IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Ipazia di Alessandria”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello  (Parte seconda)

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Ipazia d'Alessandria

Ipazia d'Alessandria

Si presentò a me in forma singolarmente solenne e regale con pastorale e vesti ricamate d’oro. Compresi che il suo atteggiamento intendesse umiliarmi, mostrandomi la superiorità del suo potere. Cominciò con il dirmi che a lui giungevano voci di magia sul mio conto e che io con il pretesto di insegnare le matematiche e l’astronomia, manovravo le menti dei miei discepoli con la pratica della divinazione, degli oroscopi che tanto scandalo suscitano tra i cristiani. “La conoscenza dei misteri che tu vanti, il carisma sacerdotale che emanerebbe dalla tua persona, sono orientati a generare confusione e sminuire la mia autorità spirituale presso il popolo. Non dimenticare che tu sei una donna e che il tuo posto deve essere

lontano dal potere e dalla cultura. Non sai che soltanto l’uomo può esercitare il dominio sulla terra? Quando parli della libertà di pensiero, degli dei pagani, non fai altro che istigare il popolo contro di me che sono il suo pastore con l’obbligo di gridare forte: Ora basta! Tu allontani il mio popolo dalla verità e insinui il dubbio, tu insegni a dubitare, non a credere e sei la causa di tanti disordini”.

-“Cirillo, ti suggerisco di calmare la tua ira. Mi pare di capire che il tuo risentimento verso la mia persona, nasca dal timore che tu possa perdere autorità per mia colpa, più che per la difesa delle idee pagane. Devo ammettere che in realtà hai ragione. Se vuoi proprio sapere qualcosa di più sul mio pensiero intorno al paganesimo, ti dico subito che con Talete di Mileto, sono contro i miti e le superstizioni. Gli dei li abbiamo creati noi. Chi sono i nostri magnifici dei inesistenti? Sono la voce della gente semplice, il dolore, le aspirazioni, il sostegno di coloro che portano sulle spalle il peso della vita. Sono fantasmi, spettri, idoli, che ogni rustico lascia a protezione del suo quotidiano lavoro, del suo riposo, sono invocazioni personificate, rivestite di carne, di potere, di odi, di difetti, simili a quelli degli uomini. Sono le immagini di poeti e di filosofi, che presidiano il bisogno di conoscenza, di amore, di saggezza e di bellezza, che l’uomo di pensiero porta dentro di sé, quale sete inestinguibile. Roride immagini, ammantate della luce eterna delle stelle, create per tenere sempre acceso il fuoco della virtù nei cuori e nelle menti.

Quanto all’influenza che la mia parola esercita su Oreste, posso dirti che il prefetto augustale della città, è un uomo sereno, equilibrato. Da me ha appreso una cosa importante: la verità va cercata, non può essere imposta con la violenza e che l’intimazione stessa della verità, già di per sé, è una menzogna. Se scegliere la strada della ragione nel proprio agire, come ha fatto Oreste, è causa di scandalo per te, io me ne assumo la responsabilità. Egli come rappresentante dell’impero conosce i suoi doveri e intende bloccare ogni tentativo di sopraffazione, mirando a un corretto equilibrio dei poteri dell’Impero e della Chiesa. La reazione di Oreste, ogni qualvolta tu eserciti il potere in vista di una sovrapposizione della Chiesa sul potere temporale, è giusta e ragionevole. Alessandria non sogna più, la sua gente è smarrita, da quando hai distrutto i nostri templi e le sinagoghe degli ebrei. E dove non l’hai fatto, i nostri archi, le nostre pietre, le colonne e i capitelli, odorano ancora della nostra sacralità, mista al vostro incenso. Nei vostri riti a lungo resterà l’antico cuore, vesti sacre e memoria di gesti, che quale perenne agonia vivrà latente nel vostro credo”.

-“Vedo, donna, che sai tenere testa in modo autorevole a me come agli altri uomini illustri della città, ma bada che questa tua parrhesia, questa tua insolenza a parlare senza reticenza a coloro che possiedono il potere, non ti conduca a gravi conseguenze. Torno ancora una volta a consigliarti di convertire la tua vita, se non vuoi perderla. Indossa vesti più modeste, convertiti al cristianesimo, vai a Cartagine e ritirati in un monastero”.

-“Cirillo, ascoltando te, io vedo l’incarnazione del male. Alla vostra furia, al vostro odio, nulla è sfuggito. Avete distrutto manoscritti preziosi con l’incendio del Serapeo, avete bruciato vivi i nostri sacerdoti, abbattuto il tempio di Eleusi. Quando tu dici che non fai altro che la volontà del tuo dio, bada Cirillo, che invece non sia piuttosto la tua volontà. Per le strade di Alessandria lo sanno pure i cani. Hai calpestato la voce della verità e l’hai sprofondata nel silenzio. Non illuderti che al tuo servizio si trovino oratori di gran fama, che si stracciano le vesti per rafforzare la tua verità. Lo fanno per crearsi alibi, come nuovi convertiti, per farsi apprezzare in vista di favori e di

guadagni futuri. Non si può fare violenza agli altri per affermare la propria verità. Anche se tutti gli abitanti di questa città, meno uno, la pensassero allo stesso modo, non si può non rispettare colui che si è espresso in forma contraria”.

-“Basta, empia donna, allontanati dalla mia persona e non comparirmi più innanzi”.

Ieratico, ma estremamente irato, come strali avvelenati le sue parole mi lancia con crudeltà, sminuendo ancora di più la natura disprezzata del mio essere donna.

Dopo quel colloquio, me ne tornai alla mia biblioteca. Ricordo che un suono triste di flauto che moriva in lontananza accompagnò il mio cammino e d’improvviso un presagio di morte si appollaiò nella mia mente, come un infausto uccello notturno. Così mi rivolsi al fedele Kaled che mi seguiva:

-”Kaled, quando arriveremo allo Studio, ti affiderò un papiro nel quale vado tracciando eventi e pensieri che riguardano la mia vita. Tu lo custodirai nella tua casa e me lo porterai tutte le volte che te lo chiederò. Nelle tue mani sono sicura che potrà salvarsi dall’odio dei cristiani facinorosi. Loro vogliono bruciare e distruggere tutto ciò che riguarda la mia persona e forse nulla di me resterà, se non questo papiro!”

Qualche tempo dopo, seppi che il prefetto Oreste aveva avuto un colloquio burrascoso con il vescovo Cirillo. Questi era andato a trovarlo nel suo palazzo. Dapprima lo aveva blandito con fare amichevole, sottolineando il fatto che loro due costituivano il potere nella città di Alessandria, il vescovo il potere della Chiesa e lui Oreste, il prefetto, il potere dell’Impero. Ma, via via che discutevano i problemi della città, emergevano le differenze e molto meno la possibilità di una alleanza. Con franchezza Oreste lo rimproverò per certe gravi iniziative che aveva messo allo scoperto l’intreccio degli interessi contrapposti dei due poteri: l’appropriazione dei beni

degli ebrei e di alcune sette religiose, come i beni delle chiese novaziane, le violenze contro i pagani, soprattutto ad opera dei monaci parabolani che avevano creato gravi motivi di disordini nella città. A quel punto Cirillo non ebbe più riguardo e gli si scagliò contro:

-“Oreste, tu osi asserire che i disordini in città sono colpa dei monaci, non ti accorgi che è Ipazia, la donna che tu difendi, che agisce, discute, parla tra la gente, colei che mira a toglierci il potere. E tu sei un ingenuo a proteggerla, tu che frequenti la sua scuola e mi metti in cattiva luce presso la corte di Costantinopoli. Bada a te, perché contro di me non potrai spuntarla, io sono più potente dello stesso Nestorio, patriarca di Costantinopoli”.

Non passò che qualche ora, quando nel pomeriggio, Oreste che veniva ad assistere alla mia lezione, subì un attacco da parte di un’orda di monaci sanguinari, certamente sobillati da Cirillo. Una pietra lo colpì alla testa e Oreste poté salvarsi solo grazie all’intervento del popolo, accorso in suo aiuto, che uccise l’attentatore, al quale il vescovo poi riservò un grande onore dichiarandolo persino martire.

Oreste mi riferì ogni particolare di quel colloquio avuto con il vescovo Cirillo. Si mostrò molto preoccupato per quel clima così nefasto che si era instaurato nella città. Cirillo gli si era presentato agitando tra le mani il libro del Nuovo Testamento, antiebraico, quasi come a dimostrargli che la chiesa cristiana avesse chiuso con il Vecchio Testamento, con il popolo eletto. Questa svolta della Chiesa a suo giudizio giustificava quanto gli veniva rimproverato per aver agito con fermezza contro gli ebrei. Mi disse che con quel piccolo esercito di monaci parabolani che gli obbedivano ciecamente, non aveva armi sufficienti per intervenire, perché erano considerati intoccabili come membri della Chiesa. Inoltre Cirillo si accaniva tutti i giorni a aizzare il popolo, con i suoi infuocati discorsi contro la mia presunta magia e il paganesimo, dal pulpito della sua cattedrale. Quel fanatismo di Cirillo aveva fatto crescere smisuratamente l’ansia di Oreste. Il vescovo aveva perso ogni controllo di sé e attaccava brutalmente chiunque non la pensasse come lui, persino gli stessi cristiani eterodossi, definendoli eretici, attribuendo loro stoltezza, ignoranza, oltraggio, malvagità. Assicurava il popolo con il dire che lo splendore della verità risplendeva sempre dalla sua parte.

-“Ipazia, Cirillo mi spaventa. Ti prego, lascia Alessandria; vai ad Atene, a Efeso o a Roma. Smetti di aggirarti per le vie e le piazze di Alessandria ad insegnare alla gente”.

-“Amico Oreste, ti sono riconoscente per i tuoi consigli. Ma io non posso, non ho paura. Non dimenticare che ho rinunciato ad essere donna, madre, per servire la mia libertà di pensiero, la verità, mediante la ricerca e il perenne dubbio. La mia anima è netta, ripulita di scorie umane che generano paure; dentro di me non vivono ciclopi o Lestrigoni, che minacciano la mia libertà, le mie decisioni, le mie scelte, dettate dalla ragione. Io vado avanti come prima, perché amo spezzettare il sapere e distribuirlo a ogni bocca come sacro pane, perché amo i poveri, la gente che non ha tempo per nutrire la propria anima. Io sono fatta per l’agorà. E poi perché dovrei temere i cristiani? A me piace discutere con loro. Molti di loro vengono ad ascoltare la mia parola, che dicono affascinante. Ma il mio insegnamento non mira affatto al proselitismo. Io insegno la tolleranza, non intendo dimostrare la supremazia di questa o quella setta religiosa o del paganesimo. Invito ad esaminare ogni aspetto di una ideologia perché si possa procedere ad accogliere o a rifiutare, secondo quanto detta la ragione. L’autorità non conta nulla dinanzi alla verità. Se sei un campione del dogma, non ami il dubbio. E allora non c’è spazio per la ricerca.

-“Non ti accorgi, Ipazia, che così parlando, ti condanni da te stessa; sei l’ostacolo più temuto: la tua autorità politica e culturale sta togliendo potere a Cirillo, che vuole affermare la supremazia della Chiesa.

-“Prenderò le mie precauzioni, molti discepoli sono pronti a difendermi”.

In quei giorni, ero profondamente addolorata per la notizia della morte di un discepolo, a me molto caro, Sinesio di Cirene, il quale dalla sua sede episcopale mi ha fatto pervenire tante sue lettere, che io ho letto con attenzione e ho apprezzato. Nella sua ultima lettera mi dà notizia della sua malattia: “Detto questa lettera dal letto nel quale giaccio…” E continua chiamandosi uomo fortunato perché ha vissuto a lungo al mio fianco e con me ha conosciuto il sole, il mare, il vento, ma soprattutto, la sapienza. Un dolore ha sempre accompagnato Sinesio; più volte mi ha confessato che per opportunismo, lui, nemmeno battezzato, ha accettato la carica di vescovo, che tuttavia ha esercitato con grande responsabilità e intelligenza, amministrando con giustizia i beni della chiesa. Io ho sempre rispettato la sua scelta.

Non finisco mai di raccomandare al fidato Kaled di custodire accuratamente questo papiro che, ogni volta che lo chiedo, mi porta premurosamente, nascondendolo sotto il mantello. Di notte soffro di incubi, di giorno ho visioni così angosciose che quando le racconto a Kaled, questi cerca di rassicurarmi. Ma io so che se agli dei è concesso di prevedere il futuro, a noi sapienti è dato il dono di conoscere quel che si avvicina.

2° Papiro

Cammino come sempre secondo il desiderio di Ipazia, pochi passi dietro. Ha finito di parlare al popolo e si è avviata verso la Scuola. E’ quasi buio e le strade si sono presto svuotate, quando all’improvviso, sbucando da strade secondarie, una marea di monaci urlanti si scaglia contro la mia maestra. Ipazia si dibatte furiosamente, ma nulla può contro quelle bestie che in pochi istanti la colpiscono con calci e schiaffi, le strappano le vesti, la trascinano dentro la chiesa, detta kaisarion. Riconosco Pietro il lettore che li guida, che salta e urla come un demonio. Io con il cuore spezzato dal dolore, seguo la folla e entro in chiesa. Vedo che Pietro l’ha sollevata nuda sull’altare e con un pugno tremendo la distende sul marmo dell’altare. Un nugolo di monaci assetati di sangue si precipita sul suo corpo.

Quegli occhi, quegli occhi azzurri che sprigionavano una luce misteriosa, quegli occhi strappati dal suo corpo martoriato, quegli occhi che un giorno mi permise di baciare, caddero ai piedi della folla impazzita. Con ferocia inaudita, Pietro le spaccò il petto e trasse fuori il cuore sanguinante.

Da bambino dinanzi allo spettacolo del maniscalco che ferrava i cavalli, ricordo che tremavo di paura al vedere quei lunghi terribili chiodi penetrare sotto i colpi del martello nello zoccolo dell’animale, non immaginando che quella dura unghia callosa lo proteggesse dal dolore. Ora dinanzi alle conchiglie affilate e ai cocci taglienti manovrati dai carnefici sulla carne della mia maestra, tutta la mia persona era presa da grande tremore e immensa pietà. Un dolore atroce avviluppava la mia anima, la stessa mia anima non era altro che il mio dolore, quel dolore colmo di orrore. Quegli assassini sparpagliarono le membra della mia nobile Ipazia sul marmo dell’altare, costruito per accogliere ogni mattina il corpo e il sangue del Galileo che adoravano come il figlio di Dio.

Annichilito dal dolore, appiattito in un angolo di quel luogo così profanato, pensavo come il vescovo Cirillo con quanta crudeltà reggesse le sorti della fede cristiana e del potere ecclesiastico. Quale contrasto immenso gorgogliava nella mia anima!

Dov’era la sua bocca, la sua lingua, la sua voce ardita che si alzava dentro la scuola e fuori per le strade della città, pronta a spiegare, a chiarire, a togliere dall’ombra spettri e idoli che allontanavano i cuori e le menti dalla ricerca della verità? La sua persona tutta, ora avvolta nel rustico trilon quando era tra la gente, ora vestita di una candida tunica, su cui scendevano i lunghi capelli tenuti insieme da un laccio rosso, si ergeva indomita a respingere l’ignoranza oltre le tenebre del nulla.

A quelli che si lamentavano con lei di quanto fosse arduo salire la scala del sapere e della virtù, salire a quel possesso di idee cui ogni uomo dovrebbe ardentemente aspirare, Ipazia li rassicurava, dicendo: “Se voi mi dite come sia difficile salire questa scala della conoscenza che deve portarci all’Indefinibile, alla fonte dalla quale tutto proviene, è segno che siete già sulla scala e se pure sul primo gradino, non è davvero cosa da poco. E’ già una grande conquista. Non resta che mirare al secondo, procedendo con costanza e fiducia, senza mai stancarsi”.

Ipazia aveva un profondo rispetto per tutti, anche per coloro che ascoltavano le sue parole con entusiasmo, ma poi si dimostravano piuttosto inetti, privi di volontà, di impegno. Il suo rigore morale era l’essenza della sua persona, ma lei non mostrava vanto, capiva che ciascuno, in lotta con se stesso, con la sua fragilità interiore, aveva bisogno di più tempo, aveva necessità di ricevere incoraggiamento e credito. E’ questo che la distingueva come maestra sensibile e delicata. Non aveva nulla da imporre, la sua anima era dominata dal dubbio perenne, il suo ideale era la ricerca rigorosa della verità, avendo sempre innanzi la razionalità della matematica e della geometria.

La sua mente era libera da qualsiasi tipo di dogma. La aspettavano ancora tanti mattini luminosi, tante ore alla luce di mille candele per comunicare la verità della ricerca continua, instancabile, tollerante, senza frontiere, aperta persino ai barbari, tutto vagliando, tutto liberando dalla pula, grazie al vento del rigore matematico.

In una memorabile sera che mai più scorderò, ci lesse con grazia e umiltà questi versi:

Amo la strada, il viaggio                                   del tempo immobile dell’infanzia,

e il pellegrinaggio.                                           vischioso per sidro e miele.

Lungo il cammino, col tuo                                Ora in questo inverno

s’incrocia il mio destino,                           del mio spirito che vaglia e spula

carico di eventi lo annodo                               lo scarso grano della mia vita,

e nell’otre dei venti lo chiudo.                         vado ancora alla ricerca

Da un pezzo gli dei                                          del perduto amore verso colui

se ne sono andati, tutti!                                che dell’universo regge il timone.

Son fuggiti come le ore

Sul cielo di Alessandria, quella sera si alzavano due colonne di fumo che il vento disperdeva verso il mare: bruciavano i preziosi codici salvati dalla distruzione, bruciavano i miseri resti del corpo di Ipazia, racchiusi in un sacco.

Vola libellula sotto altro cielo, in altri lidi! Innamorata della sapienza e della grecità, sei stata un’aura passeggera per Alessandria che ti generò. Immortale Ipazia vivrai nei tempi futuri, accanto a tutti i valorosi che hanno intonato il loro peana al libero pensiero.

Mia dolce Ipazia, ora che sono giunto alla fine dei miei giorni, provo a salvare il tuo manoscritto, chiudendolo in questa grotta. Quale dolore immenso per me: tutti i tuoi discepoli si sono dispersi dopo la tua morte!

                                                           *

Ernesto ora mostrava il ritaglio di un giornale più recente nel quale veniva riportato il parere di un noto storico.

“Il ritrovamento di due papiri ad opera del signor Ernesto Salini, ci consente di far luce su alcuni particolari importanti della vita della grande matematica, astronoma e filosofa di Alessandria. Non c’è alcun dubbio che Ipazia, pagana, si trovò a vivere in un clima culturale difficile, soprattutto per lo scontro con un personaggio “terribile”, quale fu il vescovo Cirillo, comunemente riconosciuto come il mandante dell’assassinio di Ipazia. Questa splendida figura, dopo più di mille anni di silenzio, fu riscoperta da Diderot che la incluse nella voce Eclettismo della famosa Enciclopedia, nonché dagli altri illuministi, come Voltaire, che ne fecero una martire laica.

La tesi che essi sostenevano evidentemente era quella di considerare Ipazia come la studiosa che in nome del libero pensiero e della ragione combatte contro la Chiesa, ritenuta responsabile della fine del mondo antico, una sorta di Galilei che venne condannato dal Santo Uffizio per le sue idee. Ma mentre per lo scienziato pisano, la Chiesa ha ammesso il suo errore e ha chiesto “perdono”, nel caso di Ipazia non c’è stato un atteggiamento simile. Anzi nemmeno un qualche imbarazzo, dal momento che, in un discorso recente ( 2007 ), il pontefice Benedetto XVI parla di Cirillo, santo e dottore della chiesa, come di un vescovo che ad Alessandria all’inizio del v secolo, seppe guidare la chiesa con somma energia.

In realtà la visione illuministica non regge alla prova dei fatti. L’impero romano e poi bizantino resisterà ancora con il suo splendore per almeno mille anni. E quando cadrà per opera dei Turchi, tale splendore continuerà in occidente con l’arrivo dei testi classici. Un nome illustre per tutti: il cardinale Bessarione, un bizantino, che donò la sua preziosa biblioteca, primo nucleo della biblioteca Marciana. Inoltre la triste vicenda dell’assassinio di Ipazia non nasce da un contrasto tra paganesimo e cristianesimo, ma da motivi complessi, quali: l’invidia da parte di Cirillo per i successi di Ipazia, il timore di perdere autorità e prestigio e quindi la tipica frustrazione del politico prepotente”.

Seguì una pacata discussione. Ma alla fine tutti  espressero il desiderio di riascoltare i versi di Ipazia.

Vincenzo Fiaschitello

Nato a Scicli nel1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola alla Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974, preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.

E’ autore di vari saggi sulla scuola, di opere di poesia e di narrativa.

Attualmente è redattore della Rivista culturale telematica “Il Pensiero Mediterraneo” (Redazione di Roma).

Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore Ordine al merito della Repubblica Italiana (1997).


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