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25 novembre / giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

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di Ada Donno

Ci sono periodi in cui il fenomeno della violenza sulle donne sembra avere un’impennata di recrudescenza: non passa giorno senza apprendere che una donna è stata violentata, picchiata, uccisa. I telegiornali aprono con la notizia di uno stupro o di un femminicidio e per alcune settimane cronisti esperti psicologi religiosi politici s’accalcano sulle pagine dei giornali e nei talk show per commentare il mostruoso fenomeno e per chiedere o proporre rimedi.

Alcuni fanno uno sforzo di riflessione sulla “piaga mondiale”, altri ben noti ne approfittano per la solita squallida strumentalizzazione xenofoba. Ma il fenomeno è talmente esteso da non poter essere riducibile a sacche di arretratezza culturale, ad appartenenze di tipo etnico, economico, o religioso, dicono i rapporti annuali delle Nazioni Unite.

Alcuni anni fa la ricorrenza del 25 novembre arrivò sull’onda delle denunce a valanga che coinvolgevano personaggi in vista del cinema e dello spettacolo. Uno tsunami mediatico, così fu definito, ben presto scaduto nella banalità del pettegolezzo morboso dei talk show, che raggiunse il risultato di coprire col chiasso fastidioso il “grido globale” delle donne.

Di solito, ai brevi periodi di rumore mediatico, segue una lunga immersione nell’indistinta violenza quotidiana che molte donne subiscono in ogni ambito sociale. 

Per emergere dal sommerso e rivelarsi nella sua reale dimensione occorre che sempre più donne rompano il silenzio, dichiarino la propria indisponibilità a subire, elaborino le conseguenze, affrontando un percorso di cambiamento profondo che richiede l’impegno delle diverse componenti della società, dai Centri Antiviolenza alle istituzioni tutte, ma che nasce e si sviluppa principalmente nei luoghi dove si elabora l’autodeterminazione delle donne.

Aiutare l’emersione  

Una quindicina d’anni fa, sull’onda di alcuni fatti di cronaca particolarmente raccapriccianti, nacque spontaneamente un movimento che si dette nome “Uscire dal silenzio”.

Da allora, ogni anno “si fanno i conti”. Secondo i dati ISTAT del 2020-21, sono più di 15 mila le donne in Italia che hanno deciso con coraggio di uscire dalla violenza e iniziare un percorso nei centri antiviolenza. Quasi il 19% di loro ha meno di 30 anni. Oltre la metà ha fra i 30 e i 50 anni e il 70% ha la cittadinanza italiana. Di queste donne purtroppo 9 su 10 sono vittime di minacce, stalking o violenza psicologica, 7 su 10 denunciano violenze fisiche e stupro, 1 su 10 è vittima di violenza economica. Più dell’80% subisce più forme di violenza contemporaneamente.

Secondo i dati della Direzione Centrale di Polizia, dall’inizio dell’anno sono stati registrati almeno 91 i femminicidi. Ciò significa che in Italia viene uccisa 1 donna ogni 3 giorni, che 82 di queste donne sono vittime di familiari, partner o ex partner.

Questi sono i decessi, ma le denunce per violenza al 1522, il numero nazionale antiviolenza e stalking del Dipartimento per le Pari Opportunità, sono state oltre 36,000.  Ma sono solo la punta dell’iceberg. Si stima infatti che in Italia il 12% dei maschi adulti è violento “ogni tanto”, l’8% è violento sempre e che 7 milioni di donne abbiano subito nella vita almeno una forma di violenza.

Anche questi, per quanto terribili, sono dati incompleti, perché non tengono conto di tutto ciò che rimane sommerso, non denunciato, non raccontato.  Per paura o perché tollerato. Solo il 27% delle donne denuncia la violenza che subisce.

Gli strumenti giuridici

Per aiutare l’emersione, le Nazioni Unite con la risoluzione 54/134 del 17 dicembre ’99 hanno designato il 25 novembre Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne. La scelta della data è legata al ricordo del terribile assassinio delle tre sorelle Mirabal, avvenuto durante il feroce regime dominicano di Trujillo nel 1960.

Fu l’approdo di un percorso, non facile, avviato con la Dichiarazione di Vienna del 1993, documento di chiusura della Conferenza Mondiale sui Diritti Umani tenutasi nella capitale austriaca, in cui la “violenza di genere” venne per la prima volta riconosciuta e nominata ufficialmente nella sua specificità.  

«La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia – si diceva finalmente nella Dichiarazione – è una violazione dei diritti umani delle donne, che va combattuta sia in pubblico che in privato. I governi devono assumersi la responsabilità e considerare che l’omissione o la non attuazione delle disposizioni riguardanti la violenza sulle donne sono sottrazioni di responsabilità».

Nel 1994 la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti delle donne, Radikha Coomaraswamy, denunciava che «tolleranza e permissività circondano ovunque gli abusi contro le donne».

Da quei richiami alla responsabilità dei legislatori sono passati quasi trent’anni. Per la legge italiana, solo a partire dal 1996 lo stupro è codificato come reato contro la persona. Prima di allora, era nell’elenco dei reati “contro la morale pubblica”. E avevano voglia le donne a protestare che “Non siamo pezzi di morale!” davanti ai tribunali, dove si celebravano i (pochi) processi per stupro, che finivano col ritorcersi in forma di umilianti e volgari inquisizioni contro le stesse vittime.  

Tuttora le legislazioni di troppi paesi sono carenti di leggi specifiche contro violenti e stupratori. non basta ancora, come si lamenta ancora nel Rapporto 2022 sulla violenza contro le donne e le ragazze, le sue cause e conseguenze, presentato dall’attuale relatrice speciale Reem Alsalem e trasmesso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel luglio scorso, nel quale si esamina inparticolare l’aumento esponenziale dell’esposizione delle donne alla violenza sessuale, alla tratta, al matrimonio precoce e infantile in rapporto alle crisi climatiche, al degrado ambientale, alle migrazioni forzate.

Varie forme di violenza, una sola radice 

Fu nelle Conferenze del Cairo (1994) e di Pechino (1995) che si cominciò a dare le prime cifre globali e a descrivere le diverse aree di violenza contro le donne: violenze compiute all’interno della famiglia, violenza nelle situazioni di guerra, violenza legata alla prostituzione e al traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento (una Convenzione specifica verrà approvata dal Consiglio d’Europa nel 2005), violenza legata a pratiche tradizionali e all’intolleranza religiosa (mutilazioni sessuali, infanticidio femminile,  lapidazione delle adultere e pratiche simili), violenza legata al ruolo riproduttivo delle donne che impedisce alle donne di decidere della propria sessualità e maternità.

Ma è solo la Convenzione di Istanbul approvata dal Consiglio d’Europa nel 2011 il primo strumento giuridicamente vincolante, che stabilisce una serie di norme per combattere la violenza contro le donne ed istituisce una serie di standard legali per garantire che le vittime possano beneficiare ovunque dello stesso livello di protezione (www.coe.int/en/web/istanbul-convention/text-of-the-convention).

Al di là dei punti controversi, che hanno indotto diversi paesi europei a non ratificarla ed altri, come la Polonia e la stessa Turchia che l’aveva ratificata per prima, a ritirare la firma, la Convenzione di Istanbul ha il merito di affermare con nettezza che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione e a fornire ai governi linee guida giuridicamente vincolanti che creino “un quadro giuridico e un approccio globale per combattere la violenza contro le donne”.

Geografia della violenza di genere

Certo, la violenza sulle donne non si manifesta con la stessa intensità ad ogni latitudine e in ogni tempo. Uno studio comparativo condotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a livello internazionale, che ha coinvolto 2 milioni di donne in 161 paesi dal 2000 al 2018, ha dimostrato che l’incidenza dei casi di violenza sulle donne è più alta in Oceania (49%), seguita dall’Africa subsahariana centrale (44%), dai paesi andini (38%), nell’Asia meridionale (35%) e dall’Africa settentrionale e il Medio Oriente (31%). In coda, l’Europa occidentale (20%) e centrale (16%) con l’Asia centrale (18%).

Dietro i numeri, il dramma di una piaga di dimensioni globali che con la pandemia si è allargata ulteriormente.

«La violenza di genere è la forma più disumanizzante e orribile di oppressione – scriveva qualche anno fa Phumzile Mlambo-Ngcuka, executive director di UN Women, l’agenzia delle Nazioni Unite per le donne – e almeno un miliardo di donne e ragazze ne sono state colpite. L’OMS l’ha definita una pandemia di salute pubblica perché i dati su questa violenza sono noti a dentisti, operatori di salute mentale, chirurghi ortopedici, oculisti e a chi fa la conta dei corpi negli obitori. Eppure, non abbiamo visto una risposta proporzionata alla dimensione del problema: un miliardo di persone ferite camminano in mezzo a noi, nelle nostre comunità, nelle nostre case, nelle nostre scuole e nei nostri posti di lavoro, e questo deve cambiare».

Ogni forma di violenza contro le donne – che si tratti di violenza fisica e sessuale, o psicologica e culturale, o domestica e del partner, o economica, o di qualsiasi altra pratica che danneggia le donne, dal rigurgito fondamentalista all’abuso sul luogo di lavoro – va ascritta alla disparità e asimmetria che persiste nei rapporti fra uomini e donne nel pubblico e nel privato. Ogni abuso, sopruso e prepotenza compiuti dalla parte maschile della società contro la parte femminile sono il retaggio di una cultura patriarcale che persiste, ogni forma di violenza è riconducibile ad una radice comune: alla percezione del corpo della donna come cosa violabile.

La parola delle donne

Il 26 novembre prossimo, in tutto il mondo le donne scenderanno ancora una volta nelle strade e prenderanno la parola per gridare, non come vittime ma come protagoniste, la loro rabbia, la loro voglia di autodeterminazione e per affermare l’ineludibilità di una convivenza basata su un’idea condivisa di libertà che ha inizio nell’inviolabilità del corpo delle donne. 

Anche le donne italiane torneranno a ritrovarsi a Roma, dopo la sospensione imposta dalle restrizioni della pandemia, in una grande manifestazione nazionale.

Per dire al governo e alla società tutta che non serve un approccio al problema di tipo emergenziale né securitario. Non serve far passare la violenza come devianza di singoli, o di singoli gruppi, per ricondurla a un mero problema di sicurezza delle città o di ordine pubblico.

Serve invece rompere modelli relazionali ed educativi patriarcali che affondano le radici nell’arcaico diritto patriarcale che codificò l’appartenenza delle donne, insieme con la terra e i mezzi di produzione, agli uomini. Servono politiche mirate a colpire la discriminazione, le sacche di emarginazione e segregazione sociale. Serve rafforzare i centri antiviolenza e accoglienza delle donne che subiscono abusi, serve allargare gli spazi di agibilità democratica per le donne.

Le case delle donne, gli spazi femministi diffusi in ogni territorio del nostro paese – ma non solo nel nostro paese – hanno elaborato una proposta complessiva di “cambiamento di paradigma”, che ha radici antiche ma è stata accelerata dalle recenti strette della pandemia, che hanno chiamato “rivoluzione della cura”.

“Cura” intesa non solo come rimedio alla malattia, ma come differente paradigma relazionale – basato sulla risoluzione pacifica dei conflitti innanzitutto – entro cui declinare i diritti di tutte e tutti. Cura come modo differente di abitare il mondo.

La nuova sfida è vincere l’inerzia a recepire questo necessario salto di paradigma.

ADA DONNO

Vice Presidente La Federazione Democratica Internazionale delle Donne

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