IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Pensiero e parola di Cipriano Gentilino

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Il rapido attuale cambiamento del linguaggio, specialmente giornalistico e social, sia nei contenuti che nei modi ci ha indotto ad affrontare il tema sulla nostra rivista a partire da punti di vista diversi. In particolare, da quello letterario-sociologico e da quello neuropsicologico con riferimento al bene-essere e all’inter-esse sociale

La capacità di comunicare attraverso un linguaggio articolato parlato e scritto è la caratteristica che ci distingue dagli altri animali. Per trasmettere i nostri pensieri, idee e conoscenze usiamo la lingua. E la usiamo in maniera così particolarmente differenziata che si contano circa 7000 lingue attualmente parlate in tutto il mondo ognuna delle quali ha proprie caratteristiche che la distinguono dalle altre. Nel corso storico degli studi si è posto da subito il dibattito sul rapporto tra pensiero e linguaggio e in particolare se la lingua  forma il nostro pensiero, cioè se la ricchezza culturale e simbolica di una lingua possono contribuire a “strutturare” il nostro cervello, le convinzioni e gli atteggiamenti cambiando il modo di pensare e agire.

E’ essenziale allora porre una domanda metodologicamente corretta: quale viene per primo? Lingua o pensiero?

George Orwell nel suo famoso romanzo “1984” manifesta l’idea che il linguaggio è di fondamentale importanza per il pensiero umano perché struttura le idee che gli individui sono poi in grado di formulare ed esprimere. E addirittura, a giudizio di molti, esagerando, ipotizza che se il controllo del linguaggio fosse centralizzato in un’agenzia politica, tale agenzia potrebbe eventualmente modificare la struttura stessa del linguaggio per rendere impossibile concepire pensieri disubbidienti o ribelli, perché non ci sarebbero parole con cui pensarli.

Una visione apocalittica di un controllo totale al limite del robotico ma che ci può dare l’idea della importanza e della sensibilità del tema nonché delle manipolazioni possibili.

In pratica però dalle molteplici interpretazioni filosofiche e psicologiche è bene distinguere due punti di vista, opposti tra di loro.

L’universalismo linguistico secondo il quale il pensiero viene prima ed è indipendente dal linguaggio e il relativismo linguistico, il quale propone che il pensiero e la percezione della realtà dipendono dalla lingua.

Noam Chomsky sostiene un’ipotesi di forte universalismo secondo la quale gli uomini sono nati con una determinata conoscenza linguistica che include alcuni concetti e strutture grammaticali e i bambini non imparano a parlare imitando gli adulti.

 –Vygotskij, dal canto suo, ha sostenuto che il bambino apprende la lingua attraverso il rapporto con il mondo degli adulti, in particolare il rapporto con la madre in una interazione di imitazione reciproca ma nella quale la madre è ovviamente sempre avanti.

In pratica una socializzazione primaria nel corso della quale il bambino conosce empaticamente la madre, gli altri e principalmente sé stesso.

Gli etnolinguisti hanno storicamente sostenuto che la lingua si adatta ai bisogni dei parlanti, ai costumi, al modo di vivere, alla cultura e quindi la influenza. Tanto che si pensa che imparare una nuova lingua dovrebbe essere un processo complesso che preveda imparare anche modi di vita, costumi e cultura del popolo che in quella lingua si esprime.

Ovviamente il quadro diventa via via più complesso anche nella esposizione perché si vanno aggiungendo atri importanti attori della comunicazione e della cultura.

Tra questi un ruolo importantissimo hanno il silenzio e la comunicazione non verbale.

L’etimologia della parola silenzio aiuta a isolare una prima cellula semantica nell’indoeuropeo si-, che genera i vocaboli greci sigáo/sighê o siopáo/siopê, il latino sileo e persino l’alto-tedesco swigen che è divenuto l’attuale schweigen che assegna alla parola «silenzio» un valore interiore di quiete, tranquillità e pace a differenza dal «tacere» che è semplice assenza di comunicazione e “cessazione del parlare”; ma, poiché in italiano non esiste un sostantivo derivato da tacere che indichi questo stato, si è usato “silentium” in ambedue i casi e da questa scelta obbligata origina a tutt’oggi una certa confusione  della parola sia per gli aspetti psicologici   che comportamentali

La duplice complementarietà di significato tra l’essere in silenzio e il tacere ci fa già intravvedere l’importanza della definizione concettuale, la sua complessità e, in una relazione contestuale, la sua attualità.

Se infatti il silenzio è stato ed è oggetto di speculazioni filosofiche e teologiche nonché psicologiche e letterarie attualmente assume anche il ruolo di bisogno di una umanità che, pur non globalmente, transita da profili antropologici preindustriali a industriali-consumistici-a quelli della espansione informatica.

“Viviamo nel tempo del rumore. Il silenzio è sotto attacco” scrive Erling Kagge, ne “Il silenzio. Uno spazio dell’anima”.

Un rumore caotico che ci sommerge con input non controllabili di parole, auto, pubblicità, suoni delle città, urla, avvisi sonori di scadenze, appuntamenti, segnali stradali, disegni sui muri, tutti insieme in una orgia di rumori tanto frenetica, invadente e incisiva nel nostro iperconnesso quotidiano che determina stress e spesso una dipendenza e una fobia, la c.d. nomofobia, che è la paura di rimanere disconnessi da un universo per molte parti fittizio dove esserci diventa solo apparire e  apparire uno snodo pseudo-esistenziale.

Una condizione che richiama la necessità di uno spazio-tempo di solitudine, riflessione e disciplina, ed in ultima analisi, di consapevolezza di sé.

Il silenzio quindi è una componente importante del colloquio che merita attenzione e deve essere ben conosciuta nelle sue espressioni, “nei suoi significanti e significati „( Lacan ) cioè a quell’insieme emozionale, affettivo, razionale che, costituendo il significato, rimanda a quel significante che diventa parte e oggetto di empatia e ascolto dell’altro da noi.

Il silenzio è un messaggio polisemico, può essere quindi espressione di resistenza o  attesa, desiderio di incoraggiamento, disponibilità all’accoglienza.

Ed è sempre una comunicazione “è impossibile non comunicare” ( scuola di Palo Alto )

Il silenzio è potente tanto quanto la parola. Un potere, il loro, enorme nel doppio versante comunicativo con gli altri e con noi stessi.

Per esempio le parole negative e la brutta profezia che si auto-avvera ( non ci riuscirai mai ) dove un loop di fallimenti nuoce alla nostra autostima e ci porta a sbagliare.

Viceversa, l’utilizzo di parole e frasi positive, attivano una reazione neuronale a catena che ci spinge all’azione. In aggiunta, come scoperto da un esperimento condotto presso l’Università Claude Bernard di Lione, l’uso di verbi connessi all’attività fisica (es. vai, fai, attacca, etc.) ci influenza aumentando automaticamente la forza, l’intensità e la grinta nello svolgere un’azione.

“Le parole hanno il potere di distruggere e di creare” (Buddha)

Parole che vendono rinforzate da quella che chiamiamo CNV ( Comunicazione non Verbale ) e cioè da quell’insieme di espressioni, posture e gesti che accompagnano le parole .

Ma il rapporto pensiero – parola è stato reso ancora più complesso dalle conoscenze delle neuroscienze.

L’individuazione delle aree del linguaggio ha evidenziato il collegamento tra processi cognitivi, propriamente espressivi e aree delle articolazioni neuro-muscolari che regolano la fonia pd.

Nonché quella che si chiama lateralizzazione cerebrale per la quale nel destrimane il cervello sinistro sovrintende al linguaggio logico, specifico, scientifico, matematico mentre quello dx al linguaggio della interezza nella complessità, delle emozioni, della creatività . Lateralizzazione da non intendersi come una rigida separazione ma come una collaborazione attraverso strutture ( il Corpo calloso )  che fungono da incessante collegamento e fluidificazione delle informazioni .E così possiamo dire che l’ arte nasce precisamente in quello straordinario laboratorio in cui la esperienze e l’idea viene fluidificata e riorganizzata in vista di soluzioni creative nuove e individuanti.

Dall’insieme degli spunti riportati è possibile affermare almeno due aspetti fondamentali.

Il primo è che, a parte il problema filosofico della primogenitura, parola e pensiero e tutte le funzioni ad essi collegate nascono da aree specifiche e diverse che si sviluppano seguendo gli input genetici della crescita e quelli inizialmente materni e poi sociali del contesto familiare e culturale. L’aspetto però molto importante è che si sviluppano in una armonia a feedback con reciproche stimolazioni.

Il secondo è che il doppio feedback linguistico attualmente non è più solamente legato alla cultura del paese di appartenenza, come gli studiosi della fine dell’880 e primi del 900 hanno detto ma è di fatto legato anche a quella pseudo-cultura della apparenza, della velocità, della frammentazione sociale per la quale non si sono mai immaginati limiti come quelli imposti dal vivere sociale e dalla cultura di appartenenza, dalla scolarità, da un complessivo rigore metodolico.

Si suole dire chiacchiere da bar a indicare un basso livello culturale nell’approfondimento di questioni politiche o altro ma si può pensare che siamo già oltre il bar perché manca l’interazione fisica e chi parla parla a tutti, a nessuno, forse neppure a sé stesso.

Per questo Cultura Oltre si sta’ impegnando (dagli articoli ai concorsi di poesia e agli interventi in collaborazione con chi pensa che cultura è linguaggio e viceversa) contro l’abuso di espressioni di odio e di disumanità in un impegno primario per la pace ma anche per il rispetto e la gentilezza che sono presupposti di benessere.

Cipriano Gentilino

FONTE:

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