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“Aftersun”, un film sulla percezione del ricordo e sull’essenza della memoria di mattia Nuzzaci

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Aftersun locandina film

Aftersun film

È raro imbattersi in esordi cinematografici così maturi come quello di “Aftersun” (2022), della regista scozzese Charlotte Wells, presentato alla settimana internazionale della critica al Festival di Cannes dell’ultimo anno e ora disponibile sulla piattaforma MUBI. Sarebbe, però, sin troppo facile banalizzarne la trama, con spunti autobiografici, nella vacanza di un padre trentenne e della sua figlia undicenne e dei loro tanti piccoli momenti di vita quotidiana nel resort turco, perché “Aftersun” ha il fascino del dettaglio insito in ogni passaggio apparentemente ovvio, mai prestato a quegli slanci autoriali che spesso finiscono per annullare l’intera messa in scena, specialmente se, come in questo caso, l’approccio è di tipo minimalista.

Il merito è di un serrato lavoro di montaggio che, tuttavia, non rincorre il ritmo della narrazione e di una regia raffinata, giocata molto sui primi piani a cui va aggiunta una fotografia satura e curata da Gregory Oke che ne delineano una certa eleganza formale. E d’altronde anche la scelta ormai inusuale di girare in pellicola va a compattarsi con ciò che quasi di documentaristico avviene sullo schermo e con l’epoca di fine anni Novanta a cui si fa riferimento e che ne rappresenta poi il vero snodo concettuale.

Perché in “Aftersun” c’è un’ombra di filosofia che soffia sulle immagini destinate ad anestetizzare il dolore a cui la Wells contrappone la tecnica del fuoricampo, spesso smacchiato del sonoro, come smarrimento dell’istante, di natura esistenziale; ma è un “eterno ritorno” nietzschiano che il protagonista, interpretato dal bravo Paul Mescal già fattosi notare nella serie tv Normal People, vive nell’irrequietezza del tempo, con l’ansia di ciò che già può esser passato e la necessità di farsi uomo pur essendo ancora un ragazzo. In tal senso il film è un duplice romanzo di formazione che lavora sulla sensibilità del ricordo e sull’essenza della memoria, facendo della condivisione un percorso di crescita, senza necessariamente abbandonare la coscienza/conoscenza di sé. Un discorso che esula dal “semplice” rapporto padre-figlia e da dinamiche strettamente famigliari, sotto la lente sognante dei rispettivi sviluppi generazionali.

In “Aftersun” il bene si stratifica nella semplicità del gesto, che sia un tuffo in acqua, una partita a scacchi o un esercizio ginnico, evocando il sentimento che spesso si racchiude in un abbraccio.

Uno stile cinematografico che ricorda il primo Wenders di “Alice nelle città” del 1974, tra l’altro nome della sezione in cui il film è stato in concorso al Festival del Cinema di Roma, che per quanto inteso più come road movie, si interessa della stessa ricerca d’identità. In entrambi i casi, macchina fotografica e videocamera sono strumenti che colgono la purezza della nostalgia, l’incombenza di vivere sotto lo stesso cielo pur non essendo più vicini e che induce ad una riflessione su ciò che può essere cinicamente reale anche quando l’adolescenza dovrebbe declinarsi come immaginazione.

Chissà se questo paradosso sia nella mente di Sophie, interpretata dall’esordiente Frankie Corio, un limite a ciò che è lecito ancora sognare o un rifugio sicuro dalla tristezza di non aver fatto abbastanza; ad “Aftersun” non sembra interessare ed è forse giusto così, perché lo spettatore spesso necessita di sole domande per recepire la potenza del cinema e per trovare, di conseguenza, la giusta misura al senso del tempo.

Nel frattempo ci si può ballare su, tanto tra Under Pressure e Tender come colonne sonore, la Wells oltre che ad un piccolo grande talento, pare avere pure buoni gusti musicali.

Mattia Nuzzaci

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