IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Emma e il Cardinale”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello

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simbolo cardinalizio

fonte: wikipedia

Don Sebastiano Navarra non era il tipo collerico e superficiale che tutti in paese credevano di conoscere bene. Solo all’apparenza lo era. Al bar tra gli amici quando si trattavano gli argomenti più comuni, parlando di sport, di politica, di donne, si infiammava come un cerino, nessuno riusciva a tenergli testa. Le idee e le sentenze uscivano dalla sua bocca con parole che sembravano proiettili, capaci di colpire e di annichilire l’avversario. Quando poi lasciava la comitiva, tornandosene a casa, rifletteva, ripensava alle opinioni espresse e il più delle volte finiva col trovarsi in contrasto con se stesso.

Avevano ragione quegli amici che timidamente osavano avanzare pareri contrari? I dubbi se li portava dentro, non gli davano pace. Ma quale poteva essere la verità?

Rimproverava se stesso perché riconosceva di essere sempre rigido nel giudicare, di volere spaccare il capello in quattro, di presumere di possedere il buon senso che, a suo dire, gli suggeriva la verità. Ma, continuando a maltrattarsi, vedeva bene che la sua verità era fredda come il marmo della statua di Sant’Agata. Capiva che quando si ha una certa presunzione, si è portati a dividere a metà tutto: da una parte tutto il bene, dall’altra tutto il male. E il male naturalmente era quello che apparteneva sempre agli altri, ai nemici.

Fin sulla soglia dei settanta anni, don Sebastiano si era sentito travolto come da un’onda di malvagità generata dai suoi antenati, tutti ossessionati dall’ambizione sfrenata di emergere, di tenere il potere nella comunità dove erano nati. Ora però le circostanze, il tempo, i cambiamenti sociali, cominciavano a fargli intuire che tale onda fosse sul punto di essere contenuta da argini robusti.

Prima di rientrare a casa, aveva l’abitudine di percorrere i viali dei giardini della città facendo una piccola deviazione. Gli piaceva passare tra quei viali alberati, lungo i quali poteva ammirare almeno quattro busti di personaggi di casa Navarra, accanto ad altri che si erano distinti nel campo della politica, della cultura e dell’arte. E tra sé diceva che certo era quasi impossibile che un giorno, nemmeno tanto lontano, il comune o altri avrebbero preso l’iniziativa di onorarlo costruendo qualcosa di simile o almeno di dedicargli una targa, una minuscola targa con inciso il suo nome. Il fatto di essere dimenticato, di non

lasciare traccia alcuna sulla terra che l’aveva visto nascere, lo turbava e lo     rattristava più ancora della stessa morte.

Era rassegnato alla morte che vedeva come un evento naturale, proprio di ogni cosa, come la fine dell’esistenza. “Ma è dolce pensare – diceva – che coloro che restano possano coltivare il ricordo del nostro essere stati, anche se questo pensiero altro non è che una illusione, come è illusione tutta la vita”.

Era la sua una filosofia che nessuno mai dei suoi amici gli avrebbe attribuito, segno evidente che in fondo non lo conoscevano affatto. Ciò, anziché procurargli irritazione, gli dava piacere. Infatti era tendenzialmente portato  ad apparire diverso da come realmente era, magari del tutto opposto a quello che pensavano gli amici. In realtà questo stato di cose lo teneva in una sorta di confusione  interiore che faceva di lui un povero uomo, come ciascuno di noi quando ci sforziamo di apparire diversi e migliori degli altri e invece ci dibattiamo entro una rete di mediocrità.

Da qualche tempo si era accorto che le gambe non erano più quelle di una volta, trascinava un po’ i piedi. Il suo passo si era fatto lento, si stancava facilmente e aveva bisogno di fermarsi ogni tanto per riprendere fiato. Scherzando con gli amici paragonava se stesso al bel palazzo dei suoi avi, che già da una ventina di anni prima, era stato costretto ad abbandonare perché fatiscente. Era crollata una gran parte del tetto, per cui i vigili del fuoco si erano affrettati a dichiararlo inagibile. Per don Sebastiano quell’abbandono era stato un sollievo; non poteva più sostenere neanche la più piccola spesa di manutenzione e tanto meno le tasse che negli anni si erano terribilmente accumulate.

Il trasferimento in una piccola abitazione borghese, invece,  fu vissuto con umiliazione dalla moglie, donna Concetta, la quale, pur provenendo da una famiglia di modesti mezzadri che un tempo si occupavano delle terre dei Navarra, era infatti una donna molto orgogliosa e quel rovesciamento della fortuna costituiva per lei un vero evento drammatico. Era nota in paese come la fedelissima. Dicevano le amiche:” Pende dalle labbra del marito. Qualunque cosa faccia o dica il marito, qualunque idea, proposta, suggerimento, esprima il marito, lei, donna Concetta, non osa contraddirlo”.

Era vero. Ma questo accadeva non tanto perché temesse rimproveri o peggio violenza (don Sebastiano non si sarebbe mai azzardato ad alzare le mani verso di lei o a tirarle addosso qualche oggetto, come di solito i mariti erano abituati a fare con le loro mogli nei momenti di ira), quanto semplicemente perché era innamorata del marito; aveva nei suoi confronti un rispetto che sfiorava quasi la venerazione. Per lui, con la sua bella voce, intonava le canzoni che sapeva

gli piacevano, per lui suonava la chitarra tutte le sere: d’inverno accanto al caminetto e nella bella stagione, fuori in giardino sotto le stelle.

Eppure c’era una nota scordata nella sua natura di sposa amorevole. Non appena poteva, pensava a mettere da parte un gruzzoletto secondo la tradizionale saggezza femminile; diceva che poteva essere utile in certi momenti difficili e imprevisti della vita. All’insaputa del marito, faceva la cresta sulla spesa giornaliera, vendeva di nascosto i prodotti della campagna: noci, mandorle, grano, olio, vino. In chiesa chiedeva perdono a Sant’Agata: “Perdonami Sant’Agata, tu sai che non è per me, ma per le necessità della casa, delle bambine, che crescendo in fretta hanno continuamente bisogno di vestiti, scarpe, per comparire dinanzi alla gente, sempre pronta a criticare, a dire male. E poi ci sono le richieste di tante vedove abbandonate e di poveri senza aiuti e senza lavoro”.

Tra i poveri assistiti da donna Concetta c’era un certo Gaspare, un vecchietto curvo, gentile con tutti, anche con coloro che grugnendo si allontanavano o chiudevano la porta di casa non appena lo vedevano avvicinarsi con la bisaccia sulle spalle, dove metteva quel che riceveva dai più generosi. Avanzava a passo lento, sempre sorridente e pronto a dare il suo augurio di buongiorno. Da tempo, Gaspare non aveva più potuto lavorare per via di quel male alla schiena, che lo aveva invecchiato precocemente. Quando bussava alla casa dei Navarra, donna Concetta veniva ad aprirgli, gli porgeva una tazza di latte e con curiosità tutta femminile gli faceva mille domande sulla gente del paese. Poi, soddisfatta, gli dava qualche moneta, del pane fresco, della frutta e spesso un buon pezzo di formaggio. Gaspare ringraziava e prima di allontanarsi diceva sempre: “Donna Concetta, quando mi avvicino a questa casa, già da lontano sento il profumo di cielo del legno della sua porta”. Sorrideva donna Concetta, pensando che forse non era proprio il profumo del cielo, ma quello del pecorino, quel che Gaspare sentiva!

Delle due figlie, Vittoria, la più grande, ebbe il tempo di godere gli spazi enormi del palazzo Navarra, le numerose stanze, i lunghi corridoi, la bellezza del giardino interno dove crescevano alberi profumati di agrumi e siepi di gelsomino. La piccola Emma, invece, lasciando la prestigiosa abitazione si portò dietro l’impressione quasi traumatica di certi mascheroni attaccati alle pareti esterne del palazzo e di mitici  mostruosi animali di pietra che avevano l’ufficio di mensole robuste per i balconi della facciata. Nella nuova dimora, tuttavia, le ragazze ebbero la possibilità di godere di una maggiore intimità. A loro erano state destinate due camere comunicanti, dove potevano dormire, studiare e ricevere qualche amica.

Tra le due ragazze c’era una buona intesa che col tempo andava crescendo via

via che si attenuavano gli effetti della differenza di età di quasi tre anni.

-“ Emma, per favore, vieni fuori dalla tua stanza. Non restare reclusa a rimuginare pensieri tristi. Ti prego, ho bisogno del tuo aiuto, dei tuoi consigli. Quest’anno alla festa di Sant’Agata dobbiamo essere le più belle. Tutti dovranno ammirarci e in particolare chi so io. Spicciati, Emma, apri la porta e guardami”.

Vittoria, a differenza della sorella che amava studiare e progettava di iscriversi all’università, aveva da alcuni anni interrotto gli studi ginnasiali e coltivava interessi più mondani, frequentando amici e amiche che avevano la passione per i concerti di musica rock.

-“ E’ davvero bello! Ma dove l’hai trovato? E’ un abito da cocktail, stampato a fiori che ti illumina il viso!”

-“ Sì, credo proprio che le amiche me lo invidieranno; c’è solo da sistemare l’orlo e portarlo in lavanderia. E’ un abito di zia Agnese, che amava molto essere elegante. Te la ricordi zia Agnese? Ma no, forse tu eri ancora bambina quando si ammalò e in pochi giorni la poverina morì. Nel baule ci sono altri capi. Tu puoi provare un abito chiaro con spalline sottili e una scollatura generosa che esalta le tue forme. Oppure potrebbe andare bene anche una gonna plissettata, abbinata con una camicetta chiara di pizzo”.

-“ Grazie, Vittoria. Sei molto gentile a pensare anche a me. Una camicetta chiara ce l’ho già, quindi mi farebbe piacere utilizzare la gonna plissettata. La proverò domani e se la troverò di mio gusto, la farò vedere alla sarta per una eventuale sistemazione. Ora, però, torno in camera”.

-“ Sì, ho capito, torna alle tue letture e alle tue meditazioni!”

Emma amava la sorella, ma non intendeva rinunciare alla sua intimità. Leggeva, studiava e aveva preso l’abitudine di fare una sorta di esame di coscienza, passando periodicamente in rassegna gli eventi della sua vita: tutto rientrava in questo sguardo interiore. Era per lei come fare il punto della situazione personale e, ricevendone forza e serenità, si disponeva ad affrontare il futuro con maggiore chiarezza. A volte si trovava a dialogare con l’ombra della nonna a cui da bambina aveva voluto tanto bene.

-“ Dimmi, che cosa ti aspetti da me? Ti sono forse in debito di amore, di sorrisi, di follia, di vita? Sei sempre là con gli occhi sbarrati, ricoperti di terra? Hai voluto serbare il tuo immenso desiderio di sognare nel luogo che ti separa dalla primavera, dagli alberi in fiore, dal canto degli uccelli? Ogni giorno che passa perdo il tuo volto, le tue movenze, il fascino della tua voce. Domani anch’io sarò come te!”

Specialmente nelle sere d’inverno preferiva restare nella sua camera a pensare. Pensava ai volti delle persone che un tempo frequentavano la sua casa, umili donne che grondavano povertà, che accettavano dalla madre, donna Concetta, una tazza di tè caldo con fare cerimonioso e non finivano mai di giustificarsi dicendo che si trovavano a passare di là, tornando da un servizio e non potevano esimersi dal salutare la loro amica. Erano tempi duri, difficili; erano giorni in cui non era sempre possibile assicurare il pranzo e la cena per sé e per la propria famiglia.

In cielo una indomabile fetta di luna navigava l’oscurità della notte senza paura alcuna; in lontananza si sentiva il borbottio dei tuoni. Le si stringeva il cuore, avvertiva la grandiosità dello spettacolo della natura, paragonandolo alla miseria della vita umana. La vita le sembrava un giro di ruota, se tutto filava liscio. A volta appena un mezzo giro, se non un quarto di giro o peggio un semplice avvio. “Eppure, diceva, sembra tutto imparziale: imparziale è la luce del sole, imparziale è il vento, imparziale la natura con gli alberi, i fiori, le acque. Qualcuno prende, qualcuno lascia; c’è chi respira, chi sospira, chi ama, chi odia. Che cosa è che fa la differenza? Forse il capriccio degli dei? Oh, sì! Perché non pensare agli dei, ai miti? La mia vita è affidata a divinità mansuete o irose? A corsi d’acqua? A voli di uccelli sacri? A ombrosi alberi che levano come braccia al cielo i loro rami fioriti? Quei volti se ne sono andati, portati via dalla danza della morte, quasi come un gioco cui non ci si può sottrarre, come la luce non può sfuggire all’avanzare della notte. Senza fatica, con fare rassicurante, Artemide spegne e distrugge sotto un cielo blu, spargendo ovunque odori di erbe e di fiori”.

Negli ultimi tempi le accadeva di ricordare spesso un evento dell’anno passato che per lei era stato come una luce, un dolcissimo sorriso che aveva alluvionato la stanza del suo cuore. Si chiamava Lorenzo, il bambino di appena cinque anni, biondo e riccioluto, che una mattina si svegliò con l’idea di raggiungere il padre. Senza dire nulla alle sorelle e sfuggendo al controllo della madre, uscì di casa con una piccola borsa di vimini, dove custodiva i suoi tesori: figurine, matite colorate, palline, disegni e altre cianfrusaglie con cui si divertiva a giocare durante il giorno. Dalla finestra di casa sua vedeva sempre passare il treno e trovò naturale dirigersi verso la stazione, dalla quale qualche settimana prima era partito il padre, convinto com’era che potesse prendere il primo treno che si sarebbe fermato. Camminava già da una decina di minuti, quando donna Concetta, tornando dal fare la spesa, lo notò e avvicinatasi gli domandò con

dolcezza: -“ Dove vai tutto solo bimbo bello? Dov’è la tua mamma? Come ti chiami?”

-“Non vedi, signora, vado alla stazione! Il mio papà mi aspetta a Roma.”

Naturalmente donna Concetta intuì subito come stavano le cose: “Bene, caro, hai bisogno di una buona colazione prima di metterti in viaggio. Vieni, ecco la mia casa, entra.”

In quel momento Emma, che aveva visto tutto dalla finestra della sua camera, si precipitò giù e, vedendo quel bimbo dagli occhi furbi e splendenti, dall’aspetto dolce e sicuro di sé, risoluto e sorridente, fu presa da infinita tenerezza e cominciò a baciarlo e a stringerlo fra le braccia. Sopraggiunse la sorella e anch’ella, sebbene con più ritegno nel manifestare la sua gioia alla vista di un bambino nella loro casa, si adoperò prontamente a mettere sulla tavola: dolci, frutta e fresche bibite, invitando il piccolo a sedersi e a mangiare quel che desiderava. La gioia era tanta che quelle tre donne, ingenuamente, si dimenticarono che sarebbe stato indispensabile cercare subito la famiglia alla quale il bimbo apparteneva, poiché certamente la madre e i parenti erano alla sua ricerca con viva preoccupazione. Accadde così che il bimbo, dopo la colazione, sembrò dimenticarsi del viaggio e della sua borsa e seguì Emma che lo invitava nella sua camera. Emma tirò fuori dal ripostiglio una grande cesta piena di giocattoli. Seduta sul sofà, contemplava quel bimbo sconosciuto, ne studiava i movimenti, seguiva i discorsi che il bimbo faceva a se stesso mentre giocava, ora alzandosi e correndo attorno al tavolo, ora rotolandosi sull’ampio tappeto che copriva una gran parte del pavimento, tenendo abbracciato sul petto un simpatico orsetto di peluche. Ecco, dopo sposata, avrebbe voluto un bimbo come quello! L’istinto della maternità si faceva strada a gran passi. E il suo pensiero volava lontano. Immaginava il momento del concepimento, il mistero della vita, la combinazione degli atomi e le varie tappe dello sviluppo dell’embrione. Come poteva quell’essere così bello che le stava di fronte avere attraversato quelle fasi che avevano la loro origine da una apparente confusione di vivacissimi elementi trafitti da movimenti e sconvolgimenti continui, che si riproponevano di istante in istante in nuove forme sempre più complesse. L’energia interiore che lo spingeva prodigiosamente era la stessa presente nell’universo in forme infinitamente più piccole, identica in tutte le creature, dal feto umano agli uccelli del cielo, ai più diversi animali della terra, fino ai piccoli insetti. Era questo il miracolo cui Emma pensava.

Pensava? Non ne era più sicura. Una specie di sonno improvviso aveva avvolto

la sua coscienza e d’un tratto le sembrava di trovarsi a nuotare in un immenso mare di luce. Tutto era leggerezza e stabilità, tutto era orizzonte e vicinanza. Una dimensione inesistente dello spazio, né sopra né sotto, solo la luce era il tutto che la toccava e la faceva gioire.

Dopo almeno un’ora il suo viaggio fu interrotto dalla voce della sorella:

”Emma svegliati! Hai dormito abbastanza, ricordati che fra poco dobbiamo andare dalla sarta”.

Un po’frastornata, Emma si guardò attorno e non vedendo più il bambino, domandò: ”Dov’è andato il piccolo Lorenzo?”

-“E’ passata per strada una signora disperata, bussando a tutte le porte e chiedendo del suo bambino. Quando ha saputo che stava qui con noi, prima ha tirato un sospiro di sollievo e ha ringraziato il cielo e subito dopo si è scagliata contro la mamma, rimproverandola aspramente. Dopo aver preso il bambino, è uscita sbattendo la porta senza nemmeno salutare. Mamma non ha replicato e mi ha detto che in realtà noi abbiamo sbagliato ad accogliere il bambino e a trattenerlo in casa, senza preoccuparci di passare parola ai vicini e di informare le guardie”.

Si infranse così quel giorno, sulla porta di casa Navarra, il sogno di libertà di Lorenzo; il mondo pieno di lusinghe era là, appena oltre, pronto ad aspettare nuove fughe!

La sarta, in poche ore con un modesto compenso, sistemò in modo perfetto, sia l’abito di Vittoria, sia la gonna di Emma.

La festa di Sant’Agata si annunciava prestigiosa. A leggere il programma si restava particolarmente soddisfatti: processione, spari, luminarie, concerti musicali con la partecipazione di famosi divi della musica leggera. Don Sebastiano era membro autorevole del comitato organizzatore della festa e presidente della confraternita di Sant’Agata. Godeva perciò di grande rispettabilità, anche in ricordo della appartenenza alla stirpe dei Navarra. A lui ricorrevano molte persone per raccomandare cambiamenti nell’itinerario della processione lungo le strade cittadine e per accogliere nella confraternita giovani rampolli, che altrimenti non avrebbero avuto alcuna possibilità di farne parte, sia per  la quasi totale freddezza di fede, sia per il comportamento non certo esemplare della maggior parte di loro.

Era passata da poco la banda musicale che aveva riempito di allegre note le vie del paese, quando un certo Turi, uomo di fiducia di alcune famiglie benestanti, si avvicinò a don Sebastiano: “Buongiorno compare, se avete un minuto di tempo vi devo parlare”!

Don Sebastiano conosceva Turi come uno di poche parole, per cui restò

alquanto sorpreso e sospettoso. Ma, nascondendo il disagio che provava, con un sorriso di circostanza disse:” Buongiorno Turi, ti ascolto volentieri, parla pure. Che cosa hai da dirmi?”

“In paese si dice che le vostre due belle figliole sono in età da marito. Don Vito Carnemolla e don Saro Buscema ti fanno sapere che Bartolo e Totò, i rispettivi valenti giovanotti, non aspettano altro che averle per spose. I miei signori si aspettano una vostra risposta e sperano che non sia negativa come quella di non averli accolti nella confraternita”.

“Ma, Sant’Agata mia! A questo punto ancora siamo? Una volta si combinavano i matrimoni, ma ora sono i giovani che si scelgono liberamente! Che vuoi che ti dica? Spenderò qualche parola in favore dei vostri protetti, ma non sperate più di tanto”.

Don Sebastiano si accompagnò con il primo conoscente che passava di là e si allontanò in fretta. Quell’incontro non solo gli aveva rubato il buonumore e l’allegria per la bella festa, ma anche l’appetito. Durante la cena le figlie e la moglie si accorsero facilmente che qualcosa di spiacevole gli era capitata. Dopo tanta insistenza, finalmente don Sebastiano sbottò contro quelle due famiglie venute su dal nulla, che avevano costruito il loro benessere attuale con la violenza e con le intimidazioni.

“Ho fiducia in voi due, si affrettò a dire don Sebastiano, e non solo vi invito a portarmi a casa i vostri innamorati, ma anche a farlo al più presto”.

Donna Concetta, che già da un pezzo si era avvelenata il sangue a indovinare in quale guaio fosse incappato il marito, sentita la storia, approvò senza alcuna riserva il suggerimento di don Sebastiano. A quel punto la conversazione divenne piuttosto piacevole e allegra. Vittoria e Emma ne approfittarono per decantare i meriti dei giovani che frequentavano, ma alla fine si capì che Emma aveva un legame particolare con Rosario, che faceva l’infermiere, il quale le aveva promesso di continuare gli studi per diventare medico. Vittoria con gioia confessò di amare Salvatore, che dimostrava di possedere ottime qualità per farsi strada in politica. Entrambe presero a raccontare come avessero suscitata l’invidia delle loro amiche, perché avevano attirata l’attenzione dei giovani con i loro splendidi vestiti e con il loro fascino. Non avevano finito di cenare, quando cominciarono i fuochi d’artificio in onore di Sant’Agata. Le amiche erano già in strada e fecero segno di scendere per unirsi a loro. Don Sebastiano e donna Concetta si accontentarono di restare a guardare dalla finestra, come tanti altri non più giovani che stavano nei palazzi attorno. Il concerto musicale li aspettava in piazza, ma soprattutto Rosario e Salvatore, i quali non si staccarono un momento dai loro fianchi per tutta la serata.

Quel ritmo di vita serena e allegra non era destinato a durare a lungo. Nel corso di pochi mesi le due sorelle furono colpite dal grave lutto per la morte dei genitori. Prima se ne andò don Sebastiano, poi donna Concetta, che non si era mai messa a letto per malattia. Una perniciosa influenza ebbe la meglio e la stroncò in una decina di giorni.

Emma e Vittoria dovettero in breve tempo rivedere tutta l’organizzazione della loro casa e vivere con parsimonia, utilizzando i pochi risparmi lasciati da don Sebastiano.

Ancora l’anno seguente un nuovo terribile colpo del destino. Rosario, l’infermiere, che si era arruolato volontario ed era stato destinato in Kosovo, morì dopo un bombardamento. Poi la sorella Vittoria fu ricoverata in ospedale per un male che presto si rivelò incurabile. I farmaci e l’affetto di Emma, che tutti i giorni per oltre due mesi l’assistette prima in ospedale e poi a casa, non bastarono. Morì la vigilia di natale e lasciò un immenso vuoto nel cuore della sorella.

Nei mesi seguenti Emma maturò l’idea di farsi suora e dopo qualche mese fu accolta nel convento delle suore di San Vincenzo. Quella vita dedicata al Signore l’aiutò a superare il dolore per quei lutti così gravi e ravvicinati e ritrovò il suo equilibrio interiore con la preghiera  e con le opere di carità verso il prossimo.

Erano trascorsi circa sei mesi dalla ammissione al noviziato, quando una mattina fu chiamata dalla Madre Superiora, che le fece un lungo discorso e alla fine le affidò un incarico di grande responsabilità, che avrebbe messo in rilievo la sua fedeltà all’Ordine religioso scelto e la capacità di azione educativa. Avrebbe dovuto compiere una missione in un paese del Sud America della durata di circa due mesi e sarebbe stata accompagnata da suor Clara, una suora saggia ed esperta.

Ubbidendo alla decisione della Madre Superiora, Emma e suor Clara un freddo mattino di febbraio si imbarcarono sul volo Roma-Buenos Aires. Era la prima volta che Emma viaggiava in aereo. Superata la paura dei primi momenti, Emma rivolse la sua attenzione a tutti quei viaggiatori che come lei si trovavano ad affrontare un viaggio così lungo. In ciascun volto intuiva l’immanenza di un destino, di una sorte diversa e simile alla sua. Non mancava di leggere in molti di loro dignità, coraggio, allegria, anche se era consapevole che dopo tutto ciascuno si portava dentro la propria pena di esistere, le proprie forze consunte da privazioni, dalla indifferenza degli altri, dagli odi.

Dopo il lungo viaggio da Roma a Buenos Aires, Emma e suor Clara si

imbarcarono su un aereo delle linee interne sudamericane. Emma era molto stanca e quasi subito si abbandonò al sonno. Suor Clara, invece, preferì chiacchierare con la signora che le sedeva accanto, la quale pazientemente rispondeva alle domande del figlio, un bambino di circa sette anni, cui raccomandava continuamente di stare seduto per non infastidire i passeggeri.

Un signore con una lunga barba bianca sedeva vicino a Emma. La guardava impaziente, di tanto in tanto si toglieva gli occhiali e chiudeva il libro che stava leggendo. Vedendo che Emma continuava a tenere gli occhi chiusi, riprendeva la sua lettura. Quando finalmente Emma si svegliò, tutto premuroso le disse se avesse bisogno di bere. In tal caso avrebbe fatto segno all’assistente di volo di intervenire. Ma Emma, sorridendo, rispose che per il momento non era necessario. Era, invece, curiosa di sapere qualcosa di quell’uomo che aveva tutta l’apparenza di una persona colta.

“ Sono il prof. Nardi, insegno antropologia all’università di Lima. Il mio lavoro mi porta continuamente in giro per il mondo a conoscere gente diversa, ma con aspirazioni, desideri, sentimenti, simili ai nostri. Io credo che questa continua scoperta che crea empatia tra noi e gli altri, debba essere sempre il risultato positivo di un viaggio. Purtroppo, però, non tutti sono concordi nel riconoscere questa finalità. Spero di non annoiarla! Vorrei aggiungere che il viaggio deve essere per ciascuno una sorta di ascesi, un modo intelligente per farci uscire dalle nostre sicurezze e da uno stato di sedentarietà che ci fa vedere che le cose, il mondo e le persone che ci circondano, debbano restare sempre le stesse, sempre uguali, senza mutazione alcuna. E invece tutto scorre, come dice il filosofo: il ferro si arrugginisce, il vetro si frantuma, la casa va in rovina, le persone invecchiano, si ammalano, muoiono. Il viaggio ci fa avvertire tutto questo, dopo una lunga o breve assenza, dopo che il cencio della nostra anima ha sventolato assieme a quello di tante persone mai conosciute, dopo che il nostro bagaglio ha misteriosamente conversato con quello povero o ricco di tanti viaggiatori. Il punto centrale è, dunque, reverenda suora, che il viaggio deve essere fatto con intelligenza, sempre meravigliandoci delle situazioni nuove in cui veniamo a trovarci, mettendo da parte i tanti pregiudizi che ci accompagnano, ma al tempo stesso tenendo a freno quel particolare inganno che sta dietro il nostro entusiasmo, inganno che in fondo vale come un pregiudizio, se non peggio. Infatti, quando decidiamo di metterci in viaggio, quando ci trasformiamo da cittadini sedentari a pellegrini, muoviamo sempre dall’idea che l’altro cielo, l’altra erba, l’altro luogo, sia una sorta di paradiso che può guarirci dalla nostra ipocondria, dai nostri sentimenti negativi, dai nostri malesseri esistenziali. Così non è, perché non tardiamo ad accorgerci che

se il male è dentro di noi, ce lo portiamo appresso anche se cambiamo latitudine o comunque orizzonte. In tal caso a una iniziale dolcezza ingannevole può subentrare una pienezza insopportabile, che ci conferma una idea della vita contrassegnata dalla solitudine e dalla sofferenza. E questo è assurdo e sbagliato. Andiamo con i nostri viaggi a cercare gli altri per una condivisione dell’idea di Bellezza, di Amore, di Cultura, di Umanità, convinti tuttavia che questo non ci distoglierà dal cogliere le sofferenze, le ingiustizie sociali, il dolore dei nostri simili. A ogni passo noi abbiamo il desiderio di sognare: sogniamo il nostro futuro, sogniamo gioie e piaceri, sogniamo ogni tipo di benessere, ma ci dimentichiamo che questo nostro desiderio è anch’esso un sogno, un supremo sogno che in fondo è l’unico capace di tenere a bada la realtà, di farcela vedere così com’è, anche se poi restiamo insoddisfatti perché intuiamo che le cose hanno sempre una faccia nascosta come la luna. Così vorremmo farci razzo che orbiti attorno ad essa per poterla ammirare in tutta la sua rotondità. E di nuovo dunque è il sogno che rientra nella nostra vita”.

-“ Grazie per queste riflessioni, professor Nardi. Sono idee davvero condivisibili. Ma se permette, io aggiungerei che nel corso dei nostri viaggi, noi abbiamo anche la possibilità di  sentire negli altri quell’imponderabile che è il divino sempre presente nell’essere umano, presente perfino in quegli individui che chiamiamo malvagi”.

-“ Molto bene, reverenda suora. D’altra parte da una persona credente come lei non avrei potuto sentire di meglio”.

La loro conversazione fu interrotta all’improvviso da un grido soffocato e dal pianto sommesso di una signora seduta un paio di file più avanti. I passeggeri, allarmati e incuriositi, si scambiavano occhiate tra loro e guardavano quella donna con compassione. Qualcuno fece segno di guardare dal finestrino. L’aria era limpida, l’aereo volava leggero; sotto, a poca distanza, scorreva una immensa catena di montagne in gran parte innevate. Era la cordigliera delle Ande che in quel punto fa da confine tra Argentina e Cile, prima di raggiungere Santiago. Quella donna, come spiegò poi l’assistente di volo ai passeggeri più vicini al prof. Nardi e a Emma, era una passeggera che tutti gli anni, in ricordo del terribile disastro aereo del 13 ottobre 1972 in cui aveva perso la vita il giovane figlio, prendeva il volo Buenos Aires-Santiago, che appunto faceva pressappoco la stessa rotta dell’aereo della tragedia, partito da Montevideo e diretto all’aeroporto Benitez di Santiago.

Il professor Nardi, rievocando l’intera vicenda, puntualizzò il terribile dilemma morale vissuto dai sedici superstiti che rimasero esposti al freddo e alla fame per oltre due mesi, prima di essere finalmente soccorsi.

-“ E’ probabile che il pianto di questa povera donna, disse il professore,  sia in relazione con l’orribile pensiero che il figlio sia stato tra quei cadaveri che i sopravvissuti furono costretti a mangiare”.

Una espressione di acuto dolore attraversò il volto di Emma e a lungo lo tenne coperto con le mani.

-“ Il tema del cannibalismo, continuò il professore, fu ovviamente oggetto di dibattiti infiniti sulla stampa e fu affrontato da studiosi di diversa estrazione, da politici, da giuristi, da sociologi, da filosofi e teologi. Forse la risposta più convincente venne da uno dei superstiti, che aveva contribuito a persuadere il gruppo ad accettare la decisione di nutrirsi con la carne umana. Egli disse: I cristiani per la salvezza dell’anima non mangiano il corpo e il sangue di Gesù? E noi perché per la salvezza fisica non possiamo  mangiare la carne dei fratelli? Lei, reverenda madre, che ne pensa?”

-“ Per parte mia non mi sento di giudicare. Ma è chiaro che quelle povere persone si sono trovate dinanzi a un problema morale di estrema complessità. Credo che se ancora sono in vita non potranno liberarsi dal terribile rimorso, se non affidandosi alla divina Provvidenza: solo così potranno attenuare la pena per quel comportamento assolutamente in contrasto con ogni sentimento di umanità”.

-“ Bene, madre! Ma se non sono indiscreto vorrei ora conoscere la meta di questo vostro lungo viaggio. Ho visto  all’aeroporto di Buenos Aires che eravate tra i passeggeri provenienti dal volo di Roma”.

-“ Sì, ma veniamo da più lontano, da un paese della Sicilia. La nostra Madre Superiora ci ha affidato una missione che dovrebbe avere la durata di circa due mesi. Questa sera a Santiago raggiungeremo la Nunziatura Apostolica e consegneremo una lettera al Nunzio, il quale ci illustrerà i dettagli della missione. Sappiamo soltanto che dobbiamo raggiungere un villaggio, dove operano alcune nostre consorelle”.

Qualche ora dopo, Emma e suor Clara erano presso la sede dell’Arcidiocesi di Santiago in Plaza de Armas. Subito dopo entrarono nel palazzo della Nunziatura, accolti dal Nunzio  mons. C. B, al quale consegnarono la lettera sigillata del vescovo. Il Nunzio, vecchio e fidato amico del vescovo, era già a conoscenza di alcuni fatti che il prelato gli illustrava nella lettera, perché nella sua ultima visita  a Roma, aveva avuto con lui un incontro riservato. La lettera si chiudeva con una disposizione alquanto grave: “Pertanto ti prego e ti sollecito di portare a termine la missione che S.E. il Cardinale P.M., nostro benefattore, ci ha affidato. Suor Emma e suor Clara, che sono incaricate di consegnarti questa lettera, non hanno alcun sospetto. Il tuo compito sarà

quello di fare in modo che non tornino più in Italia o almeno finché Sua Eminenza sarà in vita. Mi parlavi di una comunità che vive segregata in una zona impervia delle Ande. Potrebbe essere quella  la soluzione migliore, anche perché ho fatto credere loro che è prezioso il sostegno che possono offrire alla piccola comunità di suore che vivono là… “

Da molto tempo si favoleggiava di una comunità dalla perfetta organizzazione che viveva in un luogo segreto ai margini della foresta, lontano non solo parecchie decine di chilometri dalla città più popolosa, Santiago, ma anche dagli altri centri minori. Si diceva che uomini venuti dall’Europa, avevano ottenuto il permesso di stabilirsi in quel territorio e, dopo averlo delimitato e protetto, erano entrati in buoni rapporti con gli indigeni, ai quali avevano insegnato l’arte della coltivazione della terra, alcune tecniche fondamentali dell’artigianato e provveduto a un minimo di istruzione per i più piccoli. L’aiuto di tre suore a questo scopo fu molto apprezzato, come pure la disponibilità per una assistenza sanitaria a cura di un medico.

Durante il viaggio da Santiago al villaggio, Emma e suor Clara erano rimaste molto sorprese dall’atteggiamento militaresco della loro guida. L’uomo era armato e per nulla disponibile al colloquio. Inutilmente le due suore facevano domande sui luoghi che attraversavano, sull’ora di arrivo, sulla gente ospitata nel villaggio. Quello rispondeva a monosillabi e si dimostrava infastidito dalle domande. Al villaggio furono accolte da un militare che le accompagnò fino a una piccola chiesa, sul retro della quale sorgeva un lungo edificio a un piano.

Prima ancora di fare conoscenza con le suore del villaggio, che erano state avvertite dal loro arrivo, Emma aveva trovato molto diversi quei luoghi da come se li era immaginati, soprattutto molto strane le persone incontrate fino a quel momento e così poco gaio il villaggio in cui ora si trovavano. Una folla di sgradevoli sensazioni, di emozioni intrise di paura, si erano progressivamente insinuate fino a impadronirsi del tutto dei suoi pensieri.

-“ Benvenute tra noi, sorelle. Questo per noi è un giorno di gioia, disse la suora che le accolse con sincera cordialità”.

E subito, accompagnandole nei locali a loro riservati, aggiunse: “Domani avremo modo di parlare a lungo. Ora è bene che vi riposiate!”

Il giorno dopo era domenica. Già sin dalle prime luci del mattino, Emma e suor Clara furono svegliate dal vocio, dai passi di numerose persone, dalle grida di fanciulli che si rincorrevano nell’ampio spazio sotto la finestra della loro camera. Seppero più tardi che tutta quella gente andava alla messa di don Diego. Questi era tra le poche persone autorizzate ad entrare nel villaggio la domenica per celebrare la messa. La prima, alle sei del mattino, era riservata

agli indigeni, la seconda a mezzogiorno per le autorità e per le altre poche persone che godevano di una certa libertà di movimento.

In un paio di ore di conversazione, le tre suore del luogo spiegarono alle nuove arrivate quale era l’organizzazione di quel villaggio. La più anziana, Madre Frida, era quella che sembrava avere più autorità e conoscenza della storia della comunità.

-“Quando giunsi in questo luogo, cominciò Madre Frida, restai colpita dallo spettacolo della natura. Le montagne altissime e innevate mi toglievano il respiro. Nella grande vallata, ai loro piedi, erano sparse casette di fango e di pietra o semplicemente di paglia e di rami. Il freddo intensissimo illividiva volti e mani. La gente soffriva il freddo e la fame. Da un’arte antica gli indigeni hanno appreso a nutrirsi di patate che per le necessità immediate le donne fanno cuocere con il fuoco di sterco di alpaca e, per la conservazione, le lasciano per alcune notti a congelare all’aperto, fino alla eliminazione di tutta l’acqua. All’occorrenza quella poltiglia disidratata viene fatta cuocere al sole e poi consumata. Questo metodo primitivo di liofilizzazione ha garantito per lungo tempo la loro sopravvivenza. Il mio compito era quello dell’istruzione dei piccoli. In Europa avevo condiviso con entusiasmo le idee della Montessori e, arrivando qui, ho cercato sin dall’inizio di fare acquisire una forte carica di autostima a ciascuno di quei bambini, che gli indigeni mi  affidano con fiducia. Ho cercato di far capire che il buon Dio ha dato a ciascuno delle capacità. Inizio sempre con il rivolgere una domanda: Tu che cosa sai fare? La risposta, anche quella più semplice, mi dà la possibilità di incoraggiare e di valorizzare la persona. Altro momento fondamentale è quello di aiutarli ad apprezzare la collaborazione e la solidarietà in un clima generale di rispetto verso tutti. Purtroppo questo clima, accolto favorevolmente dalla gente, è stato soffocato da alcuni gravi avvenimenti che hanno completamente ridotto a un lager il villaggio”.

-“Come è potuto accadere? Perché?”, disse Emma, chiaramente spaventata.

-“ Un freddo mattino tra la nebbia, proseguì Madre Frida, vedemmo salire, lungo lo stretto sentiero che dalla valle si inerpica fino al villaggio, una schiera di indigeni che tenevano per le briglie muli carichi di bagagli, seguiti da una decina di uomini a cavallo. Furono costoro che in poco tempo divennero i padroni del villaggio e impressero una impronta autoritaria. Nessuno poteva sfuggire al loro controllo, nessuno poteva ignorare quanto loro ordinavano. In breve il nostro villaggio divenne una sorta di fortilizio, da cui nessuno poteva uscire o entrare senza uno speciale permesso. Il peggio arrivò di lì a poco. Il loro capo, un uomo alto e biondo sulla sessantina ma ancora energico e

robusto, si rivelò un vero e proprio dittatore e schiavista. Obbligò tutti i maschi adulti della comunità ad abbandonare la coltivazione della terra e a scavare i fianchi brulli della montagna a qualche centinaio di metri più in alto del luogo dove sorgeva il villaggio. Per giorni e giorni, dal mattino all’ultima luce del giorno, lavoravano al freddo e con scarso cibo, finché un pomeriggio uno dei custodi, esaminando il terriccio che veniva accumulato, ebbe negli occhi un lampo di soddisfazione e corse al villaggio a portare la notizia al suo capo. Era stato trovato l’oro, tanto agognato. Quella vita, così difficile e disumana, dura ormai da molti anni. Sappiamo che l’oro ricavato dalle rocce di questi monti va a finire nelle mani di gente senza scrupoli, che si servono del denaro per l’acquisto di armi e di droga. C’è l’obbligo di non fare alcun cenno a questo infame mercato e guai a non rispettarlo. Tante persone del villaggio sono scomparse o sono state uccise sul posto soltanto per avere acceso il sospetto di conoscere qualcosa sui capi che hanno in mano il traffico. Per farti capire di quali atrocità siano capaci questi uomini, ti accenno alla terribile sorte che toccò al nostro vecchio sacerdote, prima che arrivasse don Diego. Era ormai  del tutto cieco. Per questa ragione spesso accadeva che i più facinorosi, anche dinanzi a lui, parlassero liberamente e organizzassero i loro affari, sicuri di non essere riconosciuti. Uno di loro, però, una sera passando dinanzi alla sua baracca si accorse che il sacerdote si muoveva al buio, tenendo in mano una piccola torcia elettrica. Credettero di essere stati ingannati. La mattina, con il volto coperto da un cappuccio, due di loro lo andarono a prendere e lo portarono alla piazzetta del villaggio. Ordinarono alla gente di assistere al supplizio al quale condannarono il povero prete: crocifisso come Gesù. Il vecchio era innocente. Lui era veramente cieco, ma non riusciva a muoversi al buio senza accendere la luce, come se ancora avesse la vista. A lui accadeva in fondo la stessa cosa che succede a colui che ha perso un braccio e, muovendosi, proietta il suo arto fantasma verso gli oggetti che lo circondano. Ma questo quegli assassini non potevano saperlo!”

Emma ascoltava e piangeva:” Ma perché tanta violenza? Perché tanto egoismo e attaccamento al potere e al denaro?”

Di storie tristi come quella Emma ebbe l’ingrato privilegio di apprenderne molte altre. E ciò che le procurò una maggiore sofferenza fu quando simili terribili eventi accaddero sotto i suoi occhi. Un giovane indio, una sera, al termine di una pesante giornata di scavo, venne a lungo frustato e poi abbandonato in mezzo al fango, perché aveva trattenuto una pepita d’oro, nascondendola in bocca. Per due ore i vigilanti su ordine dei superiori avevano

proibito a chiunque di avvicinarsi per soccorrerlo. Soltanto verso la mezzanotte le suore, disperando di trovarlo ancora in vita, poterono avvicinarsi e curare le profonde ferite, ma fu tutto inutile. Per oltre due mesi restò in coma, senza mai riprendere conoscenza e con le ferite ormai diventate piaghe che gli ricoprivano tutto il corpo. In quei giorni venne alla capanna, dove giaceva il giovane, un uomo dall’aspetto molto diverso da quello dei vigilanti, il quale si fermò a parlare con Emma.

-“Perché lo fate soffrire così tanto? Quando il dolore penetra nella carne e scorre nelle vene non si può essere indifferenti. Se nulla è possibile, se non c’è alcuna prospettiva di guarigione, perché continuare a far gravare il peso di un mondo insostenibile di dolore? Perché non spezzare il sottile e fragile filo filato dalla Parca? Perché rassegnarsi ai suoi capricci? Perché fare arrestare il cuore a suo piacimento? Perché prolungare il respiro di chi vuole morire, di chi vede se stesso fermo sull’orlo del baratro, spoglia inutile, fredda e vuota, parvenza di esistenza? Ho sentito che lo vuole il signore di Roma, di bianco vestito. Ma io dico che non è giusto: non giova alla dignità cui l’uomo non può rinunciare mai”.

-“ Noi non siamo padroni della nostra vita, lo interruppe Emma, e gli altri non possono scegliere al nostro posto quando si è in condizioni tali da non poter decidere. E’ questo che ci insegna la nostra religione!”

Non appena quell’uomo se ne fu andato, Madre Frida, vedendo Emma molto turbata, la consolò dicendo che il Pontefice non potrà mai consentire che si compiano atti contrari alla salvaguardia della vita umana. E poi era prudente non prendere alla lettera i discorsi di quell’uomo, aggiungendo che si trattava di una figura piuttosto equivoca, di cui non ci si poteva fidare completamente, anche se più volte si era dichiarato pentito.

-“ Pentito di che?, si affrettò a dire Emma.

Fu così che Emma venne a conoscenza di un passato nemmeno tanto lontano. Costui non era altri che il figlio di un gerarca nazista che come tanti suoi compatrioti erano venuti in Cile per sfuggire alla cattura. Aveva diretto, con la stessa ferocia di un tempo in Germania, quella piccola comunità fino alla scoperta dell’oro. Ma subito dopo, la morte lo aveva colto nel pieno dell’esercizio del suo potere dispotico e violento. Il figlio fu aggregato ai pochi altri che avevano ereditato il potere. Senonché un moto di rimorso lo aiutò a liberarsi di un pesante fardello di responsabilità morali e, pentendosi, aveva rifiutato ogni coinvolgimento nella squadra di comando, limitandosi a compiti di supporto organizzativo e manifestando la sua opposizione ai metodi violenti. -“ Ora i suoi amici, disse Madre Frida, lo sopportano malvolentieri, ma non si sa fino a quando”.

La sera quando Emma, dopo la consueta preghiera si preparava al sonno, constatava con tristezza come ogni evento, grave o meno grave che si verificava nella piccola comunità del villaggio sbrecciasse il suo tempo, insinuandosi e dilagando a piacimento nella pianura del suo animo. Un nodo alla gola la afferrava pensando che i due mesi di durata della missione fossero già scaduti da un pezzo. E un dubbio si faceva strada nella sua mente. Madre Frida aveva più volte riferito che nessuno poteva allontanarsi senza permesso dal villaggio. Chi lo aveva fatto, aveva subito punizioni esemplari. Ma chi doveva concedere il permesso? A chi poteva chiederlo? Forse al Nunzio Apostolico al quale si era presentata al momento del suo arrivo a Santiago? O forse meglio direttamente all’arcivescovo. Ma come fare?

Emma aveva notato che ogni lunedì mattina una squadra di una decina di operai si recava a valle per caricare merci, per lo più generi alimentari e materiali sanitari. Pensava di poter affidare a uno di loro, previo un adeguato compenso, il rischioso servizio, un messaggio per l’arcivescovo. I delatori però non mancavano e quando si scoprì l’intenzione di Emma, si pensò di assegnarle un vigilante con l’obbligo di riferire su ogni suo movimento, mentre il giovane operaio che si era dichiarato disponibile fu rinchiuso in una lurida cella e nessuno più lo vide libero.

Naturalmente in tutta questa storia, suor Frida non era rimasta indifferente. Ora non poteva più tergiversare con Emma. Sin dal suo arrivo si era domandata più volte perché l’avessero destinata a un luogo così sperduto. Suor Frida poté sciogliere i suoi dubbi qualche tempo dopo, quando il Nunzio la informò di tutto, incaricandola di sorvegliarla. C’era di mezzo in quella faccenda la volontà di una personalità della Chiesa, nientemeno che un Cardinale del Vaticano. Suor Frida doveva continuare la sua normale attività e non rivelare nulla a Emma. La situazione ora era però mutata. Dinanzi allo stato di prostrazione in cui era caduta Emma, lei non poteva continuare a mantenere il silenzio come le era stato imposto. Andò a trovarla nella sua cameretta, dove restava per quasi tutto il giorno, partecipando solo alla messa del mattino e alla mensa.

-“ Ora capisco, finalmente, disse a Madre Frida piangendo, è stato lui, il Cardinale M.P. che, temendo le mie rivelazioni, ha voluto eliminarmi.”

-“ Spiegati meglio, benedetta figliola, quale testimonianza, quale segreto?”

-“ E’ una vecchia e triste storia, cominciò Emma tra le lacrime. All’epoca in cui risalgono i fatti, il Cardinale era un giovane vescovo, che veniva spesso nel mio paese per le consuete visite pastorali alle parrocchie. Era molto apprezzato per il suo fervore e per la sua capacità oratoria non comune. I parrocchiani,

anziani e giovani, ascoltavano volentieri le sue omelie, mentre in altre occasioni capitava spesso che gli uomini uscissero fuori dalla chiesa durante la predica del loro parroco per rientrare al termine della stessa. Per la festa della patrona, Sant’Agata, Sua Eccellenza non mancava mai. Un folto stuolo di chierichetti era sempre intorno a lui, in sagrestia mentre si procedeva alla sua vestizione con i paramenti sacri, in chiesa durante la messa solenne, in processione e infine dopo la festa di nuovo in sagrestia e nei locali parrocchiali. Per tutti aveva un sorriso, una parola gentile, una carezza, un incoraggiamento, un piccolo dono religioso. Non avevo dimenticato il piccolo Lorenzo e lui non si era dimenticato di quel giorno quando voleva partire tutto solo e quando lo trattenemmo nella mia casa. Per questo, superate le inevitabili incomprensioni con i suoi genitori a seguito del nostro imprudente comportamento, seguivo affettuosamente la sua crescita e i suoi studi. A dieci anni frequentava assiduamente la chiesa e amava fare il chierichetto. Si distingueva tra gli altri chierichetti per il suo aspetto attraente, gli occhi vivaci, i capelli biondi e la carnagione delicata. Il vescovo lo voleva sempre al suo fianco durante le cerimonie religiose e approfittava di ogni occasione per abbracciarlo, per tenerlo vicino, anche quando il parroco lo conduceva con sé per recarsi nella sede vescovile. Sotto quell’abito talare non c’era dubbio che ci fosse della carne e che purtroppo bruciasse. La gioia e la follia del vivere lo inducevano a dimenticare in certi momenti la fedeltà alla Chiesa, sua sposa. Ciò nonostante, dopo quella lunga stagione di passione che segnò la vita del ragazzo, il vescovo, chiamato a ricoprire una importante carica ecclesiastica nella curia romana, ottenne notevoli riconoscimenti fino al cappello cardinalizio. Era trascorsa qualche settimana dal giorno in cui ero stata accolta come novizia nel convento di T. delle suore di San Vincenzo, quando una mattina dopo la messa fui avvertita che un giovane chiamato Lorenzo chiedeva un colloquio. Fu in quella circostanza e nel ricordo di un antico affetto che Lorenzo, tra mille titubanze e riserve mi aprì il suo cuore, mettendomi al corrente di quel peccato della sua vita, quando il vescovo aveva approfittato della sua innocenza. Mi confessò tutta la sua disperazione, l’incapacità a vincere l’ossessione di pensieri negativi che ritornavano di continuo e che gli impedivano di avere stima di sé, fiducia in se stesso. Uno stato di sconforto, di vergogna, di ripugnanza, lo invadeva tutte le volte che  provava a costruire sogni per il suo futuro. Se ne andò salutandomi con tenerezza e raccomandandomi di non rivelare a nessuno il segreto che mi aveva confidato, perché non ne aveva mai parlato ad alcuno, nemmeno alla sua famiglia. Compresi che quell’ombra che si portava dentro si era succhiata tutta la sua vita ed ebbi paura per lui. Non mi

sbagliavo. Dopo appena due giorni, si diffuse l’orribile notizia di un giovane ragazzo che si era suicidato, gettandosi da un cavalcavia. Pur dall’alto della carica che ricopriva, il Cardinale era rimasto molto legato alla nostra terra, dove amava trascorrere ogni anno almeno una settimana di vacanza, circondato dall’amore e dalla stima dei suoi vecchi parrocchiani. Fu in uno di quei soggiorni che il Cardinale apprese la notizia della triste vicenda del giovane Lorenzo. In quella occasione qualcuno si preoccupò di precisare che due giorni prima della morte, il giovane aveva voluto incontrare in convento Emma, nella cui casa da bambino era stato accolto, dopo essere sfuggito all’attenzione della madre. Grazie a quel duraturo legame affettuoso, si diceva che il giovane avesse confidato a lei quel grave turbamento interiore che tutti leggevano sul suo volto, senza mai che nessuno riuscisse a capire la ragione. Si disse che il Cardinale fosse rimasto impassibile e che la calma illuminasse di sinistra luce la sua impietrita fronte, tanto che nessuno notò smarrimento o tremito”.

Emma pronunciò le ultime parole scoppiando in un pianto dirotto. Madre Frida aveva ascoltato allibita e quasi incredula quella storia. Ma non c’era alcun motivo per non credere alla giovane novizia. La confortò e la esortò ad abbandonarsi alla volontà del Signore.

Tornando a casa, il Cardinale aggrottava le sopracciglia dinanzi allo specchio appeso al muro del piccolo ingresso. Diceva a se stesso che veramente della memoria non si butta nulla: tutto ritorna. Avrebbe voluto dimenticare e si sforzava di pensare agli impegni importanti che lo attendevano al suo ritorno a Roma e a come li avrebbe assolti. Ma una immagine si insinuava prepotentemente: un insetto, una cetonia gigante dalla corazza verde brillante triturava con  le sue enormi branche il suo avvenire. Ognuno di noi, ripeteva a se stesso, ha bisogno di salire verso una vetta che è il progetto di vita, vuole sfruttare tutto ciò che gli serve, utilizzandolo per il proprio fine. Ho pregato il mio Dio per avere le forze del corpo, la volontà, l’impegno e la determinazione; nello stesso tempo il richiamo della carne, le passioni, i sentimenti, mi forzavano verso altra strada. Ogni sentiero, tuttavia, ogni panorama, mi spingeva sempre più in alto. La carità? Una parentesi appena avvertita! Solo se non era di intralcio. Nulla doveva impedire il cammino.

Il Cardinale continuava nel suo colloquio interiore. Traspariva dal suo viso, dalla sua postura innaturale, il disagio interiore che lo opprimeva, gli impediva di guardare le cose attorno a lui con serenità. La luce che penetrava dalla finestra gli feriva gli occhi, i rumori della strada ora li sentiva vicini e fastidiosi, ora lontani, estranei come se in quel momento vivesse in una sfera inaccessibile. Avrebbe voluto chiedere a quel mistero che gli torceva il cuore

di chiudere per sempre quel respiro, come si stringe un rubinetto dell’acqua. Il suo dialogo interiore testimoniava la sua inquietudine. Gli venne in mente d’improvviso la passeggiata di quel pomeriggio. Il sole sopra gli ulivi e i carrubi se ne andava lentamente dietro la collina verdeggiante. Un raggio obliquo illuminava una pietra del lungo muro a secco, che chiudeva tutto attorno il convento dei frati. Che malinconia scendeva nel suo animo! Avrebbe voluto che vi si specchiasse il cielo con quelle nuvole striate di rosso, ma la pietra era solo pietra, nient’altro che pietra, fredda e indifferente. Tutto si copriva di erbale silenzio e di sera. Gli uccelli volteggiavano nel cielo, stridendo e poi si allontanavano, puntando verso un orizzonte a loro ben noto. Il Cardinale, ormai settantenne, avvertiva il peso degli anni e aveva accorciato la sua passeggiata. Si fermava fino a un bivio, dove c’era l’edicola della Vergine. Si inchinava leggermente, diceva un’Ave, un Pater e Gloria, e tornava indietro, mentre prima continuava il cammino sul sentiero in salita fino alla cima della collina da dove guardava il panorama della città. Pensava che forse quella era la sua ultima vacanza in quel luogo che tanto amava.

Così andava e veniva il suo pensiero come l’onda del mare. Il suo rimorso lo spingeva fino all’orlo di un abisso. Poi chiudendo gli occhi per un attimo, trascurando il pensiero di un progetto che gli era stato vivamente raccomandato, li riapriva e vedeva le pareti della stanza tappezzate di prime pagine di quotidiani, dove  il suo nome e la sua immagine erano accanto alla foto del giovane che aveva posto fine alla sua vita così tragicamente.

Ora i suoi pensieri si facevano più cupi. “Annega nel dolore la mia mente sfinita, le mie rughe sono sentieri scavati da presenze terribili che da sempre mi perseguitano e  impediscono al mio spirito di scorgere sempre l’invisibile nel visibile, come vorrebbe la mia fede sincera. Ridicola anima mia non potrai mai più risorgere. Che cosa sarà di te? Quel po’ di bene che hai fatto sparirà nella fossa maleodorante dove coagula il tuo passato. Confessa la tua colpa prima che il sasso appena rotolato non si aggiunga ad altri e diventi una frana. Una piaga si allarga, fa altre piaghe. Attento, tutta la tua anima va in cancrena. Il demone che dentro alimenta il tuo inferno progetta altro terribile male. Non è più tempo di incertezze, né di inutile pianto. Trova la via giusta per la tua redenzione, espia la tua colpa, disperdi l’orgoglio, accetta la vergogna del tuo peccato e il giusto rancore di chi credeva in te e lo hai tradito. Fin qui hai amato troppo il tuo teatro: gente di ogni età tocca i tuoi paramenti, bacia il tuo anello e tu, distribuendo distratte benedizioni, hai pensieri di terreni piaceri. Nessun desiderio di imitare i santi uomini di chiesa che giacciono sotto il marmo che calpesti ogni giorno mentre ti rechi all’altare”.

Sentì il bisogno di uscire sull’altana; aveva le gote arrossate e gli occhi infiammati. Impose a se stesso che era necessario non farsi prendere dal panico. La sera portava un fresco venticello che gli fece riacquistare la padronanza di sé e cessare quella voce di duro rimprovero che lo aveva così a lungo lacerato. Pensò che fosse meglio rimandare il tempo per fare i conti con la propria coscienza.

Tranquillizzato, poté accelerare i preparativi per il suo rientro in Vaticano, dove si sentiva forte e protetto. Là, nessuno avrebbe osato dubitare della sua dirittura morale, della sua inattaccabile autorevolezza e della sia dignità di pastore e principe della Chiesa.

Un mattino, tra le decine di lettere che riceveva ogni giorno, scorse con sorpresa una busta intestata che portava il timbro di T. del convento delle suore di San Vincenzo. Un vago presentimento spiacevole lo afferrò. L’aprì in fretta e lesse. La Madre Superiora del convento pregava Sua Eminenza di ricevere la novizia Emma, perché diceva di voler riferire delle notizie urgenti e gravi che, se conosciute da persone estranee, avrebbero causato danni irreparabili. E la lettera si chiudeva con queste parole: “Sua Eminenza vorrà perdonarmi se non faccio nemmeno un cenno su tali notizie; ciò per la semplice ragione che  mi sono completamente ignote, perché la novizia non ne fa parola con alcuno. Nell’invocare la Sua benedizione e sperando in una graditissima visita di Sua Eminenza nel nostro convento, porgo i miei deferenti saluti. Suor Maria…”

Il Cardinale, dopo aver riflettuto a lungo e intuito il motivo di quella richiesta, decise di tenere una linea di condotta quanto più serena possibile e comunicò il giorno e l’ora del ricevimento.

Da parte sua Emma pensò di comportarsi con molta prudenza e rispetto, anche perché in realtà non c’era alcuna prova concreta della colpevolezza dell’alto prelato. Una suora anziana la accolse e la introdusse in un grande salone illuminato da tre ampie finestre, dalle quali si poteva ammirare la cupola di Michelangelo.

Ora Emma venne assalita dall’ansia e dalla soggezione. Era venuta in quella dimora per incontrare una persona che lei conosceva da quando era bambina, come parroco della chiesa che frequentava  tutte le domeniche con la sorella e con i suoi genitori. Quel parroco l’aveva battezzata e l’aveva istruita nel catechismo, ma ora rappresentava un’alta autorità della Chiesa. Si guardava attorno, un dubbio si insinuava… Perché aveva preso quella decisione? Perché non aveva dimenticato quanto Lorenzo le aveva confessato? E se tutto fosse stato frutto del suo stato di adolescente frustrato nei suoi sogni?

Ma proprio in quel momento il Cardinale fece il suo ingresso nel salone. Emma che era abituata a vederlo con splendidi paramenti e con il pastorale che gli conferivano una sacra dignità degna del suo ufficio, ora le appariva come un comune sacerdote con un semplice vestito nero. L’unico segno di distinzione era il bel collare con un grande crocifisso che gli scendeva sul petto. Alto, accuratamente pettinato, con un viso ben curato, con poche rughe, nonostante l’età avanzata, il Cardinale si avvicinò a Emma, che nel frattempo si era alzata e rispettosamente si inchinava e baciava l’anello al porporato che le porgeva la mano.

Con un sorriso il Cardinale la liberò dal suo imbarazzo e volendola mettere a suo agio disse: “Ecco la nostra giovane suora che vuole incontrare il Cardinale per riferirgli cose urgenti e gravi. Ma prima, cara figliola, vorrei sentire qualche notizia sulla tua famiglia e su di te. Conoscevo bene i tuoi genitori e se non ricordo male, avevi anche una sorella più grande. E’ così o la memoria mi inganna?”

-“ Eminenza, rispose emozionata Emma, sì, era proprio così la mia famiglia, ma ora i miei genitori sono morti e mia sorella li ha seguiti dopo una terribile malattia. Tutto è diventato gravemente oscuro dopo la sua morte. Trascorsi un periodo di grande sofferenza, di indicibile solitudine, finché mi rifugiai nella fede, in quella fede genuina della primavera della vita. Leggevo il libri del vecchio testamento. A volte non riuscivo ad accettare l’idea di un Dio severo e giustiziere. Mi salvò a poco a poco la parola del Vangelo, dove scoprii un Dio di amore e di misericordia. Così ho fatto la mia scelta di entrare in convento.

Ma all’inizio del mio noviziato ho ricevuto la visita di quel giovane che si è suicidato e mi ha raccontato tutto, riguardo al comportamento che lei tenne con lui in quegli anni lontani quando era felice di fare il chierichetto. Quel racconto e quel suicidio mi hanno sconvolto la vita. Era un giovane che avevo conosciuto sin da bambino”.

Il Cardinale si alzò, fece un sospiro come volesse liberarsi dalla tensione interiore che si era accumulata durante l’ascolto della confidenza di Emma, si avvicinò alla finestra e, indicando la cupola di San Pietro, la invitò a guardare: “ Ecco, guarda l’immenso capolavoro di Michelangelo. Anche quel genio ebbe a soffrire, come tutti, maldicenze che gli procurarono dispiaceri  e sofferenze. Pensa a quanti avanzarono malignità sul rapporto di amicizia con Vittoria Colonna. Un amore spirituale scambiato per amore carnale. E’ quasi sempre il destino di chi ha raggiunto una notorietà, un successo. I malevoli sono sempre pronti alle calunnie, a voler distruggere per invidia, per odio, per pura cattiveria. E allora piovono da tutte le parti giudizi severi, invenzioni che

accrescono ancora di più le prime rivelazioni, processi, condanne. La maggior parte delle volte, la giustizia umana per fortuna si conclude con assoluzioni. Ma il danno è fatto ormai; nessuno potrà ridare al personaggio mitragliato, bersagliato, la stima, la credibilità, l’autorevolezza di un tempo. Per questo, io dico sempre: Sia fatta la volontà di Dio! La sofferenza non può mai essere esclusa dalla nostra vita. Dunque, ora cara figliola, poiché ho intuito il motivo della tua visita, la cosa migliore che tu possa fare è quella di chiudere in un cassetto, e non aprirlo mai più, quanto hai appreso dal racconto di quel povero giovane che così tragicamente ha voluto porre fine alla sua vita. Pregare per lui ogni giorno, questo sì, lo possiamo e lo dobbiamo fare, affinché la misericordia del Signore perdoni quelle costruzioni così infamanti che la sua fantasia malata gli dettò. Io l’ho già perdonato, fai lo stesso anche tu che come ho sentito dalla tua storia lo conoscevi da bambino e perciò nutrivi per lui una tenerezza materna. Promettimi solamente di non parlare con nessuno di questa triste vicenda”.

Il Cardinale alzò il braccio per tirare un cordone che pendeva a lato della tenda della finestra e poco dopo apparve l’anziana suora con un vassoio in mano. Emma che fino a quel momento aveva ascoltato le parole del Cardinale con la testa china, assentiva e mormorava. “Sì, ha ragione Eminenza, farò come ha detto lei”!

-“Bene, disse il Cardinale. Ora, un buon tè e qualche biscotto ci aiuteranno  a tenere lontano i pensieri tristi”.

E il Cardinale, rincuorato dall’atteggiamento remissivo di Emma, poté sfoggiare il suo buonumore e ottimismo con qualche storiella allegra che gli era capitata nel corso delle sue visite pastorali nei piccoli centri, dove non è difficile imbattersi in persone semplici e spiritose. Il colloquio, infine, ebbe termine con la promessa del Cardinale di visitare il convento di T. e di presenziare alle annuali cerimonie in onore di Sant’Agata.

Uscendo dall’ampio ed elegante portone del palazzo, Emma si accorse che sul marciapiedi accanto stazionavano due mendicanti: una donna con un neonato in braccio e un vecchietto curvo e cadente. Emma prese dal suo borsello due monete, una la lasciò cadere dentro il cappello dell’uomo e diede l’altra alla donna.

-“Grazie, sorella, disse la donna, per fortuna ci sono ancora persone generose come lei. Qui non è un posto facile per chiedere l’elemosina, anche se questi palazzi intorno ospitano ricchi monsignori e prelati”.

Emma fu colpita da quelle parole: “Ma qui abita anche un cardinale, disse

Emma,  anche lui non fa la carità?”

-“Io non so se è cardinale, ma so di sicuro che chi esce da quel portone di solito non ci guarda neppure”.

Emma restò turbata. Non poteva immaginare come un uomo di chiesa, un cardinale, potesse ignorare i mendicanti sotto la sua casa. Ma per cacciare quel pensiero, che si aggiungeva ad altri che la assalivano per alcune contraddizioni notate nel comportamento del Cardinale, pensò che forse preferiva orientare la sua carità verso forme più efficaci e produttive di bene per il prossimo.

Il Cardinale, intanto, passeggiava su e giù per tutta la lunghezza del salone, come era sua abitudine quando intendeva concentrarsi su un problema di grande importanza. E quello che la presenza di Emma gli aveva procurato, certamente lo era. Più rifletteva e più si convinceva che l’aspirante suora fosse astuta e non ingenua come avrebbe voluto apparire. -”Perché  aveva voluto quell’incontro? Che cosa intendeva ottenere? Pensava forse di ricattarmi? Nonostante la promessa di non parlarne con nessuno e la mia dichiarazione di innocenza, sono sicuro che non mi ha creduto e prima o poi confiderà ad altri quanto gli ha spifferato il giovane. E allora che cosa ne sarà di me? Non posso permettere che una donna insignificante mi distrugga, azzeri la mia dignità e credibilità presso il pontefice e il sacro collegio. So che ciò che intendo architettare mi procurerà in futuro rimorsi, ma non vedo altra strada. Scriverò oggi stesso al mio amico fidato e gli suggerirò come trattare la delicata questione”.

La cupola di Michelangelo nuotava nell’aria limpida e dorata  del tramonto. Il Cardinale dietro i vetri della finestra, fermando per un istante la sua passeggiata nel salone e contemplando quello spettacolo, fu preso da una vivissima commozione: “Quanto resterà di ciò che vedi e fai? Tutto è ancora possibile, ma rinasce la tua vecchia anima che nulla vuole sapere della ferita che si lascia dietro. Hai agguantato tutti i piaceri che la vita ti ha offerto, non ti accorgi che sei stato uno spazio vuoto dove il vento ha spezzato tutto, non è rimasto che il tuo orgoglio, la tua fede arrugginita, la tua cultura d’accatto, la tua pietà teorica”.

Tornava a sentire quelle che lui chiamava le “due voci”: una che gli rinfacciava ciò che di vergognosamente negativo esprimeva la sua personalità; l’altra che lo invitava a soddisfare al meglio le sue passioni, i suoi desideri. Pensava con orrore all’età in cui avrebbe avvertito l’atroce assenza di desideri. Provava  dentro di sé un ondulio di incerte idee, di propositi, di convincimenti, che ora lo sospingevano verso la quiete, l’ordine, la fede; ora lo sprofondavano nella

melma dei suoi peccati. La vertigine dello spirito e dei sensi nel trasgredire la legge morale si impadroniva di lui e vedeva chiaramente come ascetismo e edonismo potessero convivere e essere interscambiabili. In quel momento i suoi occhi si posarono sui ciclamini del davanzale, attorno ai quali si svolgeva una danza di zanzare. Si assicurò che i vetri della finestra fossero ben chiusi ed esclamò: “Quale demenza fin qui la mia vita!” Un’orgia di pensieri mistificati da rimorsi incancellabili lo accompagnò per tutta la sera; il suo passato stanco e vacuo non intendeva riposare.

Finalmente sentì prevalere una delle due voci che lo invitava a volgere le spalle al rigore morale, ai principi fondamentali di umanità e a salvarsi dalla condanna sociale. Prese la carta con lo stemma da lui scelto nel giorno della sua nomina a Cardinale e scrisse al suo amico fidato.

La sera, a letto prima di addormentarsi, una delle due voci ancora continuava ad ammonirlo: “Fragili e radi ormai sono i tuoi capelli sul capo, bianchi alle tempie e ti ostini a non uscire dal sogno per esistere veramente. Bada che un uragano si avvicina alla tua vita! Puoi ancora fermarlo”. Ma lui si girò sull’altro lato, del tutto infastidito e gli sembrò di udire chiaramente l’altra voce che insisteva sulla levità del suo peccato, anzi della sua inesistenza, convogliando pensieri e immagini alla sua coscienza che legittimava quanto gli veniva ora rimproverato. Ricordava il suo viaggio a Parigi, quando era soltanto un semplice prete, la sua visita al Louvre e come fosse rimasto affascinato dal volto di Antinoo, dalle perfette linee a virgola che componevano la meravigliosa chioma dell’adolescente bitinio, dalla curva del mento, dalle labbra carnose e sensuali: uno splendido marmo bianco che la villa di Adriano a Tivoli aveva restituito dopo molti secoli. E dinanzi a quel ritratto, il giovane prete si era fermato a lungo. Invidiava quell’epoca in cui Adriano aveva potuto liberamente manifestare un amore, ora ritenuto colpevole. La voce incalzava e gli ricordava altri infiniti simili casi nel mondo classico, per non parlare dei vangeli apocrifi che accennavano a un tenero amore di Gesù per Giovanni. La stessa decisione del Cardinale di volersi liberare dalla presenza pericolosa di Emma, in fondo non era nemmeno da ritenersi una colpa. Era sufficiente richiamare alla memoria il secondo libro di Samuele, dove si parla del re Davide che, dopo aver sedotto Betsabea, scrive una lettera e la affida a Uria, il marito della donna, con l’ordine di partire per la guerra e consegnarla al comandante. In quella lettera Davide ordinava al generale di esporre Uria nel punto dove ferveva di più la mischia affinché rimanesse ucciso.

Erano già passati oltre cinque anni da quando Emma era partita dalla sua città

con l’inganno per raggiungere quel luogo sperduto sulle Ande. Giorno dopo giorno la vita era diventata sempre più dura, più difficile; il freddo, la fame, la solitudine, le malattie, avevano decimato le persone più deboli: i bambini, le donne, gli operai sottoposti a sforzi disumani. Suor Clara era stata la prima, tra le suore, a morire. Si spense al tramonto di un giorno d’inverno, dopo una lunga agonia, assistita dalle consorelle e, nelle ultime ore di vita anche da Emma che eccezionalmente aveva ottenuto un permesso speciale. Ma le sofferenze più gravi per i vivi rimasti si preparavano lontano, come un temporale che dietro i monti, non visto, accumula la sua potenza distruttrice. A Santiago la gente era stanca di patire soprusi e disparità sociali. Ad ogni aumento del costo della vita, coglieva l’occasione per rivoltarsi contro il governo che calpestava i diritti dei cittadini. Si arrivò alle barricate e infine alla cacciata di un governo tenuto in piedi solo con la forza e il terrore della prigione e delle torture. L’aria di libertà, di rinnovamento, giunse fino al villaggio sperduto sulle montagne. Una mattina gli elicotteri del nuovo governo entrarono in azione bombardando e mitragliando ovunque, perché si diceva che la resistenza dei militari che difendevano il villaggio sarebbe stata accanita. Ma non fu così. Quando il dittatore del campo ebbe sentore che la situazione stava per precipitare ordinò ai suoi di distruggere le strutture, di caricare quanto poteva essere trasportato, l’oro e le armi, e di minare i sentieri. Prima del fuoco degli elicotteri, furono proprio le mine che fecero il maggior numero di vittime tra gli indigeni. Da quell’inferno Emma uscì miracolosamente viva con l’aiuto di Madre Frida e del giovane che fino ad allora era rimasto chiuso in una cella.

Già da qualche tempo in Vaticano spirava una nuova aria. La stampa si era impadronita di notizie riguardanti il passato niente affatto esemplare del Cardinale M. P.

In quei giorni il Cardinale non si faceva vedere da nessuno, chiuso nel suo appartamento. Si aggirava nelle ampie e luminose stanze, tappezzate di quadri, dalle alte librerie cariche di libri, alcuni dei quali avevano il dorso intarsiato in oro. Nella sua mente agitata fluivano pensieri disordinati che balzavano da un tema all’altro, quasi come nei sogni, dove i personaggi e i fatti si accavallano senza un ordine, senza una impronta di razionalità. Quando però richiamava alla mente la sua cultura essenzialmente classica, la furia del vento cessava, la tempesta si calmava e dentro di sé trovava la ragione per assolversi. Non era in fondo diverso da tutti quegli uomini colti dell’antica Grecia che avevano sperimentato i piaceri della vita e conosciuto la tristezza, l’amarezza del vivere quotidiano. Nessun poeta o filosofo o saggio, pur godendo dei doni dell’esistenza, ha rinunciato a tormentare il proprio animo pensando alla

brevità della vita, alla sua vanità, al rapido declino fisico, al dolore, a tutto ciò che rende l’esistenza profondamente malinconica. E’ vero che le risposte  a questo stato di cose erano molteplici, per cui vi era chi consigliava di restare impassibili anche di fronte agli eventi più spiacevoli, chi riteneva che la saggezza consistesse nel contemplare idee mistiche, chi negava tutto. Dinanzi a tale confusione il Cardinale intendeva restare a metà strada tra tutte quelle opinioni. Una sola cosa ora in quel momento era certa: il processo con tutte le conseguenze dolorose immaginabili. Ed era questo che gli mostrava il mondo assolutamente nero, senza illusioni. La natura, la fede, Dio, nessuno poteva aiutarlo. Affrontò il processo quando tutti ormai lo ritenevano colpevole.

Dal carcere il Cardinale aveva confessato la storia delle due suore che erano partite per il Cile con lo stratagemma da lui ideato e non erano più rientrate in Italia. Le indagini avviate dal Vaticano portarono in breve tempo alla sostituzione del Nunzio Apostolico e alla richiesta di informazioni sulle due suore italiane. La vicenda, come poi si seppe anche per l’interessamento dell’ambasciata italiana, si chiarì nel pieno della rivolta della popolazione cilena e del cambio del governo. Emma restò in un luogo protetto finché tornò la calma nel paese e subito dopo poté rientrare in Italia.

Seguirono mesi di studio, al termine dei quali Emma finalmente pronunciò i voti e fu accolta nel convento delle suore di San Vincenzo con il nome di Suor Speranza.

In convento Emma trascorreva le giornate in preghiera, in letture e meditazione e in attività di cucito. Spesso con altre suore si recava presso le abitazioni di gente povera per portare piccoli aiuti di cibo e vestiario e per visite agli ammalati. Una sera la Madre Superiora la chiamò nel suo ufficio:

-“Suor Speranza, mi dispiace richiamare alla tua memoria un periodo difficile della tua vita, ma sono costretta a farlo dalle circostanze. E per questo ti chiedo di perdonarmi. Avrai certo saputo che il Cardinale M.P., uscito dal carcere, è stato accolto nel convento dei Padri francescani di R. e che da tempo è molto malato. Il priore del convento mi ha telefonato dicendomi che al Cardinale ormai non resta molto da vivere e che spesso negli ultimi giorni ha chiesto di volerti incontrare per chiederti di perdonarlo. Abbiamo dunque concordato che sarebbe un’opera di carità se da parte tua ci fosse la disponibilità ad incontrarlo. Che ne pensi?”

-“Madre, io non gli porto alcun rancore per ciò che ha fatto e per le sofferenze che per causa sua ho patito. Se il Signore lo ha perdonato, non vedo come non possa farlo io. Ho conosciuto il dolore e l’amarezza dell’abbandono e della solitudine. Voglio quindi portarmi al suo capezzale perché sappia che nel mio

animo c’è solo la gioia per il suo ravvedimento”.

La Madre Superiora lodò suor Speranza  e diede disposizione perché una suora la accompagnasse al convento francescano.

Il Cardinale, invecchiato e sofferente, stava seduto su una poltrona avvolto quasi completamente da una coperta che gli lasciava fuori soltanto la testa. Udì bussare alla porta.

-“Eminenza, mi scusi, è arrivata la suora del convento di San Vincenzo di T.

Il Cardinale si sollevò un po’ e  fece un cenno con la mano.

-“Eccomi, Emma cara figliola. Continuo a chiamarti Emma, anche se mi dicono che hai scelto il nome di Speranza. Ti ringrazio per aver accettato il mio invito. Quanti anni sono passati!…”

-“Eminenza, sono io che debbo ringraziarla per questo incontro. Venendo qui, mi sono ricordata che proprio oggi nel nostro paese si festeggia Sant’Agata, a cui lei è stato sempre devoto e non mancava mai ogni anno. Era una grande e bella festa, ma ora non so; anch’io manco da molto tempo”.

-“Emma, non ricordarmi più quei lontani giorni, non parlarmi di chi ero, ma solo di chi sono ora, un povero essere, un miserabile peccatore che ha appena il coraggio e la forza di chiederti perdono. Non valgo nulla, non merito nessun ricordo, desidero essere dimenticato. Non lascio nulla se non lieve traccia simile a quella che lasciarono, un giorno quando ero fanciullo, le zampe di un cane che nel mio giardino passarono sopra il cemento fresco di una gettata.  Un segno trascurabile, un’orma rappresa nel dolore della vita che fugge”.

Il Cardinale parlava lentamente, visibilmente affaticato, spesso interrotto da colpi di tosse. Poi come parlando a se stesso e guardando la parete di fronte a lui, continuò, ricordando che spesso nella sua vita aveva cercato la sera, le zone nascoste, il buio e che aveva agito come le talpe che cercano di sprofondare sotto terra, lontano dagli occhi degli uomini che invece amano guardare il cielo azzurro e le stelle.

Si interruppe. Una crisi di tosse prolungata e stizzosa lo lasciò sfinito, quasi senza fiato.

Emma, spaventata, corse alla porta e chiamò il frate che passeggiava lungo il corridoio.

Dopo un po’, il Cardinale aprì gli occhi e riprese a parlare con un tono di voce flebile: “Che uomo sono stato? Che uomo sono? Mi sembra di essere stato un uomo doppio: l’uomo di chiesa, il teologo, lo studioso, l’oratore, il brillante predicatore di esercizi spirituali e al tempo stesso lo spregevole uomo di mondo che gira le spalle alla morale, che si invischia nei piaceri della tavola, nella

attrazione della carne. Ora, malato e vicino alla morte, mi sento finalmente unico, liberato da quella seconda voce che mi piegava al nulla; ora che il mio corpo è logorato come uno straccio, vedo con chiarezza l’unica strada del  bene e della eternità. Sento il mio essere svuotato di ogni male, di ogni piacere che fu. Quel che ancora resta di sano del mio povero corpo sono l’udito e la mente, sebbene capisca che il primo stia per cedere perché sento rumori strani: grida lontane, squittii, cigolii, lievi sospiri, che mi assalgono tutti i momenti. La seconda, la mente, mi appare completamente svuotata di quelle forze che un tempo erano capaci di costruire prospettive e sogni di futuro.”

Ora il Cardinale respirava a fatica.

-“ Emma, cara figliola, continuò dopo una lunga pausa, ora posso finalmente dirlo con sincerità: non so veramente nulla… credo di essere stato come ti ho detto e come mi sento di essere ora su questo letto di morte…ma non ne sono sicuro… Non mi resta che interrogare la mia anima silenziosa, impaziente di liberarsi di me…Sento che solo lei sta per rivelarmi la Verità…Vieni notte, ormai tu sola luce del mio spirito!…”

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