IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“W LA FICA!” Divagazioni letterarie su un etimo controverso

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di Paolo Vincenti

È un titolo ad effetto, certo, di quelli che richiamano e spingono alla lettura. Ma non è forse anche quello che da tanti anni fanno a Marittima di Diso con la loro famosa Festa della fica? Una delle sagre più conosciute e frequentate del Salento, quella di Marittima, che si tiene il 17 agosto, quando orde di famelici turisti si portano nel piccolo borgo leucano attirati dalla dolce tentazione. E del resto, in barba al tasso glicemico, chi potrebbe resistere al richiamo di una simile offerta gastronomica in una sagra che esponeva, fino a qualche anno fa, ben ottanta diverse varietà di fico salentino?[1] E poi, a destare la curiosità del turista, ecco quel malizioso richiamo, nel titolo dell’evento, ai piaceri di Venere che, coniugati con quelli di Pomona, creano un connubio certo irresistibile. E come il richiamo delle sirene dell’Odissea, locali e forestieri si lasciano conquistare dalla fragranza di uno dei frutti più buoni che abbia dato la natura. La festa di Marittima non ha mai trascurato nulla e accanto all’aspetto godereccio è presente anche quello culturale se è vero che il comitato organizzatore della sagra affidò nei primi anni Duemila al biologo Francesco Minonne la cura scientifica della manifestazione con convegni e mostre organizzati con la collaborazione dell’Orto Botanico dell’Università del Salento sulle vecchie varietà di specie fruttifere diffuse nel territorio salentino, sulle quali si sono intrattenuti studiosi ed esperti internazionali. E la fragranza delle “fiche” di Marittima ha varcato anche i confini nazionali ed ha portato al gemellaggio del comune di Diso con la cittadina francese di Vèzenobrsès, situata nel dipartimento del Gard, dove a ottobre si svolgono le “Journées mediterranéennes de la figue”[2]

Ed è proprio in questa festa, la genesi dell’articolo. Visitandola in agosto, infatti, con un nutrito drappello di amici, fra le bancarelle e la musica dal vivo, osservando le invitanti varietà di fichi esposti quasi come fossero gioielli, e lanciando poi di sottecchi uno sguardo agli striscioni campeggianti in ogni dove e recanti incisa l’intitolazione della sagra, ho potuto riflettere sul colpo di genio che ha avuto illo tempore il comitato promotore giocando allusivamente, con efficace strategia commerciale, sulla voce dialettale salentina del termine fico. Nessun salentino, sono pronto a scommettere, potrebbe dire di non amare i fichi a meno di intolleranze alimentari o particolari patologie.  “Io non capisco la gente, che non ci piacciono i fichi”, canta Francesco Guccini.  «Il fico rappresenta, da sempre, una delle colture più importanti del panorama agricolo pugliese; tra le specie legnose che hanno retto l’economia agricola regionale si può dire che esso è, per importanza, al terzo posto dopo olivo e vite. La sua presenza è certamente antica; le immigrazioni di popoli orientali, già prima della dominazione romana, avvenute in questa terra e i rapporti commerciali con i luoghi d’origine di quei popoli possono aver permesso l’importazione di piante e, fra queste, anche di varietà differenti di fichi»: così è scritto nel volume Fichi di Puglia. Storia, paesaggi, cucina, biodiversità e conservazione del fico in Puglia[3]. «Per tutta la regione, quindi, questa pianta ha assunto, fino a pochi decenni fa, un valore enorme se si pensa alla possibilità di sostentamento che da questa coltura hanno tratto famiglie di braccianti, coloni e mezzadri; non avendo spesso possibilità di sfruttare colture ad elevato reddito, questa gente trovava nel fico una pianta di “salvataggio”, una coltura frugale, di rapida entrata in produzione, di facile ed autonoma trasformazione dei frutti essiccati. Il radicale cambiamento dei mercati e dei consumi ed il conseguente crollo delle coltivazioni ha posto il fico, in pochi anni, tra i cosiddetti “frutti minori”; lo ha relegato ai margini dell’agricoltura produttiva, sottraendolo anche alle cure e attenzioni di cui un tempo godeva e confinandolo spesso ad un abbandono colturale e alimentare. Chi oggi attraversa il territorio pugliese può vedere solo ciò che rimane di un antico sistema colturale legato al fico, ma può scorgere ancora, prestando attenzione, i segni di un paesaggio rurale strettamente legato a questa specie; testimone di una coltura tradizionale ormai in abbandono lo troviamo consociato ad olivo, mandorlo ma anche a colture ortive, e ancora in sparuti ficheti lungo le zone costiere del basso e alto Salento, sulle Murge, nella Piana di Bari, nel vasto tavoliere foggiano. Nel Salento meridionale, oltre ai vetusti esemplari arborei ancora presenti qua e là nelle campagne d’ogni tipo, nei giardini e nelle residenze estive, negli orti periurbani e finanche nell’ambito urbano dei piccoli paesi, si individuano alcuni “paesaggi nascosti” del fico. Una vera e propria archeologia arborea e rupestre che contraddistingue paesaggi agrari a volte interclusi tra la strada litoranea e l’immensa fascia blu dell’orizzonte marino. Nella cornice costiera della Puglia meridionale, infatti, i minuscoli fazzoletti di terra che degradano terrazzati dalla litoranea al mare lasciano spazio e luce all’antico retaggio del fico, del fico d’india, del gelso moro, del carrubo e di pochi altri fruttiferi che possono sopportare salsedine e arsura estiva. Qui, infatti, l’immenso patrimonio olivicolo, nella bellezza monotona del suo paesaggio arboreo, trova i suoi rari punti di discontinuità aprendosi, di tanto in tanto, sopra i terrazzamenti ben recintati della costa[…] All’interno delle piccole parcelle di terreno troviamo ficazzani, culummi bianchi e neri, maranciana e soprattutto rizzeddha, resistente alle condizione estreme della costa e qui padrona assoluta tra le varietà da essiccare; più ancora dell’onnipresente dottato che da qui rifugge in cerca di terreni migliori nell’entroterra pugliese. Lungo le marine ostili e calde di queste coste si svolgeva il profumato viaggio dei fichi e delle carrube; i fichi buoni raccolti ed essicati in agosto lasciavano il posto a quelli caduti e stramaturi che insieme alle cornule andavano allu mbarcu; si imbarcavano cioè per le industrie della distillazione presenti, peraltro, anche in importanti centri leccesi come San Cesario di Lecce. Oggi, in tutte le province, la coltivazione del fico è quasi sempre associata ad altri fruttiferi o colture erbacee ma, da qualche anno, sono stati realizzati nuovi impianti ed altri sono in fase di realizzazione; un ritrovato interesse ha spinto alcuni imprenditori agricoli ad investimenti coraggiosi per la produzione di fico fresco e per la trasformazione in essiccato e composte. Anche il settore agrituristico ha dato, negli ultimi anni, un contributo sostanziale sia alla conservazione sia alla promozione di questo patrimonio, con l’impianto di piccoli ficheti per il consumo interno alla propria ristorazione. Progetti scientifici, iniziative di promozione, l’azione dei Parchi Naturali pugliesi fanno una parte importante in questo rilancio; all’interno di un grande progetto di agricoltura sostenibile e creativa il fico trova il suo spazio ideale per esistere e continuare a fare la sua parte sulle tavole di questa terra»[4].  

Una lunga citazione ma penso meritasse di entrarci tutta perché gli autori del libro non sono solo “addetti ai lavori” ma anche appassionati cultori della conservazione e valorizzazione delle specie fruttifere autoctone oltre che della necessaria biodiversità del paesaggio agricolo nostrano[5]. Leggendo, il mio pensiero è andato certamente alle tante varietà di fico che abbiamo gustato in vita nostra, fin da quando, ancora bambini, se non si possedevano alberi di fico nelle nostre campagne (ma anche in quel caso), ci fermavamo lungo il cammino per cogliere furtivamente i frutti dai pomari delle villette e dei tenimenti che erano sporgenti sulla strada (Lo fanno ancora oggi, forse non più i mocciosi, poco allettati da tutto ciò che non sia sullo schermo del loro smartphone, ma soprattutto gente in età, chissà se per malinconia dei tempi andati o per reale cedimento al peccato di gola). Erano, quelle, estati chiare e selvagge in cui addentavamo lo zuccheroso prodotto della terra e mordevamo la vita, senza darci pena per il colesterolo, senza alcun pensiero del domani. Fracazzane o casciteddhe, maranciana o fica paccia (che è anche il nome di un noto ristorante di S. Maria di Leuca), con quale voracità trangugiavamo i frutti spontanei del fico, tanto da starne male, dedicando però alla loro degustazione un momento solenne come la serata di Marittima nella sua sagra ormai divenuta un must dell’estate salentina, una delle più seguite fra gli appuntamenti agostani.

Ho tergiversato finora senza affrontare apertis verbis la questione che è poi lo scopo di questo ozioso intrattenimento letterario, e senza citare la protagonista indiscussa di questo pezzo fintamente erudito: la fica. Protagonista, essa, a dire il vero, di ogni discussione amena di italici maschi in fregola, topos nella letteratura erotica e in cinema e fumettistica pornografici, icona pop incontrastata del pantheon sessuale artistico, sogno inconfessato o dichiarato di ogni seduttore più o meno arrazzato.  W la fica: la scritta oscena sui muri dei bagni pubblici a scuola o nelle stazioni, in bar o sale giochi, ha costellato la nostra infanzia e adolescenza, opera di graffitari naïve, selvaggi e ottusi, che in spregio del decoro pubblico ed alieni ad ogni forma di autocensura artistica, dichiaravano con quel gesto rivoluzionario la propria incrollabile e sempiterna fede sessuale. Quando i valori vacillavano o crollavano, le pubbliche morali cedevano all’inarrestabile marcia dei tempi, una certezza resisteva granitica nei gineprai mentali di questi vagolabili: appunto la fica! Ecco dunque le loro deprecabili quanto fiere scritte fare mostra di sé in spazi pubblici e privati, saracinesche di vecchi garage, portoni scrostati di antichi palazzi nobiliari, mura scalcinate e corrose dall’edacia del tempo, spazi comunali delle pubbliche affissioni, cartelloni pubblicitari in disuso, muretti di lungomare e terrazze di locali ormai chiusi, ogni spazio graffitabile di centri urbani e periferie veniva graffitato con queste iscrizioni che non diverranno mai oggetto di studi epigrafici e nemmeno sociologici. Esse erano manifestazione plastica della allupata pubertà di adolescenti inquieti, esplosione incontenibile di primitiva gioia di vivere, esergo di una sottocultura stratificata in una popolazione meno scolarizzata ma soprattutto meno tecnologica di oggi, a volte cancellate da una mano di spray bianco coprente, più spesso lasciate esposte al pubblico disprezzo o alle sghignazzate di compiaciuti buzzurri fino a lenta consunzione per effetto del sole, raramente trasformate in un più pudico e protoanimalista w la foca!.

La voce fica deriva dal latino medievale fica che a sua volta era corruzione del latino classico ficum per intendere l’albero di fico e il suo frutto. Per altro, in italiano, “fico” è uno dei pochi termini che indicano sia l’albero che il frutto, restando al genere maschile, mentre quasi tutti si cambiano in femminile, il melo-la mela, il pesco-la pesca, il mandorlo-la mandorla (una forma di involontaria censura?). Nel volgare, il termine fica è passato ad indicare in senso figurato l’organo genitale femminile, ovvero la vagina. Ma anche, per estensione, una donna molto bella o appariscente, che insomma si fa notare per le sue grazie. Del termine esistono solo due varanti regionali: quella settentrionale, figa, e appunto quella meridionale. “Per metonimia, ragazza o donna giovane molto attraente”, scrive il dizionario Treccani[6]. Ma un po’ tutti i dizionari, dal Garzanti al Devoto Oli, riportano la stessa cosa.

Dell’etimologia della parola l’Accademia della Crusca offre un’altra versione: «è stata proposta autorevolmente (Cortelazzo 1970, pp. 80-81)[7] un’etimologia alternativa postulando una variante (*ph) del gr. thkē ‘guaina’, con uno scambio fra ph th altrimenti attestato e con la stessa evoluzione semantica del lat. vagina ‘guaina’»[8]. Tuttavia, altrettanto autorevolmente, lo studioso Armando Polito nutre dei dubbi sull’etimo di fica come emerge nel Cortelazzo, perché, mi dice, essendo una voce ricostruita, se non se ne troverà attestazione in qualche manoscritto, sarà sempre subjudice.

Oggi, nel linguaggio gergale giovanile, “fico”, al maschile, fa riferimento a una persona veramente in gamba, abile, astuta, oppure a qualcosa che è degno di ammirazione, che crea approvazione (“è fico!!)[9]. Oltre ad apparire una “fica”, però, la donna può “fare la fica”, detto di un atteggiamento esplicito e smaccato proprio di colei che, procace o sensuale, sa di essere tale e non lo nasconde. Dunque “fare la fica” vale ostentare la propria bellezza, evidenziare le proprie grazie.

Dalla fica a “far le fiche”. È una forma arcaica ma non meno importante. Si tratta di un gesto insultante che consiste nel chiudere la mano a pugno facendo scorgere il pollice fra l’indice ed il medio, in segno di scherno. È un gesto oggi obsoleto che nessuno più conosce. Ne parla Dante nel 25simo Canto dell’Inferno: “Al fine de le sue parole il ladro / le mani alzò con amendue le fiche, / gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!», con riferimento a Vanni Fucci[10].

Ma come si giunge all’associazione fra il femminile di fico e la vulva della donna? Sappiamo dai dizionari che il termine arcaico fica ad indicare il frutto inizia nel XIII secolo, mentre quello licenzioso che indica la vagina femminile è attestato dal XVI secolo, ma non più di questo. Per avere lumi dobbiamo allora ricorrere al Vocabolario Dantesco o, meglio, al Vocabolario della Crusca, che per fortuna come tantissimo materiale di interesse scientifico è oggi digitalizzato e occorre benedire Sant’Isidoro di Siviglia, protettore di Internet (a questo proposito, sembra paradossale che il protettorato della rete sia stato assunto proprio da uno studioso che certo non brilla per precisione scientifica nella sua celebre opera Etymologiae in cui indica per le parole le più strampalate derivazioni. Dunque è stato un occulto avallo alle fake news che girano in rete di cui i “webeti”, per dirla con Enrico Mentana, si servono a piene mani, oppure al contrario questo protettorato è stato assegnato proprio in funzione apotropaica per scacciare il pericolo delle bufale? Misteri del diritto canonico e della Congregazione per le cause dei santi![11]).

Bene, il Vocabolario Dantesco spiega la voce fica “dal lat. tardo fīca in luogo di fīcum con metaplasmo di genere, «sul modello del gr. sûkon ‘fico’ che attraverso ‘tumorello’ è passato […]ad indicare la parte sessuale muliebre»”[12], e rimanda ai testi scientifici più importanti nei quali la voce è attestata, ovvero:

il Corpus OVI, ossia l’Opera del Vocabolario Italiano[13]; il DiVo, ossia il Corpus del Dizionario dei volgarizzamenti[14]; il LirIO, cioè il Corpus della poesia lirica italiana delle origini[15]; la Prosa fior. sec. XIIIcioè i testi in prosa fiorentina delle origini[16]; e Petrarca e Boccaccio; il TLIO, cioè “il corpus sul quale specificamente si redige il Tesoro della Lingua Italiana delle Origini. È consultabile per forme e per lemmi”[17]; la Crusca in rete; e inoltre la voce fica curata da Fernando Salsano nell’Enciclopedia Dantesca[18].

Partiamo con il TLIO. Il Tesoro della lingua italiana delle origini, a proposito del gesto osceno, cita:

 [1] Dante, Commedia, a. 1321, Inf. 25.2, vol. 1, pag. 417: Al fine de le sue parole il ladro / le mani alzò con amendue le fiche, / gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!».

[2] Francesco da Buti, Inf., 1385/95 (pis.), c. 25, 1-15, pag. 641.27: questa fica è uno vituperoso atto, che si fa con le dita in dispregio e vituperio altrui, e non se ne può fare se non due da ogni mano con le dita…

[3] Dondi dall’Orologio, Rime, XIV (padov.), 44.12, pag. 101: Ché chi è corente à più volte le fiche / et schaco matto in mezo il tavolieri, / sì ch’el riporta et la vergogna e ‘l danno.

[4] Sacchetti, Trecentonovelle, XIV sm. (fior.), 154, pag. 366.1: E ‘l terzo è che, quando a uno è dato un gran segreto, e quello il dice a un altro, dicendo e pregando che tenga segreto quello che non ha possuto tenere

[5] Francesco di Vannozzo, Rime, XIV sm. (tosc.-ven.), 148.166: “Io cognosco le fiche / e quei che le tragualza” / “Io dico alza – e tien la man de fora, / che quando buora – tragie, / papagalli con gagie – vanno a nido”.

Per “squadrare le fiche”, cita:

[6] Cecco d’Ascoli, Acerba, a. 1327 (tosc./ascol.), L. 4, cap. 12.4684, pag. 399: Non veggio il Conte che per ira ed asto / Tien forte l’arcivescovo Ruggero / Prendendo del suo ceffo il fiero pasto. / Non veggio qui squadrare a Dio le fiche. / Lascio le ciance e torno su nel vero.

E sempre con riferimento al gesto osceno:

[1] Brunetto Latini, Tesoretto, a. 1274 (fior.), 1719, pag. 236: E chi gentil si tiene / sanza fare altro bene / se non di quella boce, / credesi far la croce, / ma e’ si fa la fica: / chi non dura fatica / sì che possa valere, / non si creda capere / tra gli uomini valenti / perché sia di gran genti…

[2] Onesto da Bologna, XIII sm. (tosc.), 14.14, pag. 68: Amico, i’ t’aggio letta la robrica; / provedi al negro, ché ciascun tu’ paro / a llei e ad Amor fatt’ ha la fica.

[3] Fiore, [si intenda Il Fiore e il Detto d’Amore attribuibili a Dante Alighieri] XIII u.q. (fior.), 176.14, pag. 354: Allor la donna, come ch’e’ le piaccia / Udir quelle parole, sì lor dica / E comandi che ciascuna si taccia; / E puote dir: ‘Se Dio mi benedica, / Tropp’ò del su’ quand’i’ l’ò tra lle braccia’; / E facciagli sott’al mantel la fica».

[4] Novellino, XIII u.v. (fior.), 58, pag. 250.3: Quello donzello li fece la fica quasi infino all’occhio, dicendoli villania.

[5] Cavalca, Specchio de’ peccati, c. 1340 (pis.), cap. 3, pag. 24.1: bestemmiandolo, e dicendo villania, e mormorando contro a lui, e di lui lamentandosi: e alcuni gli hanno già fatte le fiche…

[6] Giovanni Villani (ed. Porta), a. 1348 (fior.), L. 7, cap. 5, vol. 1, pag. 281.21: E nota che in su la rocca di Carmignano avea una torre alta LXX braccia, e ivi su due braccia di marmo, che faceano le mani le fiche a Firenze…

[7] Marino Ceccoli, XIV pm. (perug.), 11.9, pag. 673: per lui soffert’ho io briga e travaglio, / per lui perduto n’ho Apollo e Minerve. / Ma io farò una fica e dirò: – Castra! / Famme ‘l peggio, che puoi; tènla tra gli occhie…

[8] Ingiurie recanatesi, 1351-96, [1384], pag. 486.13: Ad chi fai tu le fiche, moscha sanguenente, che ei come uno pedeto d’aseno…

[9] Sacchetti, Trecentonovelle, XIV sm. (fior.), 154, pag. 365.37: La seconda (acciò che voi sappiate che io so, come quella dipintura sta), è quando uno dee avere fiorini cento, o altra quantità da un altro, e ‘l debitore gliene vuole dare una parte, e quello gli fa un’ altra figa.

[10] Itinerarium volg., XIV sm. (tosc. occ.), App. 5, pag. 180.25: ellino per vergogna della loro nudità si missero lo lor membro da generare tra lle cosce sì che facevan la fica dietro; di che tutti quelli della nave cominciaro a ridere.

[11] Legg. sacre Mgl. XXXVIII.110, XIV sm. (sett.), 20, pag. 93.26: E alora li faxevano le fiche e spudavange su la facia, sì ge davano le guançate e le grande collate[19].

La Crusca on line, dando la definizione di “fare le fiche” dal latino medium unguem ostendere, cita:

Esempio:Dant. Inf. 25. Le mani alzò con amendue le fiche.
Esempio:But. ivi: [s’intenda Francesco da Buti, Comento, o Lettura sopra Dante]. Questa fica è un vituperoso atto, che si fa colle dita in dispregio, e vitupero altrui, e non se ne può fare se non una da ogni mano colle dita.
Esempio:Nov. ant. [sta per Il novellino o Cento novelle antiche 55. 1. Quel donzello gli fece la fica quasi infino all’occhio, dicendoli villanía.
Esempio:N. ant. [sempre Il Novellino, integrazione]appresso: Confortollo, che rispondesse, e facesse la fica a colui, che la facea a lui.
Esempio:G. V. [cioè Giovanni Villani, Cronica].  6. 5. 1. Le mani delle quali facevano le fiche a Firenze.
Esempio:Pataff. [è l’opera di Franco Sacchetti, Il Pataffio[20]]10. Che fan le fiche con fioca favella.
Esempio:Bern. Orl. [cioè Francesco Berni, Orlando innamorato[21]].  2. 5. 45. Voltasi egli, e le fa due fiche in faccia.
Esempio:Ber. Orl. 2. 10. 58. Egli a lei fa per beffe, e strazio, e scorno E ceffo, e crocchi, e cento fiche in faccia.
Definiz:§. II. Far le fiche alla cassetta, dicono i mercatanti de’ loro cassieri, quando egli spendono in uso proprio i danari, ch’egli hanno in consegna.
Esempio:Pataff. [Franco Sacchetti, Il Pataffio]2. Egli ha fatta la fica alla cassetta[22].

Ma tornando al testo dantesco, Francesca Spinelli approfondisce meglio il citato passo dell’Inferno. Seguiamo la sua analisi[23].

«Dante e Virgilio si trovano nella settima bolgia, intenti a osservare i ladri che subiscono mostruose metamorfosi. Uno di loro, il pistoiese Vanni Fucci, dopo aver parlato con i viandanti dà sfogo a tutta la sua blasfemia: alzando le mani al cielo, mostra a Dio le fiche, accompagnandole a un’imprecazione verbale:

Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!” (Inf. XXV, 1-3)

Non ci sono dubbi che l’atto di scherno a cui allude Dante sia identificabile con il fare le fiche, espressione attestata a partire dalla seconda metà del Duecento (l’aveva usata anche Brunetto Latini nel Tesoretto, composto prima del 1274: “E chi gentil si tiene / sanza fare altro bene / se non di quella boce, / credesi far la croce, / ma e’ si fa la fica […]”; cfr. TLIO s.v. fica), e che sia il gesto, descritto nel Vocabolario della Crusca, sia l’espressione dovevano risultare ben noti all’epoca del poeta, dal momento che i primi esegeti del poema non si soffermano con commenti. Un importante contributo interpretativo giunge invece dai cosiddetti “commenti figurati” alla Commedia, cioè dalle illustrazioni che in molti manoscritti del poema fungono da integrazione o spiegazione del testo dantesco (cfr. Mazzucchi 2001, pp. 305-309)[24]. Ne sono un prezioso esempio le miniature di questi tre manoscritti, tutti datati o databili entro gli anni sessanta del Trecento»

Una è conservata a Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palatino 313 (Dante Poggiali), c. 59r; l’altra a Napoli, Biblioteca e Complesso Monumentale dei Girolamini, CF 2.16 (Filippino), c. 60 v; la terza a Chantilly, Bibliothèque du château, Ms 597, c. 163r[25].

«Nelle immagini è chiaramente visibile la figura di Vanni Fucci che rivolge verso l’alto una o due mani strette a pugno, dalle quali fuoriesce il pollice. È lo stesso gesto di cui si parla nel Vocabolario della Crusca, il che rende implausibili altre interpretazioni in precedenza avanzate. Dal mondo della storia dell’arte, e nello specifico dai dipinti di argomento cristologico, provengono analoghe testimonianze. Fra queste gioverà almeno ricordare l’immagine del Cristo deriso realizzata da Giotto (si ipotizza tra il 1304 e il 1305) nella Cappella padovana degli Scrovegni. Tra i tanti insulti da parte dei personaggi presenti sulla scena, Gesù viene offeso (alla sua sinistra) anche mediante la solita mano stretta a pugno con il pollice che fuoriesce tra il dito medio e l’indice, il che permette di interpretare il nostro gestaccio non solo come un atto osceno ma anche, e forse soprattutto, come una vera e propria bestemmia nei confronti della divinità (cfr. Del Popolo 2004)[26].                         Delle fiche molto più “innocue”, ma visivamente efficaci per il nostro discorso, sono quelle disegnate da Giovanni Boccaccio nei margini del manoscritto C 67 sup. (oggi alla Biblioteca Ambrosiana di Milano)[27], per esprimere disappunto nei confronti del poeta latino Marziale, di cui in quel codice aveva copiato gli Epigrammi (cfr. Petoletti 2007, p. 142)[28]. Se dunque risulta chiaro quale sia l’aspetto esteriore del gesto, è però lecito avere dei dubbi che esso abbia a che fare con la forma dell’organo sessuale femminile. Infatti, la voce italiana fica nel senso di ‘vulva’ si affermerà solo tra il sec. XV e il sec. XVI (cfr. GDLI s.v. fica; Berisso 1999, p. 589)[29]. Andrea Mazzucchi (Mazzucchi 2001, pp. 311-315) avanza più convincentemente l’ipotesi che alla base dell’espressione ci sia piuttosto l’accezione di fico (o fica) nel linguaggio veterinario antico nel senso di “tumore più o meno voluminoso […] che si osserva d’ordinario intorno alle aperture naturali del corpo e sugli organi della generazione dei quadrupedi domestici, e più specialmente degli asini e dei muli” (Tommaseo-Bellini s.v. fico). Il gesto del fare le fiche sarebbe quindi l’imitazione, tramite il pollice, delle escrescenze carnose che crescono sui genitali di determinati quadrupedi. Nel caso di Vanni Fucci il discorso è ancora più calzante: il ladro pistoiese, il quale a Inf., XXIV, 124-125, aveva dichiarato che “Vita bestial mi piacque e non umana, / sì come a mul ch’i fui” e dunque si era paragonato proprio a un mulo, a Inf., XXV, 1-3 alza le sue “escrescenze” verso Dio, invitandolo a strappargliele via (“Togli, Dio, ch’a te le squadro!”)».

Sembra che la Spinelli sulla base degli studi di Berisso e Mazzucchi abbia molti dubbi sull’associazione della voce alla vulva femminile propendendo invece per l’accezione propria del linguaggio medico veterinario antico. L’affermazione di Vanni Fucci in effetti sembrerebbe confermare la sfera animale cui atterrebbe la parola. Ma pur rendendo omaggio allo studio documentatissimo della Spinelli, io non sono d’accordo. Nutro anch’io molti dubbi sull’associazione con l’organo genitale femminile ma sono propenso ad associare la voce all’albero di fico.

Maurice Daumas analizza il contenuto della celebre raccolta francese del XV secolo, Cent Nouvelles nouvelles, di Anonimo, ispirata al Decameron di Boccaccio. Si tratta di un libro dallo spirito fortemente salace che si compone di una serie di fabliaux di ispirazione popolare che hanno ad oggetto temi scabrosi o molto piccanti adatti ad un pubblico vasto. Parlando di tutte le oscenità che fanno parte dell’immaginario collettivo capaci di suscitare il riso, intrattenendosi sugli organi sessuali maschili e femminili e relative deformazioni comiche e grottesche, l’autore cita il fabliau n.36 sulla creazione del sesso della donna, Della fica che fu fatta con la vanga: “Dio si servì di una costola per creare la donna: essendo fatta d’osso, sopporta bene le botte, che bisogna somministrarle regolarmente. Ma Dio si era dimenticato dell’organo sessuale. Incaricò per questo il Diavolo, a condizione che egli non aggiungesse né sottraesse nulla a ciò che aveva già fatto. Il Diavolo risolse il problema creando il sesso con un colpo di vanga. Prima di andarsene, sganciò un peto sulla lingua della donna, donde si spiega la tendenza a spettegolare delle figlie di Eva”[30]. A parte l’evidente misoginia del racconto, si può notare l’assurdità di una narrazione fra il surreale ed il nonsense, con uno stile che ebbe molto successo e influenzò soprattutto i novellatori italiani venuti dopo. Successivamente Daumas parla del “bacio anale”, molto frequente nella letteratura faceta; cita, per esempio, la raccolta La friquassée crotestyllonnée, scritta da un membro degli Imbecilli di Rouen, (Jouaust, Parigi, 1878), in cui leit motiv è proprio il bacio anale, che vanta molteplici significati. Baciare il culo è quasi sempre il frutto di un raggiro nelle novelle piccanti, quando un compagnone credendo di baciare il viso di qualcuno invece ne bacia le natiche, beccandosi pure un peto in faccia. L’autore riporta, fra le altre, una sottie, ossia una composizione satirica, in cui uno dei personaggi, a occhi bendati, deve afferrare coi denti una moneta che il compare asserisce di aver posto sul tavolo e in realtà si trova fra le sue chiappe[31]. Da queste come da altre farse si intende che il bacio anale è una specie di insulto o una pesante umiliazione. E a questo proposito, un esempio, continua l’autore, viene dalle Curiosités de l’étymologie francaise di Charles Nisard[32]“dove, alla voce «fare la fica» (faire la nique et faire la figue) si legge: « Il padre Jacob, nelle Aggiunte al Dictionnaire di Ménage, dice che tale espressione deriva dall’italiano far la fica, originata dall’ignominioso castigo che l’Imperatore Federico inflisse ai Milanesi, per avere scacciato dalla loro città l’Imperatrice, in groppa ad una mula con il viso rivolto verso la coda. Federico fece apporre un fico nell’ano della mula ed obbligò alcuni Milanesi ad afferrare in pubblico quel fico per poi rimetterlo al suo posto con i denti, senza aiutarsi con le mani». Il fico…rimanda qui all’antico gesto ingiurioso di origine mediterranea consistente nel serrare il pugno e lasciar spuntare il pollice tra il medio e l’indice: alla stregua del dito d’onore, indica che si sodomizza l’avversario”[33].

Torniamo allo studio della Spinelli

«Sull’espressione fare le fiche in faccia vale quanto detto fin qui. Nonostante le sue prime occorrenze esplicite si rintraccino nel rifacimento toscano cinquecentesco, di Francesco Berni, dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo  (“Voltasi egli, e le fa due fiche in faccia”; “Egli a lei fa per beffe, e strazio, e scorno / e ceffo, e crocchi, e cento fiche in faccia”; cfr. il Vocabolario della Crusca [quarta impressione, 1729-1738] s.v. fica), l’esibizione del gestaccio davanti al viso dell’interlocutore sembra sottintesa già in molte attestazioni antiche del sintagma fare le fiche. Si veda, ad esempio, quella nel Novellino (“Quello donzello li fece la fica quasi in fino a[l]l’occhio, dicendoli villania”), per cui cfr. TLIO s.v. fica»[34].

Si tratta insomma di un’espressione nell’antichità molto popolare e se non bastasse Padre Dante, ad avallarla abbiamo visto che ci sono tanti esempi letterari, da Brunetto Latini nel Tesoretto al Novellino, da Giovanni Villani nella sua Cronaca alle Trecento novelle di Franco Sacchetti. Con la preziosa fonte di Daumas abbiamo verificato inoltre che l’espressione si trova anche nella letteratura francese. Come già detto, questo gesto è ormai uscito dall’uso e oggi il gesto che lo ha sostituito è quello di sollevare il dito medio, con una trasposizione “di genere”, dunque, dall’organo femminile al membro maschile.

Tornando all’etimo di fica, da ficus di cui si legge nella Treccani e non solo, dissente Armado Polito, poiché non viene riportato alcun manoscritto del tardo Medioevo attestante tale voce. “Un minimo di rigore scientifico”, mi scrive Polito, “imporrebbe che si citassero delle fonti a supporto di qualsiasi ipotesi di studio”, e non posso dargli torto. “L’attribuzione di fica al latino tardomedioevale della Treccani suscita, quanto meno, perplessità. Fica non compare, infatti, nei glossari specializzati e, in particolare, in quello del Du Cange[35], nel quale, tuttavia, chiunque l’avesse consultato alla ricerca di ficus, avrebbe trovato citati una caterva di autori a rimpinzare i nomi già ricordati a proposito di ficus come malattia. Se, poi, qualcuno si fosse attardato nei pressi di ficus, si sarebbe imbattuto nel lemma ficarius, dove è riportato un lungo brano di Isidoro di Siviglia in cui ficarii sono i Fauni e i Satiri, divinità boscherecce che si aggiravano tra gli alberi di fico ma erano pure famosi per le loro attenzioni tutt’altro che caste nei riguardi delle Ninfe”.

Ma se abbiamo chiarito o almeno poderosamente documentato il termine fica e l’espressione ingiuriosa che ne deriva, resta un nodo irrisolto. Per quali motivi si giunge all’identità fra la voce salentina fica e la vagina femminile? O dobbiamo considerare l’omofonia del tutto casuale?

Il linguista Antonio Romano[36] mi dice di essere abbastanza sicuro che si tratti di polisemia del termine, quindi non casualità, ma analogia. Armando Polito, interpellato sulla stessa questione, mi scrive: “condivido il parere del prof. Romano e ritengo che l’analogia riguardi la forma, non solo per l’interpretazione dominante data al gesto di cui parla Dante, ma anche, estendendo tale interpretazione, alla posizione del frutto visto col picciolo in posizione anteriore. Aggiungo che la polisemia in questo caso era già presente nel mondo greco, in cui σῦκον (leggi siùcon) designava il fico, l’orzaiolo e la vulva. Siccome un’ipotesi di parentela tra la voce greca e quella latina è da escludere (υ greco avrebbe dovuto dare y in latino e, poi, non conosco nessuna voce in cui σ abbia dato f in latino), resta da sottolineare la coincidenza fra due fantasie …”. Si pone l’accento quindi sulla somiglianza fra il frutto aperto in due facce, simile alle valve della conchiglia, e la vulva.

Comunque, una questione che rimane aperta.

Infine, un altro amico studioso, noto nell’ambiente per la sua disarmante quanto sfacciata spontaneità, dopo avere ascoltato la mia lunga esposizione, informandomi di non avere nulla da aggiungere a quanto detto, mi ha rivolto l’irriverente domanda: “Scusa Paolo, ma perché cazzo ti vai interessando di queste amenità?”. Avrei potuto rispondergli che di tanti modi di sprecare il proprio tempo, questo non è dei più improduttivi. Invece mi sono limitato a scrollare le spalle, confermando così la sua neanche tanto velata critica, con un sorriso sarcastico quanto rassegnato.


[1] In realtà esistono ben cento varietà diverse di fico salentino. Cfr. Antonio Bruno, Biodiversità. Le cento cultivar di fico nel Salento, https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/04/18/biodiversita-le-cento-cultivar-di-fico-del-salento. Dello stesso autore, A proposito di alcune varietà di fico coltivate in provincia di Lecce,  https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/11/a-proposito-di-alcune-varieta-di-fico-coltivate-in-provincia-di-lecce/

[2] Cfr.  Marittima, Festa della fica, in «Qui Salento», Lecce, Guitar edizioni, agosto, annate varie. A Vèzenobrsès esiste anche una Maison de la figue in cui tutto ruota intorno all’ottimo frutto https://www.maisondelafigue.com/la-maison-de-la-figue/

[3] Fichi di Puglia. Storia, paesaggi, cucina, biodiversità e conservazione del fico in Puglia, a cura di Francesco Minonne, Paolo Belloni, Vincenzo De Leonardis, Castiglione d’Otranto, Coop. Ulisside Editore,  2011, passim.

[4] Ibidem.

[5] Il Salento leccese, come scrive Antonio Bruno, è proprio un serbatoio di biodiversità, il cui valore economico ed ecologico è potenzialmente enorme. Antonio Bruno, Biodiversità. Le cento cultivar di fico nel Salento, cit.Sulle diverse varietà di fichi si sofferma anche Armando Polito, I nostri fichi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/03/i-nostri-fichi/

[6] https://www.treccani.it/vocabolario/fica/

[7] Manlio Cortelazzo, L’influsso linguistico greco a Venezia, Bologna, Pàtron, 1970.

[8] Michele Loporcaro, Da dove vengono, cosa significano e come si usano sfiga, sfigato e (che) figo/fico, in Accadema della Crusca on line

[9] Anche sull’etimologia di fico/figo il discorso è ampio ma ci porterebbe ad allargare la nostra trattazione. Rinviamo direttamente alla stessa fonte citata nella nota precedente. Sul tipo umano del “fighetto”, si rinvia a Paolo Vincenti, Il fighetto, in Idem, Italieni, Nardò, Besa Editore, 2017, pp. 190-192.

[10] Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, 25.2.

[11] Per l’opera del vescovo spagnolo vissuto fra VI e VII secolo, si veda: Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, a cura di Angelo Valastro Canale, Testo latino a fronte (2 volumi), Turtleback, Utet, 2014.

[12] Vocabolario Dantesco, fica s. f., a cura di Francesca Spinelli http://www.vocabolariodantesco.it/voce_prn.php?id=1925

[13] Opera del Vocabolario Italiano, Istituto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che “Contiene la raccolta completa dei testi italiani antichi che l’OVI rende accessibili alla consultazione del pubblico. È consultabile per forme (e con la funzione dei lemmi muti)”: http://www.ovi.cnr.it/Interroga-il-Corpus.html

[14] Corpus DiVo, Ultimo aggiornamento: 01.02.2016 – corpus 168 testi. Direttori: C. Burgassi, D. Dotto, E. Guadagnini, G. Vaccaro, Pubblicazione quadrimestrale online – ISSN 2280-6857, che “Contiene i volgarizzamenti medievali italiani di opere classiche e tardoantiche. Il corpus è quasi completamente integrato nel corpus OVI”: http://www.ovi.cnr.it/Interroga-il-Corpus.html

[15] Corpus della poesia lirica italiana delle origini Dagli inizi al 1400, a cura di L. Leonardi e di A. Decaria, P. Larson, G. Marrani, P. Squillacioti, Fondazione Ezio Franceschini, Università degli Studi di Siena: “È un Corpus esaustivo, dalle Origini al 1400, risultato di una collaborazione con la Fondazione Ezio Franceschini e l’Università di Siena. È consultabile per forme (e con la funzione dei lemmi muti).  È in corso la progressiva integrazione nel corpus OVI”: Ibidem.

[16] Testi fior. In prosa del sec. XIII, Istituto Opera del Vocabolario Italiano. Consiglio Nazionale delle Ricerche: Ibidem.

[17] Corpus TLIO per il vocabolario, Istituto Opera del Vocabolario Italiano, corpus 3210 testi – 18 settembre 2023. Direttori: Pär Larson, Elena Artale, Diego Dotto. Pubblicazione quadrimestrale online ISSN 2281-5058.

[18] Fernando Salsano, ad vocem, in Enciclopedia Treccani, 1970 (on line).

[19] Delle varie opere citate diamo almeno un’edizione di riferimento, citata dallo stesso sito: 1) Dante Alighieri, La Commedìa. Nuovo testo critico secondo i più antichi manoscritti fiorentini, a cura di Antonio Lanza, Anzio, De Rubeis, 1995. 2) Commento di Francesco da Buti sopra la «Divina Commedia» di Dante Alighieri, a cura di Crescentino Giannini, 3 voll., Pisa, Nistri, 1858-62, vol. I. 3) Giovanni Dondi dall’Orologio, Rime, a cura di Antonio Daniele, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1990. 4) Franco Sacchetti, Trecentonovelle, a cura di Vincenzo Pernicone, Firenze, Sansoni, 1946. 5) Le rime di Francesco di Vannozzo, a cura di Antonio Medin, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1928. 6) Francesco Stabili (Cecco d’Ascoli), L’Acerba, a cura di Achille Crespi, Ascoli Piceno, Casa Editrice di Giuseppe Cesari, 1927 [testo pp. 125-399]. 7) Per Brunetto Latini: Poemetti allegorico-didattici del secolo XIII, a cura di Luigi Di Benedetto, Bari, Laterza, 1941, pp. 3-87. 8) Le rime di Onesto da Bologna, a cura di Sandro Orlando, Firenze, Sansoni, 1974 [testo pp. 26-90]. 9) Il Fiore e il Detto d’Amore attribuibili a Dante Alighieri, a cura di Gianfranco Contini, Milano, Mondadori, 1984, pp. 2-467. 10) Il Novellino, a cura di Guido Favati, Genova, Bozzi, 1970. 11) Lo Specchio de’ peccati di Fra Domenico Cavalca, a cura di Francesco Del Furia, Firenze, All’insegna di Dante, 1828. 12) Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di Giuseppe Porta, 3 voll. (I. Libri I-VIII; II. Libri IX-XI; III. Libri XII-XIII), Parma, Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda Editore, 1990-1991. 13) Per Marino Ceccoli: Poeti giocosi del tempo di Dante, a cura di Mario Marti, Milano, Rizzoli, 1956, pp. 661-87, 765, 768, 808. 14) Per Ingiurie recanatesi: Giancarlo Breschi, Le Marche, in L’italiano nelle regioni. Testi e documenti, a cura di Francesco Bruni, Torino, UTET, 1994, pp. 471-515 [testo pp. 485-86]. 15) Franco Sacchetti, Le trecento novelle, edizione critica a cura di Michelangelo Zaccarello, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2014. 16) Per Legg. sacre Mgl. XXXVIII.110, XIV sm.: Wilhelm Friedmann, Altitalienische Heiligenlegenden, Dresden, Gesellschaft für romanische Literatur, 1908.

[20] Per un’edizione moderna, Franco Sacchetti, Il Pataffio, Edizione critica a cura di Federico Della Corte, Sala Bolognese, Forni Editore, 2005.

[21] Edizione moderna, Orlando Innamorato,di Francesco Berni, Matteo Maria Boiardo, Nabu Press, 2020. 

[22] Accademia della Crusca, Fica, Voce completa, vol.2 pag.448: http://www.vocabolariodantesco.it/voce_prn.php?id=1925

[23] Francesca Spinelli, Sull’origine dell’espressione fare le fiche, in Accademia della crusca on line https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/sullorigine-dellespressione-fare-le-fiche/26324

[24] Andrea Mazzucchi, Le “fiche” di Vanni Fucci [Inf., XXV 1-3]. Il contributo dell’iconografia a una disputa recente, in «Rivista di studi danteschi», I, 2001, pp. 302-315, cit. in Francesca Spinelli, Sull’origine dell’espressione fare le fiche, cit.

[25]Non possiamo riproporre le immagini perché coperte da copyright ma i lettori potranno ammirarle in rete seguendo la sitografia indicata.

[26] Concetto Del Popolo, In margine alle “fiche” di Vanni Fucci, in «Rivista di studi danteschi», IV, 2004, pp. 367-373, cit. in Francesca Spinelli, Sull’origine dell’espressione fare le fiche, cit.

[27] L’opera si trova a Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, C 67 sup., c. 35v.

[28] Marco Petoletti, “Digitum per modum ficus ostendere”. Da un’antica cronaca: chiosa a Inf., XXV 1-3, in «Rivista di studi danteschi», VII, 2007, pp. 141-145, cit. in Francesca Spinelli, Sull’origine dell’espressione fare le fiche, cit.

[29] Marco Berisso, Gestacci, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXVI, 1999, pp. 583-589, cit. in Ibidem.

[30] Maurice Daumas, Adulteri e cornuti. Storia della sessualità maschile tra Medioevo e Modernità, Bari, Dedalo edizioni,2008, p. 394, nota 8.

[31] Ivi, pp. 395-396.

[32] Charles Nisard Curiosités de l’étymologie francaise  de quelques proverbes et dictons populaires, Hachette, Paris, 1863, cit. in Ivi, p.474.

[33] Maurice Daumas, Adulteri e cornuti, cit., p. 396. Una raccolta di traduzioni di venti fabliaux molto libertini in La voglia dei cazzi e altri fabliaux medievali, a cura di Alessandro Barbiero, Vercelli, Edizioni Effedì, 2020.

[34] Francesca Spinelli, Sull’origine dell’espressione fare le fiche, cit.

[35] C. Du Fresne Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, l. Favre, Niort, 1883-1887, t. III, ad vocem.

[36]Che pure riporta la voce fica, sia con riferimento botanico al frutto, sia figurato all’organo sessuale femminile e ad una bella donna: Antonio Romano, Fica, in Idem, Vocabolario del dialetto di Parabita, Lecce, Edizioni del Grifo, 2009, p. 67.

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