IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Quiescenza” un libro di Antonio Nahi commentato da Carlo Stasi e Carlo Alberto Augieri

Quiescenza di Antonio Nahi

Quiescenza di Antonio Nahi

Carlo Stasi

La scrittura del leccese Antonio Nahi, per anni vigile urbano a Melendugno, si divide tra prosa e poesia sin dalla giovinezza. A soli 18 anni pubblica la prima silloge Terra madre (poesie 1973-1975) [Lecce 1976], e, più nota Quanto resta del Sud (ivi 1995, 1997, 2004, 2015), finché non scopre le bellezze, le storie e le leggende di Melendugno, paese in cui diventa vigile urbano, Comandante dei vigili e da poco in pensione. Tra le opere narrative, più volte ristampate con aggiunte ed integrazioni, segnaliamo i racconti Storie e Leggende di Melendugno e Borgagne (Calimera 1990), La Brunese ed altri racconti (storie e leggende del Salento magico e misterioso) [Lecce 1991] poi ampliata in La Brunese (storie, leggende, fiabe e racconti del Salento magico e misterioso) [Melendugno 1999], e quindi in Il libro degli altri (storie e leggende del Salento magico e misterioso) [ivi 2010], ma anche guide come Melendugno e Marine (itinerario turistico) (ivi 1996), ed altri saggi.

Nella recente antologia poetica intitolata Dopo la Genesi, Antonio raccoglie editi ed inediti scritti dal 2018 al 2022, raggruppati nelle sillogi tematiche Quaderno d’Autunno (2016) e Genesi Emotiva (2018) rispettivamente introdotte a loro volta da prefazioni di autori come Maria De Giovanni e Giancarlo Serafino che hanno dedicato pagine di grande sensibilità al lavoro creativo di Nahi. Dopo la Genesi si presenta già nel titolo come continuazione della silloge Genesi Emotiva del 2018 ed apre una nuova stagione della produzione di Nahi, pervasa da un profondo senso di disillusione con una punta di amarezza che l’avanzare degli anni porta in ognuno. Si incontrano bozzetti legati alla propria terra, vista nelle sue sfaccettature umane, naturalistiche, storiche, mitologiche e folcloristiche, ma si sentono anche gli odori ed i sapori, emozioni che risentono della lezione di Bodini anche nelle descrizioni di luoghi a lui cari (Lecce, il territorio di Melendugno, ecc.).

L’approccio è spesso nostalgico nel constatare la differenza tra il passato ed il presente soprattutto nella sezione Poesia Barocca dove i “landmark” sono palazzi, chiese, vie (sulla falsariga della bodiniana Via De Angelis), monumenti (Arco di Prato, Santa Croce, la statua del Fanfulla, ecc. Il presente volume è scandito in 7 sezioni. Nella prima sezione Quiescenza I (Reminiscenze e raccordi) il poeta raccorda poesie delle succitate raccolte precedenti, ma lo spirito è diverso, la tristezza e lo sconforto per “il tempo passato” prendono il sopravvento: Ti prende una piacevole tristezza quasi uno sconforto con tenerezza se rammenta il tempo passato [….] la magia del ricordo è solo amore. [A volte al mattino al primo albore] Tuttavia, se i profumi della natura procurano piacere («neppure importa / se si tratta di fragranza o afrore»), i cattivi odori («tra eternit, / plastiche, risulte…,»), sono la punta dell’iceberg della denuncia: Ma veleni ghermiscono frutti e foglie e dove lucciole segnavano sentieri, ristagnano fastidiose salive di lordure. [Quaderno d’autunno] e la degradazione della propria terra diventa “tormento”: «Questa è Terra d’incanto e tormento» (id.).

Tormento provocato dalla xylella che ha distrutto il futuro: Nell’ora meridiana al Sud il sole tramonta su scheletri di ulivi… perché un tarlo sgretola i tronchi rinsecchiti [Nell’ora meridiana] nel Sud dove: …i sogni all’alba sono nebbie rapprese nelle tele dei ragni [Nel Sud i sogni] i treni partono verso mete lontane e: …giungono a stazioni tutte uguali dove scendere o salire non è mai partire. [I treni del Sud] Sulla base di queste considerazioni sulle opere precedenti si possono innestare quelle sugli sviluppi della sua piú recente produzione dal titolo significativo di Quiescenza con evidente riferimento al prossimo pensionamento avvenuto poi nell’inverno del 2023. Nella sezione Quiescenza II (Abbrivi e afasie) [2011-2023] il poeta “ha esposto la sua vulnerabilità”, dichiara di non voler “fare sperimentalismi”, di non aver voglia “di sillogismi”, di temere “l’afasia” perché gli slanci (abbrivi) sono come frenati dall’afasia, dall’incapacità di esprimersi, dalla scettica sospensione del giudizio sulla natura delle cose perché la realtà è inconoscibile.

Qui il tema del tempo evolve verso il tema della morte «Nel cuore / freme stanco, sillabico, il rintocco a morto» (Mercanteggia la vecchia – fa la spola) in un vortice di mendicanti, funamboli, pagliacci, circensi e si torna alla stazione dove il cartone rubato alla vecchia è «giaciglio del vinto del frustrato» e «momento per momento s’attende / senza sapere cosa, senza sapere quando» e «riconti il trapasso della vita», ti illudi «di avere una continuazione», con “l’inquietudine” che «s’arrampica su rami di pensieri e si nutre / attraverso i sospiri del destino» e guardi disperato «i binari all’orizzonte / […] / che conduce al termine del cammino» (Il giorno del cantastorie, ballata di stazione). Sempre ne Il giorno del cantastorie (Ballata di stazione) il poeta, riprende il tema dell’emigrazione dove tra “il ronzare della folla”, tra barboni, vecchiette e baristi, attende nel “buio dell’inesistenza” e, poiché «Non importa chi arriva chi parte», si accorge: che tutto è contraddizione: parte chi arriva e arriva chi parte.

Ma in una poesia precedente (Il sogno di chi parte) il setting delle partenze si era spostato sul mare (come non pensare ai profughi albanesi e non): il sogno di chi parte agita la spuma del mare. Salpano. Ma la vita lo circonda, il mondo strapaesano con i suoi personaggi ed i suoi luoghi ritornano, dal pescatore, alla Vergine nell’ipogeo, alle barche in darsena, al camionista, il dirimpettaio, i clerici, i monaci (“belligeranti” in La cripta discosta dal convento), il geco, la tarantata (che “ballava / in preda ad un rimorso non suo”) [Sul fondo del bicchiere s’affaccia], fino alla pandemia, “il perdurare di un conflitto armato” (Sbandati e diseredati dalle) per arrivare alle nuove forme di comunicazione, quello virtuale. Nella sezione successiva, Quiescenza III (Terminus post quem) (2016-2023), in viaggio verso il niente «nell’attesa / che cali il sipario» (Partire dal basso e lungo la pergola), prossimo alla pensione, Nahi tira le fila del suo percorso umano e poetico, ammette che: Soltanto un po’ d’ironia è rimasta: si torna a fare i giocolieri di parole ma la corda della lira sembra guasta [Soltanto un po’ d’ironia è rimasta)] Si diverte con (auto)ironia a dichiarare di rinunciare alla rima in una poesia (Non credo sia necessario imbrigliarsi) che di fatto è in rima, ma le rime sono spostate all’interno del verso successivo con la tecnica dell’enjambement: Non credo sia necessario imbrigliarsi tra le rime.

Accade, a volte, che giungano per prime. … Altro modo ora non conosco: morta la musa, bruciato il bosco. Sono in quiescenza. Se con l’età è svanita l’ispirazione (morta la musa), d’altra parte è andata perduta la fonte stessa dell’ispirazione (bruciato il bosco), ecco quindi il poeta che si ritira (sono in quiescenza) dall’agone poetico anche perché, conclude: Odi forse più “augelli far festa?” Brodo ristretto: questa è la minestra! La poesia è finita perché gli uccelli non fanno piú festa e la minestra oggi è solo un “brodo ristretto”. Non resta che il silenzio, l’amico di sempre: «Amico di sempre il silenzio /… / del tempo conosce gli affanni» (Amico di sempre il silenzio).

Ma il silenzio non basta, la voce del poeta, recuperata la rima, riprende a “misurare ripidi scalini”, a meditare sul “vissuto”, sulla propria eredità umana ed artistica, su ciò che si è lasciato ai posteri con un forte senso di disillusione, quando ti danno “il ben servito” e ti senti “destituito”, e rivendicando “la coerenza” (“la coerenza l’avrai solo da morto” scrive più avanti in La tua è solo presa di posizione) esprime il desiderio di allontanarsi “senza scalpitare”: Che senso ha misurare il passato? A nessuno importa se qualcosa è rimasto di quanto hai seminato! Ed ecco i “neologismi”: “dalla webcam al tablet” (Nell’ambito gergale dei neologismi), app, mail, siti, chiocciole, domini: La navigazione lascia a desiderare. Si procede con estrema lentezza sul web. Dovremo accontentarci a lungo di questa connessione. Sono in molti ormai a far parte del club virtuale. Stiamo intasando la rete.

Qui si è soci senz’arte. Tutti tuttologi sotto ogni aspetto. Attendo l’app a misura d’intelletto. [La navigazione lascia a desiderare] La sezione termina con un ultimo pensiero: Ora il dado è tratto e d’ombre si avvolge la sera per sedurmi: morbide, tenui, ultime di morte. […] Disillusioni nasconde nell’urna del tempo andato. […] [Ora che il dado è tratto e d’ombre] In Quiescenza IV (Spazio virtuale e dell’ingratitudine) il poeta si concede delle libertà sia nel linguaggio che nei temi. Il linguaggio torna ad essere ricercato, in direzione di un classicismo provocatoriamente demodé con l’uso di vocaboli arcaici come “giuoco”, “scerbato”, “murmure”, “tedio”, “isocrone”, “singulti”, “nocumento”, ecc. Per quanto riguarda i temi invece, oltre ai già citati, si avverte sempre più ricorrente, anzi insistente, battere «la lingua dove il dente duole», con invettive a volte furenti, il poeta si erge a fustigatore dei vizi, sin dai titoli: Vorrei dirtelo in silenzio ma non posso, La tua è solo presa di posizione, Perfino la tua animosità è retroattiva, Il tuo sordido soliloquio, ecc. Eccone alcuni esempi: Anche da calpestato subirai la mia presenta. Il fiore pestato ancor più asperge la sua essenza [Anche da calpestato] oppure Fai malanimo e rimorso, fai catrame.

Tu, al soldo del migliore offerente untore di dissenso tra la gente. [L’inverosimile delle tue ubbie] ed anche: Enfatizzi il momento pur di credere di essere qualcuno. […]. Tu che raggiri te stesso, disconosci il saluto, ti nascondi invano, dietro […] [Enfatizzi il momento pur di credere di essere qualcuno. […]. Tu che raggiri te stesso, disconosci il saluto, ti nascondi invano, dietro […] [Enfatizzi il momento pur di] La quinta fase, Quiescenza V (Fomiti lunari e aforismi) [2022-2023], è una sezione che si caratterizza per l’uso dell’aforisma: L’aforisma ha poche saccenti parole si forma con l’esperienza matura con la quiescenza L’impossibilità di ricambiare veste i panni dell’ingratitudine La brevità degli aforismi rende più efficaci le stoccate, per esempio contro l’ingratitudine (che «è tale e tanta / ch’è superfluo porgere l’altra guancia».), contro chi offende («Il nocciolo della questione?: è chi colpisce a perdere il pungiglione»), e via così con simili salaci frecciate («Pure se nasci agnello cresci / pecora e muori montone…»), come a volersi togliere i sassolini delle scarpe affinché, con chiari riferimenti, gli interessati (“chi ha orecchie intenda”) si riconoscano. Anche se «ogni epoca ha la sua fregatura» il poeta si rende conto che: Siamo tutti utili a qualcuno indispensabili a nessuno e se mai lo siamo stati presto saremo dimenticati Alla consapevolezza dell’oblio si aggiunge quella della propria “serena condizione”: m’allontanerò senza scalpitare … Non ho paura di lasciarmi andare. Agosto 2023 – Carlo Stasi

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Carlo Alberto Augieri

Perché riconoscersi come chi resta “in un angolo buio dell’anima” ?: sulla figurazione del disagio nella poesia di A. Nahi Mi piace molto cercare il germe generatore di ogni raccolta poetica, vederne la rete configurativa diffusa nel dovunque del testo, nelle parole trasformate in immagini, nelle associazioni verbali correlate entro i singoli testi distribuiti nell’insieme macrotestuale che li compone, nella catena semantica contagiata dal seme che risente dell’espansione della matrice diffusa nel modo in cui le parole significano in modo obliquo, convertite nella significanza condensata pertinente alle sfumature di senso che connotano i confini delle parole stesse, sfumandoli nel voler dire altro secondo la gravitazione risentita del nucleo che ritocca, trasforma e modula entro l’influenza riferita.

Ebbene, matrice configurativa delle poesie qui raccolte di Antonio Nahi, scritte in più di un decennio dal 2011 al 2023, è la ricerca “ipogea” del tempo, in cui ritrovare non il ricordo, ma la memoria, ossia l’ethos memoriale, che costituisce il vissuto antropologico della cultura appaesante del nostro ieri, reso oggi ormai quiescente relittario di “cantine muffite”, “chiese abbandonate” e “case ferite”, ormai ridotte a «malinconiche cadenze grecaniche», entro cui il cercare non è trovare l’entità di una rimanenza, dove ritrovarsi come soggetto orfano di un’intermediazione possibile tra presente e passato, spazio del presente come eco-sostenuto da un passato abitato nel riconoscimento e però ritrovato nella dispersa assenza di un misconoscimento.

La memoria, secondo la sensibilità poetica di Nahi, non è solo frantumata, oltre che frammentata, ma misconosciuta, ossia ridotta in quiescenza, nelle stesse aree geo-antropologiche in cui essa stessa ha costituito un presente di vissuto con radici continuative dal remoto secolare: il nostro presente vivente costituisce come uno choc di sconoscenza, di cui allegorie personografiche sono il cantastorie ed il rigattiere, figure rappresentative del raccoglimento del tempo perché non passi. Il primo è rappresentato come «un’ombra priva del suo corpo / abbandonato da ogni sensazione»: un’ombra disincarnata, s-percepente, costretta a vivere anonima “dietro un muro di stazione”: “nel buio dell’inesistenza” il cantastorie è soggetto chiuso in “te stesso senza appartenenza”, «padrone solo della tua depressione, / ad un passo dal salire il predellino / che conduce al termine del cammino».

Il cantastorie è la figura emblematica della memoria che si trasmette, della tradizione che diventa storia continuamente ri-presentificata tramite il canto narrativo ripetuto all’uditorio-comunità: il canto è forma di piacere testuale, anch’essa artificio memoriale, in quanto facile ad essere assorbita interiormente da chi ascolta e serbata con piacere affabulante e musicale nella memoria vivente dell’ascolto. Il cantastorie è il cantore orale che con la sua voce memoriale continua la voce dei morti, in realtà mai morti del tutto, perché l’oralità è enunciazione vivente in prestito che passa da cantore a cantore lungo l’alternarsi delle generazioni.

È nella voce memoriale, che si incarna da cantore a cantore, che la storia rimane parlante, dicente, incarnandosi nella pragmatica comunicativa della fruizione, in realtà assorbimento performativo di ciò che si ascolta e che modella l’invarianza cosciente di contenuti che permangono. Ebbene, il cantastorie-ombra di Nahi, ombra del senza appartenenza, allegorizza ormai l’inesistenza, la privazione di un sapere distintivo, tornando tutto “a mulinare nel vento”: a lui è equivalente il rigattiere, altro personaggio emblematico di un’azione in sé continuatrice di un passato di oggetti vissuti, partecipi di un mondo domestico già abitato che viene riproposto secondo la logica del ri-uso e della riabilitazione vivente. Invece, il rigattiere conosciuto da Nahi è un personaggio senza storia, che opera in un “reliquiario” sfigurato, un non dove di «storpi equilibristi e decrepiti mercenari», in cui nulla di ancora partecipato può apparire, nessuna sorpresa, neppure una riformulazione di figure capaci di offrire margini di possibilità a un immaginario abitabile in un recuperato mondo possibile.

È interessante notare come da questa matrice di accorgimento di un’assenza, di un “tutto [che] torna a mulinare nel vento”, derivi, come per equivalenza espansiva di motivi testuali, anche l’identità disidentitaria dell’io poetante presente in molti testi quale soggetto di autodichiarazione cosciente sul piano espressivo della rappresentazione. Due poesie, in particolare, sono significative nel documentare l’entità poeticamente cosciente dell’effetto drammatico del non riconoscimento entro il paradigma codificante della memoria antropologica, ormai perduta: Sono stato sempre fuori dal mio e Resto in un angolo buio dell’anima. Nella prima composizione si testimonia uno stato esistenziale d’incoerenza, per il fatto di sentirsi un io a-cronotopico riconosciutosi come “

Due poesie, in particolare, sono significative nel documentare l’entità poeticamente cosciente dell’effetto drammatico del non riconoscimento entro il paradigma codificante della memoria antropologica, ormai perduta: Sono stato sempre fuori dal mio e Resto in un angolo buio dell’anima. Nella prima composizione si testimonia uno stato esistenziale d’incoerenza, per il fatto di sentirsi un io a-cronotopico riconosciutosi come “sempre fuori dal mio tempo”: si tratta, ovviamente, di un tempo radicativo, di un presente vivente non appiattito nella sola attualità, equivalente al tempo della moda e delle circostanze, bensì del presente compositivo, inerente ad un io memoriale da dove si progetta un futuro di desiderio, di proiezione prospettica verso cui tendere, verso dove proiettarsi, pur dal riconoscimento della tradizione. Senza riconoscimento di sé come altro, appartenuto ad un tempo continuativo di vissuti con-vissuti con gli altri uniti in un codice comune d’esistenza, ci si sente solitari d’estraneità rimasti «in un angolo buio dell’anima / vinto dall’ansia […]»: fuori di sé ci si può aggirare solo «tra muri freddi che inchiodano il cuore», soggetto distante dalla comunicazione comune, anche perché «il tedio che stringe non lo veda nessuno».

ll tedio dentro di sé non visto, anche perché forse neppure riconosciuto oppure neppure considerato se non con indifferenza, dal momento che riconoscere, riconoscersi ed essere riconosciuto è l’effetto di una codificazione interpretativa condivisa e partecipe entro lo stilema di un’umanità comune accomunata dalla medesimezza memoriale della condivisione, causa una menomazione della stessa azione del vedere, che può non interessare lo stesso io-soggetto coinvolto nella rappresentazione poetica.

L’ ‘io’-poeta è colui che guarda non vedendo nell’emissione non mostrativa del saper guardare: si tratta di uno sguardo solo sensitivo senza però la trasformazione dell’ ‘in sé’ del poter vedere, apparendo il veduto un oggetto “nudo” di ogni epifania, dunque solo apparenza non mostrativa, perché anche vedere nientemeno “l’alba” significa guardarla “nuda d’ogni cognizione”. L’alba vista come effetto non riflesso, essendo appassita la luminosità sorgiva dell’intravedersi entro la trasparenza temporale del riconoscimento: tutto sembra vivere sulla terra come luce che non aggiorna, pertanto, che non vivifica il nuovo da scoprire come ritrovamento, provenendo come da «stelle appassite / semmai hanno saputo di essere esistite». Carlo Alberto Augieri

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