IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Scavo Sito archeologico

Scavo Sito archeologico

Di Paul Arthur.

E’ diventato à la mode in Italia parlare di archeologia globale, nel senso di un’archeologia che sia omnicomprensiva, soprattutto nei metodi, ma anche negli ambiti di ricerca e nei risultati.

Il concetto è stato diffuso da alcuni lavori in proposito scritti dallo studioso Tiziano Mannoni1, laureato in scienze naturali, ma archeologo nell’anima che, come pochi suoi contemporanei, è stato capace di mettere in pratica la ricerca globale. Considero l’amico Gian Pietro Brogiolo, un po’ scherzosamente, come un ‘archeologo globale’; è uno studioso con grande curiosità, che ha portato alla disciplina in Italia la sua visione complessiva di come fare l’archeologia, di come trarre il meglio dalle ricerche, di come diffondere i risultati in tempo reale ed a diverse categorie di fruitori (fig. 1). Dal castello alla capanna, dal paesaggio all’isotopo, ha saputo apprezzare e trasmettere le informazioni tratte da una ricerca archeologica strutturata e minuziosa. La sua opera di divulgazione spazia dai livelli più alti della ricerca accademica al grande pubblico, un pubblico sempre curioso di quello che l’Italia ancora nasconde del suo passato. Perciò mi fa particolare piacere dedicare a lui queste mie riflessioni sulla divulgazione pubblica delle nostre ricerche.

La diffusione delle conoscenze scientifiche (considero volutamente l’archeologia come una scienza, invece che una disciplina marcatamente umanistica) è uno dei compiti più ardui del nostro mestiere che, fino a pochi anni fa, veniva eluso dai più, a favore della divulgazione in sedi accademiche, a volte con audience o distribuzioni di pubblicazioni assai limitati. Se, nell’ultimo quarto di secolo, da un lato, l’internet ha contribuito enormemente ad una maggiore diffusione di dati ed idee (ma, purtroppo, spesso senza alcuna forma di controllo della veridicità o serietà del contenuto), dall’altro le attuali carenze economiche e scelte statali stanno riducendo gli ac­quisti dalle biblioteche, anche quelle specializzate, limitando sempre di più la divulgazione di lavori accademicamente validi. Inoltre, maggiori restrizioni giuridiche hanno effettivamente al­lontanato il pubblico da un diretto coinvolgimento nelle operazioni archeologiche2. Nonostante tutto ciò, con il diffondersi del credo della ‘public archaeology, in particolare dagli anni ’90 del

1 Cito uno per tutti: T. MANNONI, Archeologia globale e archeologia postmedievale, in Archeologia Postmedievale 1, 1997, p. 21-25.

2 G. P. BROGIOLO, Archeologia pubblica in Italia: quale futuro?, in PCA – Post-Classical Archaeologies 2, 2012, p. 269-278.

Uomo parla su sito archeologico e studenti ascoltano
Fig. 1: Gian Pietro Brogiolo ed altri membri della SAMI durante il VII Congresso Nazionale a Lecce (2015), mentre l’autore illustra gli scavi presso il castello della citt_ (foto Rino D ’Andria).

secolo scorso in poi, sono relativamente pochi i professionisti o le istituzioni in Italia che non cercano, in un modo o nell’altro, di aprire il dialogo al grande pubblico3.

Prima di tutto il lavoro dell’archeologo è l’educazione del prossimo, motivo per cui trovo piut­tosto curiosa l’attuale divisione, appena voluta e realizzata dal MIBACT, delle soprintendenze dai musei territoriali, che sono uno dei veicoli più importanti per l’educazione scientifica e cul­turale. Per funzionare al meglio, i musei territoriali devono essere costantemente informati delle novità sui dati archeologici che giungono dal sottosuolo, sui metodi impiegati e sulle teorie avan­zate, ovvero sull’insieme delle attività delle soprintendenze, come anche sulle ricerche universi­tarie, in un’ottica di rinnovamento e di riforma delle conoscenze per il pubblico, nonché di scambio di idee e dibattito. Perciò ritengo importante anche la diffusione di piccoli musei terri­toriali, magari comunali, capaci di comunicare realtà locali e non alla cittadinanza. Potrebbero anche ospitare esposizioni temporanee di materiali conservati nei depositi delle soprintendenze e dei grandi musei, altrimenti non disponibili al pubblico. Già oltre cent’anni fa il grande critico d’arte francese Roger Marx (1897), convinto della funzione educativa dei musei, si lamentava della loro collocazione, spesso lontana da dove abitavano i lavoratori, mentre lodava quelli con apertura serale e che promuovevano corsi serali per la cittadinanza.

3 Il primo numero della rivista Public Archaeology (N. ASCHERSON, Editorial, in Public Archaeology 1, 2000, p. 1-4, che definisce il termine) è apparso nel gennaio del 2000, risultato di una esigenza evasa da molto tempo in Gran Bretagna, che da sempre ha beneficiato enormemente del coinvolgimento del grande pubblico nell’ar­cheologia. Basti vedere il numero di società archeologiche nel paese i cui membri sono, per la maggior parte, non professionisti. Per esempio, la Sussex Archaeological Society, la prima in Inghilterra, fu fondata nel 1846, ed è una società finanziata dai propri proventi, senza scopo di lucro e registrata come ente caritatevole. Sul­l’archeologia pubblica in Italia, più specificamente indirizzato al medioevo, cfr. G. VANNINI, C. BONACCHI, M. NUCCIOTTI, Archeologia medievale e Archeologia Pubblica, in S. Gelichi (ed.), Quarant’anni di Archeologia Medievale, Firenze, 2014, p. 183-196.

L’educazione (e perché no, anche il diletto) è la principale giustificazione del lavoro dell’ar­cheologo, sia che esso appartenga al servizio statale sia di ambito universitario oppure anche freelance. Paradossalmente, ancora oggi molte istituzioni sembrano disposte ad investire di più per la ricerca, comunque mal finanziata, che per la pubblicazione nelle sue varie forme. Inoltre, le ditte private (di solito nel campo edilizio), obbligate a pagare per lo svolgimento di lavori ar­cheologici, ora per legge, difficilmente prendono in considerazione la possibilità di finanziare attività di ricerca, di pubblicazione e di divulgazione. Questo è anche difetto delle leggi vigenti che non obbligano alla previsione di un budget specifico, anche se la pubblicazione sarebbe do­verosa pure dal punto di vista della trasparenza dell’attività pubblica. Intanto stiamo soffocando sotto una mole di dati e di oggetti senza avere la possibilità di impiegarli per il beneficio della società, e più sarà l’accumulo, più sarà difficile lo ‘smaltimento’4. Come vari studiosi hanno fatto notare, ci circondiamo di «centinaia di siti archeologici e di depositi improduttivi sia dal punto di vista economico che culturale (l’accesso è pressoché impossibile)» 5.

Inoltre, sia il pubblico, sia vari esponenti statali sono ancora condizionati da una visione del­l’archeologia orientata all’oggetto, piuttosto che al contesto e alla Storia. Per quanto un oggetto possa essere di per sé attraente e anche informativo, una sostanziale parte del suo valore viene perso se non è ben collocato nello spazio e nel tempo d’origine e di vita. Sebbene possiamo la­mentare in Gran Bretagna, le parole di Martin Carver mi sembrano ancora più pertinenti alla realtà dei paesi mediterranei, «a public debate must redefine archaeological value, replacing the value of nuggets torn from their context with the value of strangeness, diversity and diffe­rence» 6.

L’educazione e l’acculturazione stanno alla base dello sviluppo sociale di un paese7. Quando queste vengono a mancare non ci si può aspettare né una diffusa capacità critica della popola­zione, fondamentale per una qualsiasi democrazia, né un senso di appartenenza, cosa che è as­solutamente fondamentale per una coesione sociale. La responsabilità dell’archeologo in questo processo è enorme, ma al giorno di oggi è frequentemente sottovalutato o trascurato dal pubblico e, a volte, anche dai propri addetti ai lavori.

Troppo spesso non ci rendiamo conto di quanti dati, sia materiali (siti, evidenze territoriali ed ambientali), sia nozionali (lingua, tradizioni e costumi), perdiamo quotidianamente perché non abbiamo coinvolto o sensibilizzato la maggior parte del pubblico nelle nostre ricerche. La MARS survey dell’Inghilterra, condotta attraverso una serie di campioni territoriali nel lontano 19958, è un utile paragone e lascia intuire la severità della perdita del patrimonio in Italia tramite la distruzione antropica (edilizia – compresa l’istallazione di parchi fotovoltaici e di pale eoliche, agricoltura, attività clandestina) e, in minor misura, quella naturale (erosione), cosa che è assai preoccupante per l’archeologia nel futuro e per i dati che deperiscono. Allora il MARS survey

4 Il progetto dei Fasti online (http://www.fastionline.org/index.php), adottata dal Ministero per i Beni Cul­turali, era una prima ed efficace risposta alla mancanza di divulgazione dei dati scientifici proveniente dall’ar­cheologia. Dopo un periodo di crescente successo, in cui i concessionari di ricerche archeologiche venivano obbligati a pubblicare rapporti delle loro ricerche pena il non rinnovo della concessione (purtroppo condizione non applicata ai lavori condotti dalle o per le Soprintendenze), apprendiamo che il MIBACT non contribuirà più ai finanziamenti necessari per la loro pubblicazione.

5 P. GRAZIANI, Die Kulturinfarkt, in Territori della Cultura 8, 2012, p.10-11,

6 M. CARVER, Digging for ideas, in Antiquity 63, 1989, n. 241, p. 673.

7 I. MORRIS, The Measure of Civilisation. How Social Development Decides the Fate of Nations, London, 2013.

8 T. DARVILL, A. FULTON, The Monuments at Risk Survey of England 1995, Main Report, Bournemouth-London, 1998.

aveva dimostrato che il 2% (4.500) di tutti i monumenti storici era in grave pericolo di distru­zione o di grave danneggiamento entro uno spazio di tempo che andava dai tre ai cinque anni. Nei Paesi Bassi, invece, è stato calcolato che il 30% dei siti archeologici che esisteva nel 1950 è stato distrutto prima del 19909. Ritengo che in vari paesi mediterranei il problema sia esasperato da una parte da una eccessiva statalizzazione del patrimonio culturale, senza adeguati mezzi e supporti tecnici, dall’altra da una tradizionale identificazione della cultura, compresa l’arte, come patrimonio delle élites10. Entrambe le condizioni hanno effettivamente tenuto lontano la cittadinanza da un senso di appartenenza del proprio patrimonio culturale, ostacolando così anche una sua cura e valorizzazione11. Mi sembra chiaro che il perdurare di una tale condizione favorisca la creazione di patrimoni o storie reinventate ad uso e consumo dei poteri statali ed economici secondo la loro agenda politica, come si è già verificato con risultati disastrosi nel passato recente12.

A differenza di paesi come l’Inghilterra, che ha subito gli enormi sconvolgimenti economici e sociali dalla rivoluzione industriale, e dalla Francia, con le sue rivoluzioni politiche e sociali, l’Italia non ha subito un effettivo sdoganamento dell’arte per il popolo durante la seconda metà dell’Ottocento. In Inghilterra in particolare, persone come John Ruskin (1819-1900) e William Morris (1834-1896) avevano predicato un’arte dal popolo per il popolo, concetto concretizzatosi poi nel movimento Arts and Craftshttps://it.wikipedia.org/wiki/Arts_and_Crafts e nei primi grandi musei per la cittadinanza, come il Victoria and Albert Museum, fondato come Museo delle Manifatture nel 185213, già dal XVI secolo ve­nivano prodotte le English County Histories che, nel 1899, divennero la Victoria County History di cui si scrisse, intorno al 1904, che «there is no Englishman to whom [the VCH] does not in some one or other of its features make a direct appeal» 14.

Perciò, visti anche i sostanziali mutamenti, sempre più velocemente in atto, nelle composizioni sociali e demografiche in Europa, il nostro lavoro in Italia deve sforzarsi ancora di più per comprendere il compito di avvicinare il pubblico sia al proprio passato, sia al passato altrui (in effetti inscindibili in una visione globale della storia), in uno spirito di confronto e nel rispetto per le diversità che hanno contribuito a creare il mondo in cui ora viviamo. La complicità del grande pubblico con gli obiettivi e con le attività dell’archeologia risulta, inoltre, sempre più fondamentale, non soltanto a livello locale, ma anche come forza d’opinione presso i legislatori al governo che, troppo spesso, sembrano individuare nell’educazione e nella cultura facili bersagli durante le manovre fiscali.

Sia a livello locale, sia a livello nazionale, l’archeologia aiuta non solo nel definire il sense of place e a comprendere la storia che lo ha realizzato, ma anche nel creare consapevolezza locale e nazionale delle caratteristiche del luogo (dal piccolo centro o territorio, fino a quell’unità che è ormai l’Italia) e l’orgoglio della sua esistenza in quanto simbolo di comunità e di nazionalità come, per altro, anche di cambiamento. Non a caso, i governi totalitari hanno sempre puntato sulla creazione di identità nazionali e sentimenti nazionalistici, anche sfruttando l’archeologia in modo storpiato, quando ritenuto opportuno.

9 W. J. H. WILLEMS, H. KARS, D. P. HALLEWAS (eds.), Archaeological Heritage Management in the Netherlands, Fifty years state service for archaeological investigations, Assen, 1997, p. 12.

10 G. VOLPE, Patrimonio al futuro. Un manifesto per i beni culturali e il paesaggio, Milano, 2015, p. 78-81.

11 Il carattere elitario dell’archeologia viene specificamente richiamato come problema principale dello svolgi­mento della disciplina in Italia nei Lineamenti ideologici del Gruppo Archeologico Romano che, insieme agli altri Gruppi Archeologici d’Italia, raccoglie liberi cittadini appassionati e attivi nell’archeologia sin dal 1964.

12 G. P. BROGIOLO, op. cit. (n. 2), p. 274-275.

13 K. LIVINGSTONE, L. PARRY (eds.), International Arts and Crafts, London, 2005.

14 C. LEWIS, “The Victoria County History”. Particular Places: An Introduction to English Local History, London, 1989.

Persone in area museale
Fig. 2: Il plastico ricostruttivo della Terra di Muro nel XV
secolo all’interno del Museo di Borgo Terra (foto Rino
D’Andria).

Questo credere nella fondamentale necessità della storia e dell’archeologia come fonti di co­noscenza pubblica è stata una parte della filosofia che mi ha guidato durante la carriera. Ciò mi ha portato a compiere varie opere di divulgazione negli anni che vanno dagli scavi e dai laboratori archeologici ‘aperti’, traendo spunto dalle manifestazioni dei monumenti aperti, ormai comuni in varie città d’Italia, fino alla progettazione di musei diffusi come quello di Borgo Terra a Muro Leccese o il Museo del Bosco a Supershttp://pugliamusei.it/item/mubo-museo-del-bosco-supersano/ano. L’intento, in entrambi questi due casi, era non solo di presentare i risultati delle ricerche archeologiche, incoraggiando la riscoperta del proprio passato, ma di aprire un dialogo con le comunità locali, sperando di stimolare un senso di appartenenza ed orgoglio per il proprio territorio.

Il Museo di Borgo Terra, voluto e promosso anche dall’Arch. Salvatore Negro, Sindaco di Muro Leccese dal 1995 al 2004, è stato realizzato all’interno del Palazzo del Principe della famiglia feudataria Protonobillissimo, identificato come piccolo castello quattrocentesco del borgo pianificato, durante gli scavi archeologici condotti a partire dal 199915. è stato inaugurato il 7 maggio del 2004 e, da allora, è stato tenuto aperto pressoché di continuo da parte del Comune di Muro Leccese e da giovani appassionati dei servizi civili. Il cuore espositivo del museo è stato posto all’interno delle vecchie stalle del castello, riferibili a quando questo divenne palazzo, con le mangiatoie adattate a vetrine espositive per non alterare la volumetria dell’ambiente. Un grande plastico ricostruttivo dell’insediamento, come pensiamo si potesse presentare intorno al 1500, è stato collocato nel centro della sala, come cardine dell’esposizione (fig. 2). Questa rappresentazione di un’epoca passata riscuote costantemente un grande successo da parte dei visitatori di tutte le età e di tutte le estrazioni. Un altro oggetto di particolare impatto è un elmo ottomano in ferro databile intorno al 1500 e realizzato presso la fonderia dei sultani a Top Kapi, Istanbul, nella dismessa chiesa di S. Irene. Con piena approvazione del consiglio comunale, è stato acquistato per il museo da una galleria di antiquariato in Canada in funzione della sua forte carica simbolica, richiamando in sé l’espansione turca verso Occidente che ha avuto un momento di specifica rilevanza per il Salento con il sacco e la presa di Otranto nel 1480, cui ha fatto seguito, secondo alcuni indizi, anche una scorreria a Muro Leccese, presso il monastero dei Domenicani.

Tuttavia, l’idea del museo, o piuttosto del racconto storico, ha voluto interessare non solo l’insieme dell’attuale complesso del castello/palazzo, ma anche l’intero centro storico quattro­centesco, il cosiddetto Borgo Terra, di Muro Leccese, comprese le odierne strade, le case e il vec­chio e monumentale frantoio oleario, che reca una scena graffita che potrebbe rappresentare la battaglia di Lepanto del 1571 e la sconfitta della flotta ottomana16. In seguito ai risultati degli scavi condotti attraverso il centro storico in occasione del POR Puglia 2000/2006, si è potuto procedere alla didascalizzazione anche degli spazi esterni al castello, in pieno centro abitato17

15 P. ARTHUR, B. BRUNO, Alla scoperta di una Terra Medievale, Muro Leccese, Galatina (Le), 2007.

16 Ibidem; R. HODGES, A postcard from … The Salento, in Current World Archaeology 37, 2009, p. 58-61; A. PONS CORTES, Los grafitos de Messina en Muro Leccese (Puglia). Inventario de sus naves e hipótesis histórica, in Mayurqa 33, 2009-2010, p. 395-412.

17 Gli scavi sono stati condotti quotidianamente sul campo dalla Dott.ssa Brunella Bruno e da un gruppo di allievi dell’Università del Salento, in collaborazione, nel luglio del 2006, con l’amico Prof. Florin Curta ed una squadra di undici studenti provenienti dall’Università della Florida.

persone ascoltano la descrizione  di un pannello didascalico nel centro storico di Muro Leccese
Fig. 3: Uno dei pannelli didascalici
sistemati lungo le strade del centro storico
di Muro Leccese (foto Rino D’Andria).

(fig. 3). Questo ha comportato la redazione di una serie di 10 piccoli pannelli, distribuiti in punti chiave del centro, per segnalare alcuni luoghi di rilevanza storica ed archeologica. Il pro­getto della Regione, che ha fornito una grande abbondanza di dati archeologici, era innovativo nel contesto regionale pugliese, non tanto per il rinnovo e l’adeguamento del basolato stradale e dei sottoservizi, ma per la determinazione ad inserire preventivamente l’indagine archeologica quale requisito imprescindibile per qualunque azione di scavo nel sottosuolo del centro storico di Muro Leccese.

Mura di villaggio con portone ad arco. alberi di pino e cartello descrittivo
Fig. 4: La chiesa di S. Maria di Miggiano (Muro Leccese), una
testimonianza rimasta in piedi del villaggio medievale
abbandonato (foto archivio LAM).

A questa esperienza si è potuto aggiungere lo scavo e la valorizzazione della chiesa di S. Maria di Miggiano, ora situata in aperta campagna nell’agro di Muro Leccese, ma in età medievale parte del villaggio ormai abbandonato di Miggiano18 (fig. 4). L’atrio della chiesa si è prestato come spazio ideale di un’esposizione permanente che racconta la storia della chiesa nel contesto storico ed archeologico del villaggio abbandonato.

Il successo di tutta l’operazione a Muro Leccese può essere valutato in vari modi. Il registro di presenze al museo ha documentato non solo la provenienza internazionale dei fruitori, dal­l’Australia all’America, nonché una assidua frequentazione (specialmente nei primi anni quando avevamo realizzato una campagna pubblicitaria), ma anche, tramite i loro commenti scritti, un pressoché unanime gradimento dell’esposizione. Dal gennaio 2007 al dicembre 2008 il museo ha rilevato più di 14.500 visitatori, superando largamente l’allora popolazione del Comune co­stituita di poco più di 5.000 persone. Ancora più sorprendente poi, ed anche misura del rispetto che la comunità locale porta alla valorizzazione della propria storia, è il fatto che i pannelli espli­cativi in materiale Forex montati lungo le strade del borgo nel 2010, a tutt’oggi non sono mai stati deturpati. Inoltre, il centro antico non ha più quell’aspetto di abbandono che presentava una ventina di anni addietro, il che fa anche pensare che le azioni congiunte di conoscenza e di valorizzazione promosse dal Comune e dall’Università abbiano avuto un impatto positivo sulla tutela da parte degli abitanti, alcuni dei quali nel frattempo sono anche arrivati da fuori per in­vestire in proprietà nel centro di Muro.

18 B. BRUNO (ed.), Muro Leccese, Santa Maria di Miggiano. La chiesa e il cimitero di un villaggio medievale, Mesagne, 2013.

Bosco  con albero e radici in vista
ig. 5: Una ricostruzione grafica del Bosco di Belvedere nel medioevo. Sullo sfondo, a sinistra, uno scorcio della motta di et_ normanna (ideazione P. Arthur e M. Leo Imperiale; realizzazione Inklink, Firenze).

è difficile, nel breve termine, valutare l’impatto sulla coscienza collettiva della comunità di Muro Leccese. Un indice può essere la nascita di pagine sui social network, in particolare Facebook, dove il Museo di Borgo Terra figura costantemente e raccoglie commenti e gradimenti dai muresi, alcuni ormai trapiantati in altre parti dell’Italia o all’estero. Intorno al museo, senza alcuna sollecitazione da parte dell’università, sono anche nati degli eventi annuali, compresa una fiera medievale in costume, mentre il palazzo restaurato è servito come set per realizzare dei film quali, per esempio, Il Giudice Mastrangelo di Enrico Oldoini. Penso, comunque, che i colleghi medievisti, con l’escursione effettuata durante il VII Congresso della SAMI, nel settembre dell’anno scorso, abbiano potuto apprezzare quello che si è tentato di fare sia a Muro Leccese sia con un altro progetto archeologico attualmente in corso presso il castello di Lecce.

Il Museo del Borgo, dopo qualche anno, è stato affiancato dal Museo del Bosco, realizzato al­l’interno del Castello Manfredi, una fortificazione di origine medievale localizzata nel centro del vicino Comune di Supersano. Inaugurato il 21 dicembre 2011, la sua ideazione è nata dalla scoperta e dallo scavo da parte dell’Università del Salento di un insediamento di età bizantina rinvenuto nel 1999 in località Scorpo, per poi passare ad illustrare la storia plurimillenaria del suo contesto, il vecchio ed ormai distrutto Bosco di Belvedere, all’interno del quale fu realizzato uno delle pochissime motte o fortificazioni a terrapieno artificiale di età normanna ancora su­perstiti nel Salento19 (fig. 5). Abbiamo sperato, con quest’ultima esposizione, di superare il con­cetto tradizionale di un’archeologia dominata dall’oggetto o dal singolo insediamento, per tra­smettere ai fruitori l’idea della scienza indirizzata a ricostruire le dinamiche di sviluppo del pae­saggio abitato o, in altre parole, dell’ecosistema umano. Una sala, infatti, è stata allestita come ricostruzione di una parte del bosco, con vere essenze vegetali piantate di fronte ad una gigan­tografia realizzata dalla ditta Inklink di Firenze che illustra graficamente uno scorcio della fore­sta, con alberi, paludi, cervi e cinghiali. La nostra intenzione, inoltre, era che il museo sarebbe stato affiancato da un parco archeologico e naturale, progettato insieme al compianto Arch. Ro­berto Bozza, che prevedeva la rigenerazione di un lembo di bosco nell’area in località Scorpo, che avrebbe dovuto avere una serie di funzioni:

– effettuare ricerche ed esperimenti sulle caratteristiche dello scomparso Bosco di Belvedere;

– esporre i rinvenimenti archeologici e riproporre parte dell’insediamento di età bizantina, se­guendo il modello delle ricostruzioni all’Archeodromo di Poggibonsi, teso alla sperimentazione ed all’educazione20;

– fornire un intrattenimento didattico alla cittadinanza ed ai visitatori;

– aumentare l’attrattività del comune e così aumentare anche l’introito finanziario pubblico e privato tramite i servizi culturali offerti;

– ‘nascondere’ l’area industriale di Supersano, visibile dalla strada provinciale piuttosto frequentata, che deturpa il panorama dell’ambiente locale. Purtroppo, quest’ultimo progetto non è stato finanziato, mentre primi passi in questo senso sono stati compiuti presso il villaggio medievale abbandonato di Apigliano, Martano (LE). Lì abbiamo potuto ricostruire in scala reale una piccola chiesa medievale, impiegando mattoni crudi con cui, pensiamo, fosse edificata in origine21 (fig. 6). Le difficoltà nel realizzare un parco archeologico avvincente di un villaggio, le cui strutture furono realizzate spesso in materiali

Chiesta medievale nella campagna
Fig. 6: La chiesa medievale ricostruita presso il
villaggio medievale abbandonato di Apigliano,
Martano, LE (photo archivio LAM).
Ricostruzione virtuale di chiesa   vista dall'alto
Fig. 7: La chiesa di et normanna del villaggio
abbandonato di Quattor Macinarum (Quattro
Macine, Giuggianello), in una ricostruzione virtuale
di Max Limoncelli.

deperibili, sono molteplici, se non ci sono le possibilità di operare come nel caso del sopra citato esempio a Poggibonsi, per cui abbiamo fatto ampio ricorso a ricostruzioni virtuali (fig. 7).

19 P. ARTHUR, G. FIORENTINO, M. LEO IMPERIALE, L’insediamento in Loc. Scorpo (Supersano, LE) nel VII­VIII secolo. La scoperta di un paesaggio di etÈ medievale, in Archeologia Medievale XXXV, 2008, p. 365-380; P.

ARTHUR, G. FIORENTINO, M. LEO IMPERIALE, A. M. GRASSO (eds.), La Storia nel Pozzo. Ambiente ed eco­nomia di un villaggio bizantino in Terra d’Otranto – Supersano 2007, Lecce, 2011.

20 M. VALENTI, Progetto Archeodromo di Poggibonsi (SI), Materialità della storia e storytelling, in P. Arthur, M. Leo Imperiale (eds.), VII Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Lecce, 9-12 settembre 2015), vol. 1, Firenze, 2015, p. 103-107; ID., Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione, in Bollettino Senese di Storia Patria 122, c.s., p. 1-27.

21 P. ARTHUR, Ricostruire una chiesa medievale, in P. Arthur, B. Bruno (eds.), Apigliano. Un villaggio bizantino e medievale in Terra d’Otranto. L’ambiente, il villaggio, la popolazione, Galatina (Le), 2009, p. 73-76.

Comunque, tutti e due i musei, quello di Muro Leccese e quello di Supersano, realizzati con finanziamenti europei e regionali all’interno di piccole realtà salentine, con popolazioni di ap­prossimativamente di 5.000 e 4.500 abitanti rispettivamente, sono stati accolti dalle loro comu­nità con entusiasmo ed hanno funzionato negli anni come poli di aggregazione di attività culturali di vario tipo, dalle mostre temporanee alle festività natalizie e le fiere.

Muro Leccese e Supersano, fino ad ora, mi sembrano delle piccole “success stories”, la cui buona riuscita è dovuta in larga misura al proficuo dialogo istaurato tra l’università e i relativi comuni. Nel caso del castello di Lecce, invece, le cose sono andate diversamente. Nonostante più di dieci anni di ricerche e di scavi archeologici condotti al Castello di Lecce, insieme al collega Prof. Be­nedetto Vetere ed un gruppo di docenti ed allievi dell’Università del Salento, ad un certo punto le scelte sulla valorizzazione del monumento sono state effettuate direttamente e separatamente dal MIBACT su un lato e dal Comune di Lecce sull’altro, indipendentemente dall’ateneo. Così, invece di puntare sulla storia del Castello di Lecce, che può essere ormai raccontata tramite l’ap­porto di numerose scoperte archeologiche ed una buona base documentaria, l’anno scorso il Co­mune ha scelto di impiegare il monumento come contenitore della famigerata “Mostra Internazionale sulle Torture Medievali” realizzata da un consorzio di imprese che vanta il pa­trocinio del Comune di Lecce e che «è stata ospitata in varie nazioni tra le quali Spagna, Porto­gallo e Malesia e visitata da più di un milione di persone . Continua la giustificazione della scelta nelle locandine pubblicitarie con l’affermazione che la mostra intende far riflettere lo spettatore e sensibilizzare l’opinione pubblica sulle atrocità delle torture e la violazione dei diritti umani in un momento in cui queste tematiche tornano tristemente agli onori della cronaca quotidiana. Un invito a ricordare per non dimenticare .

Trovo, invece, assai triste che, proprio dove si è avuta la possibilità di effettuare ricerche scientifiche continuative per oltre un decennio, non si sia po­tuto finora avvalersi dei risultati per presentare una visione della storia e della vita del castello secondo le migliori tradizioni della ricostruzione storica ed archeologica. Mostre come quella di cui ho appena scritto, possono essere diseducative, offrendo visioni distorte del medioevo, avendo apparentemente lo scopo principale di lucrare attraverso il sensazionalismo, più che di istruire. Visti comunque i notevoli risultati delle ricerche archeologiche e storiche, autonoma­mente, durante gli scavi, abbiamo spiegato la storia del castello, le novità ed i metodi di lavoro tramite panelli didascalici affissi sulla ringhiera da dove i visitatori potevano vedere il lavoro in corso, e una piccola vetrina di accompagnamento con in bella mostra alcuni reperti rinvenuti in contesto stratigrafico.

Diversamente, la sfida attuale, portata avanti in collaborazione con il Comune di Lecce ed il responsabile dei lavori, l’Arch. Patrizia Erroi, è la valorizzazione delle mura urbiche di Lecce e delle aree contigue, che sono in corso di scavo e di restauro. A due anni dagli inizi del lavoro gran parte del fossato cinquecentesco è stato svuotato del suo riempimento, databile sostan­zialmente all’ottocento, che ha restituito una grande quantità di frammenti scultorei ed archi­tettonici di età post medievale. Sono state già in parte restaurate le mura, e sono emerse tante evidenze archeologiche per poter ricostruire la storia del luogo negli ultimi 2.000 anni, compresi tre precedenti fasi delle fortificazioni tra ‘400 e ‘500, uno scarico di fornace di ceramiche medie­vali del tardo XV secolo e circa 140 metri della strada romana che da Brundisium (Brindisi) con­duceva a Lupiae (Lecce) (fig. 8). Inoltre, all’interno delle mura è stato esplorato il vecchio giardino di Palazzo Giaconia.

Le numerose scoperte hanno stravolto il vecchio progetto redatto per il Comune di Lecce ed esigono una sistemazione particolare dell’intera area che prevede una esposizione delle fortificazioni, della strada romana e del giardino, in un percorso didattico con visitor centre, esposizione museale, parco con rinvenimenti archeologici e camminamento lungo le mura.

Mentre le idee sono tante ed il risultato finale potrebbe diventare un punto di forza all’interno delle offerte culturali della città, il maggior problema è come realizzare qualcosa che abbia una attrattiva costante durante il corso dell’anno, garantendo an­che una durevole manuten­zione, piuttosto che diventare un semplice attrazione turistica legata ai soli mesi di maggior flusso turistico. è particolar­mente necessario individuare un’offerta che superi la storia e l’archeologia, se vogliamo ten­tare di abbattere le tendenze negative segnalate ultima­mente dell’ISTAT, che sottoli­nea un rapporto negativo tra la cittadinanza e la cultura22.

L’ISTAT segnala che nell’ul­timo anno i siti archeologici sono stati ignorati dal 81,4% della popolazione nell’Italia meridionale, contro il, comun­que basso, 74,4% della media nazionale, e i musei spesso non sempre se la cavano meglio. Il nostro intento, perciò, dev’essere di creare qualcosa che vada ben oltre l’esposizione dei monumenti e dei resti archeologici, ma che sia di larga utilità pubblica. Insomma, di approdare ad una realizzazione in cui il passato venga inteso non come feticcio, ma come strumento del di­venire.

Fig. 8: Gli scavi presso le mura di Lecce nel febbraio 2016. La stradaromana _ in corso di scavo nel centro della fotografia (foto dell’autore).

22 Il Giornale dell’Arte, invece, dipinge un quadro molto più splendente della situazione: A. MARTINI, Allora non è vero che a noi italiani l’arte non piace, in Il Giornale dell’Arte XXXIII, n. 361, febbraio 2016, p. 1 e 6.

This paper examines the author’s views on why we practise archaeology and the relationship and in­teraction of the discipline with the general public in Italy. It further illustrates examples of how ar­chaeology is presented to the public in the Salento area of southern Apulia.

P. Arthur Dipartimento di Beni Culturali Università del Salento (Italia) paul.arthur@unisalento.it

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