. Le auguro di trovare presto un lavoro.

Rosa Simonetti

Seguì un momento di grande commozione e gioia in casa di

Bechir. Poi la moglie disse: “Domani mattina andrai a

ringraziare e salutare la signora”.

Il giorno dopo, Bechir andò a casa della signora Rosa,

portando un mazzo di fiori. Rosa lo accolse con gentilezza,

gli offrì un caffè e si informò sulla salute dei bambini,

raccomandandogli di mandarli a scuola.

La vedova quel giorno ricevette un’altra visita per nulla

gradita. Già prima del ricovero in ospedale, il geometra

Sebastiano Vinci era venuto a trovarla almeno due volte e

altrettanto dopo lo sgombero della famiglia tunisina. La

ragione delle visite era sempre la stessa. Il geometra tirava

fuori disegni e planimetrie di una palazzina che intendeva

costruire nell’area dove sorgeva la casa della vedova.

Sebastiano Vinci diceva che lui faceva le cose per bene, non

vendeva fumo. La signora, in cambio della cessione del sito,

dopo la costruzione della palazzina, avrebbe avuto senza

alcuna spesa un bellissimo appartamento a sua scelta,

secondo le sue esigenze. Era una offerta molto vantaggiosa,

diceva il geometra, e la signora non avrebbe dovuto pensare a

nulla.

Il “no” di Rosa era stato sempre deciso, ma quello non si

arrendeva e veniva a rinnovare l’offerta. Quel giorno la

vedova, ormai stanca di sentire la stessa promessa, si rifiutò

di farlo entrare. E quello stette un po’ a protestare ad alta

voce con le carte sotto il braccio e a gridare. Poi finalmente

uscì dal giardino, sbattendo il cancello.

Un mattino, Ciro, il garzone del negozio di alimentari dove

abitualmente la signora faceva la spesa, bussò più volte, ma

non ebbe risposta. Il padrone del negozio la chiamò al

telefono, ma senza successo.

Il giorno dopo accadde la stessa cosa e, temendo un malore

della vedova, il brav’uomo chiamò una signora vicina di casa

che la conosceva bene. Bussarono invano alla porta.

Allarmati, non esitarono a chiamare la polizia.

Due agenti entrarono in casa dalla finestra della cucina,

rimasta stranamente aperta. La donna stava riversa sul

pavimento della camera da letto. Le prime impressioni degli

investigatori che pensarono a un delitto furono presto

confermate dal medico, il quale parlò di strangolamento.

Probabilmente il ladro o i ladri che si erano introdotti in casa

erano stati sorpresi dalla signora.

Il disordine era dappertutto: i cassetti svuotati e buttati per

terra, i vestiti, i libri ammucchiati in un angolo. La donna

stava in vestaglia con accanto un libro aperto e gli occhiali da

vista con un vetro rotto.

La squadra del commissario Nardone fece tutti i rilievi del

caso, fotografò la posizione del cadavere, raccolse alcuni

reperti e concentrò l’attenzione su una busta gialla, dentro la

quale venne trovato il testamento olografo della signora Rosa

Simonetti. Qualcuno segnalò al commissario che quella busta

si trovava in bella mostra appoggiata al vetro del comò e non

tra le carte, i libri e le altre cose buttate per terra, quasi che il

ladro o i ladri avessero voluto farla trovare facilmente.

Il commissario aprì la busta e lesse il testamento scritto su un

semplice foglio di quaderno. Conteneva la volontà della

vedova di donare dopo la morte al tunisino Bicher la sua

casa.

Dopo nemmeno ventiquattr’ore dal fattaccio, il commissario

Nardone ebbe la certezza che l’autore del delitto fosse

proprio il tunisino. Due erano gli indizi che gravavano su di

lui: il tunisino doveva avere avuto notizia della donazione a

suo favore e perciò aveva voluto accelerare la morte della

signora; il tunisino aveva voluto vendicarsi della cacciata

dalla casa, dopo il ritorno della signora dall’ospedale.

Fu disposto il suo arresto e il conseguente trasferimento in

carcere.

Il destino aveva stabilito che il delitto della vedova avesse un

diverso sviluppo.

Il dottor Nardone, infatti, nella notte ebbe un infarto e venne

ricoverato in ospedale.

Per circa una settimana, il commissariato fu

provvisoriamente in mano all’ispettore Cannavò. Poi giunse

la notizia della nomina di un nuovo commissario: era una

donna, Valentina Spanò.

-“Dottoressa Spanò, il Prefetto mi aveva già avvertito del suo

arrivo. Mi ha detto molto bene di lei. So che è al suo primo

incarico, per questo le chiedo di tenermi presente per

qualsiasi consiglio o suggerimento che le possa servire.”

-“La ringrazio, signor Questore e vorrei subito approfittarne”.

-“Dica, dica pure, Spanò”.

-“Ecco, appena arrivata, io ho dato un’occhiata ai risultati

delle indagini che il collega aveva preparato per l’invio al

magistrato, ma, se permette, debbo confessarle che c’è

qualcosa che non mi convince”.

-“Qualcosa che non la convince? E che cosa? Mi sembra che

Nardone, molto scrupoloso, abbia intuito subito che

l’assassino di quella poveretta non poteva essere altri che

quel balordo tunisino che le aveva occupato la casa con tutta

la famiglia. E’ evidente che si è trattato di una vendetta e poi

la storia del testamento, che…”

-“Mi scusi se la interrompo, signor Questore, ma io penso

che non sono stati adeguatamente considerati alcuni elementi

importanti. La mia impressione è che è prevalso il solito

ingiusto pregiudizio nei confronti degli immigrati, ritenuti

sempre e comunque portatori di male”.

-“Senta dottoressa, vedo che lei è molto determinata e questo,

in fondo, mi fa ben sperare e gioca a suo favore. A questo

punto io le offro tutta la mia collaborazione e pregherò il

magistrato di concederle ancora un po’ di giorni per il

prosieguo delle indagini”.

Grazie, signor Questore. Comincerò con l’interrogare Bicher

in carcere.”

Appena uscita, il Questore si rivolge al suo collaboratore che

ha assistito al colloquio e dice: “Che bel tipo questa siciliana

di ferro. Che ne dici? Mi piace, parla un perfetto italiano

senza alcuna inflessione dialettale. Se non sapessi che è di

Castelvetrano, la prenderei per una toscana”.

Nel frattempo la dottoressa Spanò era scesa nel cortile

interno alla questura e, salita in macchina, sgommando andò

via.

Dalla finestra, il Questore: “Che ti dicevo? E’ proprio un bel

tipo!”

In ufficio, oltre all’ispettore Cannavò e due appuntati che

partecipavano attivamente alle indagini, la dottoressa poteva

contare sulla fedeltà incondizionata dell’agente Rocco

Patanè, un suo concittadino, ex compagno di scuola.

L’incontro con Rocco era stato piuttosto curioso. A causa di

un contrattempo, la dottoressa non aveva trovato la macchina

della polizia che era andata a prenderla alla Stazione

Centrale.

Preferì viaggiare sui mezzi pubblici e quando fu in zona vide

due agenti che si dirigevano verso una vicina palazzina. Uno

dei due si voltò un attimo perché aveva udito lo scampanellio

di una bicicletta e, continuando a parlare con il collega

diceva:

-“Ho saputo che verrà un commissario femmina. A me non

piace farmi comandare da una donna!”

-“Rocco Patanè, ma che minchia dici?”

-“Minchia, talìa cu c’è. Ma chi ci fai ca?”

-“Minchia lo dico solo io, disse la donna, dov’è il

commissariato?”

-“Ma che devi fari na denuncia?”

-“No, Rocco! Sono il nuovo commissario, al posto del dottor

Nardone”.

Rocco Patanè restò stordito, peggio che se in quel momento

gli fosse caduto in testa da una finestra un vaso di gerani.

Il collega fece subito il saluto, portandosi la mano alla

visiera e cominciò a scuotere l’amico.

-“Venga, signor commissario, l’accompagniamo noi.

Come aveva detto al Questore, la dottoressa Spanò volle

incontrare in carcere il tunisino, il quale dichiarò ancora una

volta la sua innocenza, dicendo che, dopo aver lasciato la

casa della signora con la sua famiglia, lui aveva visto la

vedova un’altra sola volta per ringraziarla.

-“Perché ringraziarla?” disse il commissario.

-“Perché mi aveva mandato una lettera affettuosa e duemila

euro. La busta me la portò il vigile che conosceva la signora.

Siccome mia moglie non trovava più la lettera, non ho voluto

dire nulla quando la settimana scorsa mi hanno interrogato,

perché temevo che se avessero trovato il denaro, mi

avrebbero accusato di averlo rubato. Ora però mia moglie ha

ritrovato la lettera”.

-“Bene, andremo a verificare. Signor Bechir, un’ultima cosa:

chi è l’amico che le ha dato le informazioni sulla casa che lei

ha occupato?”

-“E’ un uomo che ho conosciuto il giorno del mio arrivo a

Milano e che mi ha aiutato a trovare la sistemazione nella

baracca dove c’è ancora la mia famiglia”.

-“Dove possiamo trovarlo?”

-“Fa il posteggiatore alla Stazione Centrale, è un tipo magro

e alto e si fa chiamare Romero”.

Alla dottoressa Spanò il tunisino sembrò sincero. Nello

stesso giorno acquisì agli atti la lettera della vedova. Per il

giorno successivo dispose una accurata perquisizione della

casa della signora Rosa. Trovarono tutto così come era stato

documentato dalla squadra del dottor Nardone. A un tratto

però uno degli agenti disse: “Signor commissario, guardi che

ho trovato in fondo al cassetto del comodino in camera da

letto” e mostrò una minuscola chiave dorata legata a un

nastrino rosso.

In ufficio, la dottoressa Spanò girava e rigirava la piccola

chiave tra le dita, poi disse all’ispettore: “Mi chiami, per

favore, Rocco Patanè”.

L’agente, un po’ preoccupato, entrò: “Comandi,

commissario”!

Il commissario gli mise sotto gli occhi la chiave, dicendogli:

“Rocco, osserva bene questa chiave e dimmi a che cosa ti fa

pensare”. Rocco la guardò attentamente e subito rispose:

-“Dottoressa, ma questa è la chiave che si è persa mia zia

Filomena, la portava sempre appesa al collo!”

-“Rocco, non dire stupidaggini. Vorresti dire che questa è

una chiave simile a quella che aveva tua zia”!

-“Beh, sì!”

-“E che cosa apriva? Te lo ricordi?

-“Certo, apriva la cassettina delle elemosine che il parroco le

aveva affidato. Lei era la sagrestana custode della chiesa e

quando la domenica veniva il parroco per dire messa, gliela

consegnava per il ritiro delle offerte”.

-“E’ quello che ho pensato anch’io: la chiave di una

cassettina di elemosine! Grazie, Rocco, sei stato di grande

aiuto!”

-“Ispettore, qual è la chiesa più vicina alla casa della

vedova?”

-“Sì, la conosco, dottoressa, andiamo”.

Entrati in chiesa, aspettarono che il prete finisse di confessare

una vecchietta, poi si avvicinarono e gli fecero segno che

volevano parlargli. Quello uscì dal confessionale, si tolse la

stola e li invitò in sagrestia.

-Reverendo, disse il commissario, lei riconosce questa

chiave?

-“Oh, sì certo. E’ la chiave della cassetta delle elemosine

dinanzi all’altare di sant’Antonio. Apparteneva alla povera

signora Rosa. Lei era molto devota del santo e mi aveva

pregato di poter avere a sua completa disposizione la

cassettina delle elemosine, murata accanto all’altare. Pensava

di mettere ogni mattina qualche moneta dei risparmi della sua

pensione e alla fine del mese era felice di aprirla e

consegnarmi una discreta somma per le necessità dei poveri.

Era una donna molto caritatevole. Proprio qualche giorno fa,

dopo aver saputo della disgrazia, mi domandavo come avrei

potuto recuperare la chiave.”

-Ecco, reverendo. Possiamo aprire insieme la cassettina?”

-”Certo, venite con me.”

Dalla cassettina vennero fuori un buon numero di monete da

uno e due euro e due fogli di carta.

La dottoressa Spanò ringraziò il prete e dopo avergli

consegnato il denaro portò via i due fogli, ritenendoli utili per

le indagini. In ufficio, con calma esaminò il contenuto.

Il primo foglio era un vero e proprio testamento olografo,

regolarmente firmato dalla signora Rosa Simonetti, la quale

dichiarava la sua volontà di donare, dopo la sua morte, la

casa al signor Bechir Taburi e alla sua numerosa famiglia.

Era un testamento identico a quello che era stato rinvenuto in

casa, solo che questo aveva all’ultimo rigo una postilla,

anch’essa approvata con la firma autografa: “Non ho parlato

con nessuno di questo testamento, nemmeno al signor Bechir

Taburi”.

Il secondo foglio era una accusa al geometra signor

Sebastiano Vinci, il quale più volte era venuto in casa sua a

tentare di convincerla a cedere la casa in cambio di un

appartamento della palazzina che avrebbe costruito in quel

sito. E precisava che durante le ultime visite aveva usato un

tono molto minaccioso, per cui lei era rimasta spaventata e

non gli aveva più aperto la porta.

-“Ispettore, mi sembra che le cose si stiano chiarendo!” disse

la dottoressa Spanò.

Qualcuno bussò alla porta.

-“Ah, sei tu Rocco Patanè! Che succede?”

-“Dottoressa, di là c’è un tizio con il cane che vuole

urgentemente parlare con lei”.

-“Bene, fagli lasciare fuori il cane e poi lo fai entrare”.

-“Permesso, dottoressa. Mi perdoni, ma io mi muovo sempre

con il mio cane. Sicuramente fra un po’ comincerà a

lamentarsi”.

-“Si accomodi pure e mi dica, signor…?

-“Ah, mi scusi se non mi sono presentato subito. Sono il

signorGiulio Agresti, pensionato già da alcuni anni. Le chiacchiere

della gente qui intorno mi hanno accresciuto la curiosità.

Sono tutti concordi nel dire che questa periferia della città è

fortunata ad avere per commissario una donna giovane, bella

e attivissima.

-“Signor Agresti, non credo che sia venuto solo per dirmi

questo!”

-“Ma certo che no, dottoressa. Io le debbo riferire qualcosa

riguardo all’omicidio di quella povera vecchietta di via

Bellosio”.

-Ma, scusi, perché non lo ha fatto prima?

-“Eh, perché, perché? Io avrei voluto venire subito, ma la

mattina quando fu scoperto il cadavere, non mi sono potuto

alzare dal letto. La sciatica mi perseguita da qualche tempo.

Così fui costretto a telefonare a un mio nipote che mi venne a

prendere a casa e mi portò in ospedale. E lì sono rimasto fino

a ieri mattina. Ora, mi sono preoccupato di venire a riferire

quel che ho visto la sera in cui fu commesso il delitto.”

-“Come fa a dire che si tratta proprio della sera del delitto?”

-“E’ facile, dottoressa, perché io sono abitudinario e diciamo

anche un po’superstizioso. Mi piace sempre fare le cose allo

stesso modo. Ebbene, il delitto fu scoperto sabato mattina,

ma la vecchietta era stata uccisa giovedì sera. E siccome io

porto il mio cane al prato di sotto, dove appunto si trova la

casa della vedova il martedì il giovedì e il sabato, mentre

negli altri giorni lo porto al prato di sopra, non c’è possibilità

di sbagliarmi. Quel giovedì sera, verso le sette, io ho visto

uscire dalla casa della signora un uomo grasso e robusto che

correva. Il mio cane, innervosito, gli ha abbaiato dietro,

finché non ha raggiunto una macchina verde parcheggiata

poco distante.”

-“Grazie, signor Agresti, la sua testimonianza è molto

interessante!”

Il pensionato salutò e uscì, recuperando il suo cane.

-“E ora, ispettore, non resta che andare a far visita a questo

geometra”.

-“Sì, lo conosco, è proprio come lo ha descritto il signor

Agresti e ha una macchina verde.”

Lo trovarono in casa in mezzo a tavoli ingombri di varie

planimetrie aperte e arrotolate.

Alla prima domanda si dimostrò molto reticente, evasivo. Si

rifiutava di rispondere. A quel punto la dottoressa Spanò

disse all’ispettore Cannavò con tono deciso:

-“Fra dieci minuti lo voglio in ufficio”.

-“Allora, signor Vinci, abbiamo motivo di credere che lei

abbia minacciato la signora Rosa”.

-“Lo nego, lo nego proprio”.

-“C’è una dichiarazione scritta della signora che dice il

contrario. Quante volte lei si è recato in casa della signora e

perché.”

-“Sono andato appena una volta per farle una proposta molto

vantaggiosa, ma visto che la signora non l’ha accettata, non

ho più insistito”.

-“Lei è un bugiardo. Senta che cosa ha scritto la signora

Rosa”, disse il commissario; gli lesse la lettera che aveva

lasciato nella cassettina delle elemosine e aggiunse che la

sera del delitto qualcuno l’aveva visto uscire correndo dalla

casa della signora.

Il geometra era rimasto con la testa china senza rispondere.

-“Le conviene confessare, continuò la dottoressa Spanò, lei

odiava la signora perché si ostinava a non cederle la casa”.

Vinci restò in silenzio per un po’, poi scoppiò in lacrime:

-“Quella sera entrai a casa della signora dalla finestra della

cucina. Lei si spaventò. Ma io non volevo farle del male e le

ripetei più volte di firmarmi la dichiarazione di accettazione

dell’offerta dell’appartamento in cambio della cessione della

casa. Avevo una grande necessità di costruire quella

palazzina, perché negli ultimi tempi gli affari erano andati

molto male. Dopo tanto discutere, alla fine, lei mi disse che

aveva già fatto testamento di donazione della casa in favore

del tunisino. Fu per me un grande colpo, ma nello stesso

tempo mi si conficcò nel cervello un’idea: se l’avessi uccisa,

forse, tutte le responsabilità potevano ricadere sul tunisino.

Era lui, infatti, che l’aveva odiata perché cacciato fuori della

sua casa con l’intervento dei vigili. Era lui il destinatario

della donazione e quindi c’era un motivo valido per

accelerare la sua morte. Ma io sono stato sempre un

vigliacco, signor commissario, non potevo ucciderla. Mi

creda, io non ho ucciso quella donna. Mi aveva mostrato il

testamento: lo lessi e lo rilessi, poi poggiai la busta sul comò.

Mi accorsi che la signora improvvisamente sbiancò in volto e

svenne, accasciandosi sulla poltrona. Scappai di corsa,

oppresso dalla paura.”

-“Lei, signor Vinci, non poteva sapere che la signora Rosa

aveva lasciato un altro testamento identico, con l’aggiunta,

però, di una postilla nella quale precisava che non aveva

informato nessuno, nemmeno il diretto interessato. Dunque,

il tunisino non aveva alcun motivo per uccidere la signora,

dalla quale, tra l’altro, era stato beneficiato con il regalo di

una somma di denaro. Signor Vinci, lei ora può andare, ma si

tenga a disposizione, non si allontani dalla città.”

Uscito il geometra, l’ispettore Cannavò visibilmente

contrariato:

-“Ma dottoressa, lei è convinta che non sia lui l’assassino?”

-“Sì, Cannavò. Legga qui. Il medico nel suo referto ha scritto

che la vedova è morta verso la mezzanotte. Ora se il signor

Agresti ha visto uscire dalla casa quello che abbiamo

individuato come il geometra intorno alle sette di sera, è

chiaro che non è stato lui a uccidere”.

-“Ha ragione commissario. Ma allora?

-“Allora, Cannavò, vuol dire che l’assassino è un altro”.

-“Ci sono, dottoressa! L’informatore!”

-“Bravo, Cannavò, l’informatore è quello che sapeva tutto

sulla signora Rosa: malattia, abitudini, uscite per le spese e

anche le visite in banca. Solo uno può saperlo con certezza.

Un certo posteggiatore della Stazione Centrale che si chiama

Romero.

Vada subito a cercarlo e me lo porti in ufficio”.

Nel corso dell’interrogatorio, Romero ammise di avere molti

amici tra gli emigranti e di aiutarli come meglio poteva.

Aveva fatto circolare la voce che lui ricompensava bene le

informazioni sulle case abbandonate che potevano essere

occupate senza grandi rischi.

-“Un certo Ciro mi fece arrivare un biglietto con il nome

della signora e l’indirizzo di casa. Ecco, il biglietto lo

conservo ancora. So che è un giovane che lavora in un

negozio vicino a quella strada, ma io non lo conosco

personalmente. Gli ho fatto avere la ricompensa e poi non ho

saputo più nulla di lui.”

Quando la macchina della polizia si fermò dinanzi al negozio

di alimentari, Ciro stava sistemando dinanzi alla porta le

bottiglie di acqua minerale e di bibite. Lo fecero salire in

macchina per portarlo in commissariato. Il proprietario del

negozio uscì fuori e commentò meravigliato la scena con

alcune persone che si erano nel frattempo radunate.

In commissariato, la dottoressa Spanò non perse tempo.

Cominciò col mostrargli il biglietto che aveva mandato a

Romero; gli contestò il fatto che lui tenesse d’occhio

l’anziana donna in ogni suo movimento e che certamente non

gli era sfuggita l’operazione del prelievo in banca di una

discreta somma di denaro.”

-“Era a questo denaro che puntavi, Ciro Giordanella? Ma non

sapevi che quel denaro la signora lo aveva già regalato al

tunisino! Farai bene, dunque, a dirci la verità. Che cosa è

successo quella sera? Sai bene che se confessi potrai ottenere

uno sconto di pena; tu sei giovane e potrai rifarti una vita”.

-“Signor commissario, io non volevo ucciderla. Ero entrato

quella sera dalla finestra della cucina che trovai aperta e

andai subito a frugare nei cassetti e negli armadi per cercare

il denaro. Mi sembrò strano che sul letto non ci fosse

nessuno. D’un tratto si accese la luce e sbucò fuori la signora

con un libro in mano e con gli occhiali. Forse leggeva in poltrona

nell’altra stanza.

Si mise subito a gridare: “Ciro che fai qui? Che cosa vuoi?”

Mi aveva riconosciuto! D’istinto l’afferrai per il collo e poi la

vidi cadere a terra. Scappai, ma non potevo sapere se l’avessi

uccisa.

Ebbi la certezza quando la mattina successiva, andai a

portare come tutti i giorni il latte e il pane fresco, perché non

mi aprì la porta. E lo stesso accadde la mattina appresso”.

Quando Giovanni finì di leggere la storia dell’assassinio

della vedova, alzò gli occhi e guardò in fondo alla stanza.

Quella figura di donna non c’era più, era scomparsa.

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