IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Il gabellotto di Sicilia”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello

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Gabellotti siciliani (fonte: studenti.it)

Gabellotti siciliani (fonte: studenti.it)

Una decina di uomini, tra infermieri e carabinieri, si aggiravano tra i tanti cadaveri sparsi qua e là, dietro le rocce, sotto un folto carrubo e accanto a un boschetto di fichidindia. Raccoglievano le armi, si chinavano per frugare nelle tasche di quegli sventurati alla ricerca di documenti.

-“Talìa… talìa… cuiè quistu!”

-“Ma è Zuddu, il figlio di massaro Turi!… Poveretto che brutta fine!”

Crivellato di colpi di mitra, Zuddu giaceva con le braccia spalancate quasi volesse abbracciare le grosse lame di una agave che cresceva tra le rocce.

Due carabinieri, la sera quando già le bestie erano chiuse nelle stalle e i ragazzi correvano attorno giocando a mosca cieca, dopo aver percorso una stretta trazzera per un centinaio di metri, si trovarono nell’ampia corte della masseria.

Massaro Turi in quel momento stava seduto su una vecchia poltrona dove dopo la cena soleva godersi il fresco della sera e guardare il cielo stellato. Li aveva sentiti avvicinare alle sua spalle e senza neppure aspettare che salutassero, li prevenne dicendo: “Non ditemi nulla, so già quel che volete dirmi. Domani mattina verrò a vedere e a compiere il mio dovere!”

Sorpresi da quell’uomo rude, con la pipa tra i denti, che come un animale selvatico aveva fiutato la loro presenza e, ancora di più, intuito il motivo di quella visita, si limitarono a salutare con rispetto e a mormorare: “A domani!”

Al mattino presto, dopo una notte agitata e insonne, massaro Turi si mise la coppola in testa e con l’inseparabile bastone si avviò verso l’ospedale.

Dinanzi all’ingresso stazionava una piccola folla di parenti dei banditi uccisi, di curiosi desiderosi di conoscere i particolari di quell’episodio di guerriglia che aveva fatto un gran numero di morti.

Al suo arrivo la folla si divise per consentire il passaggio del massaro. Giunto alla porta, un infermiere con il camice bianco, che lo conosceva, si precipitò verso di lui, dicendo: “Buongiorno, massaro Turi, da questa parte!”

Massaro Turi lo guardò severamente e rispose: “Questo non è affatto un buon giorno!”

L’infermiere, mortificato, si scusò; gli fece strada per un lungo corridoio, accompagnandolo fino alla porta di un salone, dove su tavoli di marmo giacevano una quindicina di cadaveri ricoperti da lenzuoli bianchi.

Massaro Turi si avvicinò al tavolo dove l’infermiere aveva sollevato il lenzuolo. Su quel freddo marmo giaceva nella immobilità della morte il suo ragazzo di venti anni. Chinò la testa, chiuse per un istante gli occhi e posò la sua mano sulla fronte del figlio.

Nulla faceva trapelare il massaro: nessuna lacrima, nessun lamento; solo chi lo conosceva bene poteva leggere nella sua mente quali pensieri di pietà gli trafiggevano il cuore in quel momento. Ma lì non c’era nessuno che potesse farlo. Chi lo avrebbe potuto non c’era più; sua moglie Concettina già da alcuni anni riposava nel cimitero del paese.

Contò i fori che avevano lasciato i proiettili sul corpo del figlio e, leggendo il cartellino appeso al piede del defunto, constatò che il medico non si era sbagliato: aveva fatto bene il suo lavoro!

Poi massaro Turi con un gesto di infinita tenerezza lo ricoprì con il lenzuolo, un gesto che gli ricordava quando la sera, entrando nella camera dove dormiva il figlio ancora bambino, gli rimboccava la coperta.

Salutato dalla gente che aspettava il permesso di entrare, massaro Turi si diresse a passo svelto verso il carretto del suo fedele campiere. Lungo il percorso se ne restò in silenzio, poi appena sceso gli rivolse la parola, dicendo di andare a trovare il suo amico Alfio, dipendente comunale, per raccomandargli di provvedere alle pratiche burocratiche necessarie per quella triste circostanza.

Per tutto il giorno si chiuse nella sua camera. Rifiutò il pranzo che Nunziatina, sempre molto premurosa, gli portò: “Dovete mangiare qualcosa, gli diceva la brava donna che da cinquanta anni stava al servizio di quella casa, vi ricordo il motto che dicevate sempre al vostro Zuddu: Sacco vuoto non si regge in piedi!

-“Grazie, Nunziatina, ma oggi proprio non ho fame, non posso mandare giù nulla nello stomaco. Anch’esso è pieno di dolore!”

Massaro Turi ripensava a ciò che era accaduto nelle ultime settimane, a come il destino avesse dato una svolta così inaspettata e tragica alla vita di Zuddu.

Una sera che il giovane tornava nella masseria, dopo un incontro con Assuntina, la ragazza che aveva intenzione di sposare, come già aveva annunciato al padre, qualcuno sparò contro di lui un colpo di lupara.  Zuddu ebbe fortuna, corse dietro a un’ombra e sparò in quella direzione con la pistola che portava sempre con sé.

Il giorno dopo fu trovato nei campi, il cadavere di un giovane, figlio di un campiere, anch’egli innamorato della stessa ragazza.

Il rischio che Zuddu venisse arrestato era molto alto. Erano tempi difficili: la presenza degli angloamericani su tutto il territorio della Sicilia, la superficialità delle indagini, la fretta di garantire l’ordine e la sicurezza, convinsero il giovane a fuggire, nonostante il parere contrario del padre.

In quel tempo, chi si dava alla macchia andava a ingrossare le fila dei banditi.

Così era stato per Zuddu. Ma la sorte non lo aveva affatto favorito. Quella banda alla quale per caso si era aggregato Zuddu era finita nel mirino dei carabinieri, i quali guidati da un giovane capitano, esperto di guerriglia, erano riusciti a localizzarli. L’azione tempestiva e ben coordinata aveva sgominato la banda.

Nei giorni che seguirono al funerale di Zuddu, massaro Turi continuò a osservare un periodo di lutto, poi finalmente decise di riprendere i suoi giri a cavallo nelle campagne lavorate dai suoi contadini.

Sentiva che qualcosa era cambiato. Non provando più piacere a indossare il caratteristico abbigliamento, stivaloni, pantaloni, giacca e coppola in testa, scelse un paio di pantaloni vecchi rattoppati dalla sua Concettina, tirò fuori da un cassetto del comò una camicia e un maglione, sellò il cavallo e partì.

Il sole si era appena affacciato dietro la collina del Cozzo di Marotta, quando giunse a un bivio, dove c’era un rustico crocifisso di legno piantato su un piccolo plinto di cemento. Fece istintivamente il gesto di togliersi la coppola, come sempre faceva quando giungeva lì, ma il suo braccio questa volta andò a vuoto perché non si ricordò che non aveva nulla in testa. Scese da cavallo, si segnò e guardò il mare che in lontananza brillava sotto il sole. Da quella altura si godeva un bel panorama; appena sotto, sulla destra, si vedevano la vigna del suo amico e lontano parente Carmelo e la sua piccola casa mezza diroccata. Decise di andarlo a trovare.

Carmelo stava seduto su un grosso sasso vicino all’uscio di casa con la testa china e le braccia penzoloni, come se dormisse. La moglie si fece avanti sulla porta e lo salutò rispettosamente. Carmelo, svegliatosi da quella specie di letargo, si alzò e andò a reggere le briglie del cavallo mentre massaro Turi saltava giù. Sei o sette bambini, maschi e femmine, scalzi e piuttosto macilenti, correvano e gridavano tutto intorno alla casetta. La donna li chiamò a gran voce, li radunò e disse: ”Andate a liari le mani a massaru Turi” e li invitò a passare in fila dinanzi a lui.

Tutti salutarono chinando la testa, ma quando fu il turno del più grande, questi senza provare vergogna disse: “Scusa vossignoria, ma la mamma si è scordata di darci la cordicella per legarti le mani e poi io non capisco perché dovrei farlo”.

Massaro Turi scoppiò a ridere, prese per mano il bambino e gli spiegò: “Quello è solo un modo di dire. In segno di rispetto per la persona anziana che si va a salutare, gli si legano le mani in modo da essere sicuri che da quelle mani non venga alcun danno o pericolo. E siccome tu non l’hai fatto, ecco dunque che le mie mani sono libere, possono frugare dentro le tasche e trovare queste”. E così dicendo prese due carte da cinquanta Am-lire e le diede al bambino. Poi rivolgendosi a Carmelo disse:

“Vedo che non te la passi tanto bene, i bambini sono magri, denutriti”.

-“Faccio del mio meglio. Ho faticato tanto, ma dopo aver pagato la gabella al campiere, non mi resta quasi nulla per sfamare la famiglia. Mi sono pure indebitato per comprare le sementi.”

-“Sì, conosco la situazione tua e di tanti altri come te e quella ancora più grave dei braccianti. Appena mi si offrirà l’occasione, ti prometto che ne parlerò al principe.”

Massaro Turi continuò il suo giro, non poco angosciato per la miseria in cui versavano i contadini e le loro famiglie.

Dappertutto si vedevano poveri contadini e braccianti agricoli affamati, accosciati vicino a un muro a secco, casupole ricoperte di paglia e di frasche e in quelle poche dove c’era ancora una parvenza di tetto con qualche tegola si aveva l’impressione che non avrebbe potuto resistere nemmeno al passaggio di un gatto.

Gli venne naturale pensare alle cause di tanta arretratezza e povertà, aggravate ora dalla guerra. E cominciava a credere che in fondo il partito di coloro che con insistenza continuavano a chiedere al governo la riforma agraria stava dalla parte della verità. Non era più possibile mantenere in vita certe antiche istituzioni che si perdevano nella notte dei tempi: feudo latifondo duchi baroni marchesi conti e, dietro questi termini, parole odiose come gabella che diceva pittorescamente il suo amico contadino: “E’ una parola che soltanto a pronunciarla ti spolpa vivo. E intanto le nostre donne generano figli come stelle del firmamento, ma purtroppo non si nutrono solo di luce, sono bocche da sfamare. Non sappiamo più a chi chiedere aiuto, il ristoro alla nostra miseria è  meno dell’ombra del volo di un minuscolo passero sopra le nostre teste”.

Quelle espressioni dette in dialetto da un analfabeta, anzi da un inalfabeta come preferiva sottolineare il contadino, nascevano dal cuore, dal sapore amaro della vita che aveva impregnato la sua anima.

Massaro Turi, commosso, salutò con la promessa che si sarebbero rivisti in tempi migliori e riprese la sua strada.

Ripassò dinanzi al rozzo crocifisso di legno e si fermò a recitare in silenzio una preghiera che da bambino la madre gli aveva insegnato. -“Mi sembra di capire, disse sottovoce a se stesso, perché è bene pregare all’aperto, sotto un cielo azzurro o sotto le stelle. Credo che così le nostre richieste possano salire più direttamente a Dio. Forse non era un caso se gli antichi etruschi e romani avevano pensato bene di praticare nelle loro capanne e poi nei templi un foro sulla sommità che comunicava con il cielo”.

Si ricordò che dal luogo dove si trovava in quel momento, in circa mezz’ora poteva arrivare al villaggio dove da ragazzo andava spesso a visitare il santuario della Beata Vergine Assunta, molto venerato dai contadini. La statua in legno era ricoperta da un manto azzurro stellato. Posta in una teca sull’altare maggiore, aveva una bella corona d’oro e un numero incredibile di collane, di gioielli, di anelli e orecchini d’oro, appesi al suo manto. Vi era un piccolo tesoro che parroco e paesani custodivano gelosamente.

Massaro Turi andò a riverire il giovane parroco, al quale non mancò di esporre le sue perplessità riguardo a tutto quell’oro che invece avrebbe potuto essere utilizzato meglio.

-“Scusate don Franco, disse il massaro, se parlo così. Forse è perché sono stanco di vedere tanta gente, tanti bambini che soffrono la fame!”

-“Voscenza ha ragione di dolersi, ma non è certo con un episodio occasionale come la vendita di quell’oro che si può risolvere il problema del lavoro e della fame nella nostra Sicilia. Quanto potrebbe bastare quel mucchio d’oro e per quante persone? Una settimana, un mese…e poi? Tornerebbe tutto come prima. Ci vogliono, invece, idee nuove, occorre pensare a una seria riforma agraria per soddisfare le necessità di questa gente, per estinguere tante ingiustizie, per dare lavoro ai braccianti…”

-“Ne discuteremo …ne discuteremo, ve lo assicuro don Franco!”

Si era fatto tardi. Massaro Turi comprò un po’ di pane e una fetta di formaggio nell’unico negozietto del villaggio. Lasciate quelle poche case, si fermò sotto un carrubo per consumare quel pasto così frugale.

Al tramonto era già rientrato nella sua masseria. Si era ormai in autunno e la sera giungeva ogni giorno più presto. La vendemmia nei vigneti della costa, non calpestati dagli scarponi dei soldati americani e salvati dai cingoli dei carri armati, sbarcati con tanta sicurezza, aveva regalato in abbondanza un’ottima uva.

Massaro Turi andava spesso a ubriacarsi dell’aroma del mosto nelle lunghe grotte della sua masseria. Prima della disgrazia, gli piaceva la sera circondarsi dei suoi contadini che raccontavano ai ragazzi storie ancestrali di mostri, di grifoni, di cavalli alati e di magie. Amava ascoltare le antiche canzoni cantate dalle giovinette, seguire i loro leggeri movimenti di danza. Durante quelle brevi pause dal duro lavoro, vedeva che quella gente, la cui sopravvivenza dipendeva da lui, era capace di gioire. E lui ne era felice e si domandava perché non fosse possibile estendere quella serenità anche a tanti altri dispersi nelle più lontane terre dei feudi, tenuti in pugno dall’egoismo di pochi uomini privilegiati. Tanti brutali comportamenti di campieri, di soprastanti, di massari, di gabellotti, tanti mafiosi si erano assunti arbitrariamente il compito di giustizieri, per cui le campagne oltre ad essere un luogo di miseria erano spesso in preda alla paura.

Gli venne in mente che una sera, sotto la pergola che intrecciata agli alti pali di ferro correva per un buon tratto lungo il lastricato dinanzi all’uscio, aveva discusso animatamente con un vecchio gabellotto del feudo Santa Croce del barone di Castelluccio che difendeva la bontà del feudo e del latifondo. Il gabellotto, vecchio amico del padre, era conosciuto come un uomo duro, autoritario, capace di restare indifferente alle sofferenze e alle miserie dei contadini e dei braccianti. Era uno dei tanti che strozzavano i contadini, speculando con il subaffitto della terra, imponendo gabelle di gran lunga superiore rispetto a quanto egli stesso era obbligato a versare al barone. Questi non era meno spietato di lui. E ricordava spesso una frase che gli aveva sentito dire un giorno mentre si parlava di una eventuale abolizione del latifondo: “Io cederò un centimetro della mia terra solo quando chi me lo chiede troverà un’ora che non appartenga né al giorno, né alla notte!”

Dopo la morte del figlio, massaro Turi nonostante la presenza dei tre contadini e delle loro famiglie e le attenzioni che gli riservava la fedele Nunziatina, avvertiva un gran vuoto dentro di sé, uno stato di inquietudine per cui spesso quando si ritirava nella sua stanza la sera, non riusciva a prendere sonno. Gli capitava di sentire la voce del figlio, di vedere il padre che lungo i filari della vigna si affaticava ora a togliere le erbacce, ora a rialzare un ramo, ora a legare un viticcio a un sostegno solido. Non aveva dubbi: sentiva di trovarsi a una svolta della sua vita.

Una mattina si svegliò con l’intenzione di andare a trovare il giovane parroco del santuario di Santa Maria Assunta; gli era sembrato una persona devota e intelligente. Si sorprese a fare un sorriso amaro ricordando che a proposito della sofferenza e della miseria della gente, tra le altre cose prima di congedarsi, il parroco gli aveva accennato a un fatto curioso e doloroso.

-“Non vi rivelo nessun segreto di confessionale, massaro Turi, perché questo di cui parlo non mi è stato detto in confessionale, ma purtroppo l’ho scoperto di persona. Una figliola di circa dieci anni veniva in chiesa almeno due volte al giorno, la mattina e la sera. Io la elogiavo per la sua devozione e quando potevo non mancavo di darle un po’ di pane. Sapevo che apparteneva a una famiglia numerosa e poverissima. Lei che era la più grande portava quel pane in casa e i genitori lo distribuivano ai figli più piccoli. Per lei non restava che poco o nulla. Da qualche tempo mi ero accorto che le ostie consacrate diminuivano a vista d’occhio. Finii con lo scoprire che era la ragazza a mangiarle mattina e sera. Quando la sorpresi, lei pianse, ma subito dopo riprese coraggio e disse che al Signore non dispiaceva dar da mangiare a una povera affamata come lei!”

Appena dopo una curva, quando ormai era già in vista del villaggio, tirò le briglie del cavallo perché la strada era sbarrata da una jeep con tre militari americani e da due carabinieri con i moschetti in spalla.

Uno dei due carabinieri gli si avvicinò: “Ah, siete voi massaro Turi! Mi dispiace, ma non si può passare per il momento”.

E mentre massaro Turi scendeva da cavallo, il carabiniere continuò:

-“E’ stato ucciso un uomo, il parroco del santuario di Santa Maria Assunta”.

-“Il parroco? Ma perché? Come è successo?”

-“Per il momento non si sa bene, si stanno facendo le indagini”.

Uno dei tre militari americani scese dalla jeep e, giunto vicino al cavallo, lo accarezzò sul collo dicendo: “Bello, bello animale! Ora tu andare!”

Massaro Turi, molto rattristato, si allontanò e si avviò verso la masseria. Vide nella corte un capannello di gente.

-“Finalmente siete tornato massaro Turi, disse il suo fedele cocchiere, eravamo tutti preoccupati perché dal villaggio è giunta voce che hanno trovato due cadaveri.”

-“Due cadaveri? Ma io so che è stato ucciso il parroco del santuario. Sono stati i carabinieri a dirmelo.”

Per tutto il pomeriggio si fecero tante congetture. Chi diceva una cosa, chi un’altra e non si riusciva a venire a capo della verità, finché verso sera arrivò Vastiano, il campiere, che raccontò come era andata esattamente la vicenda.

Un ragazzotto di circa diciotto anni, figlio di un contadino del feudo di Castelluccio, si era messo in testa di poter rubare con facilità tutto quell’oro che portava addosso la statua della santa Vergine. La sera si nascose dentro un confessionale e dopo la chiusura del santuario pensava di poter realizzare il suo progetto. Ma non aveva tenuto conto del fatto che il giovane parroco era uno studioso, leggeva almeno fino alla mezzanotte e prima di andare a dormire tutte le sere scendeva in chiesa per una preghiera alla Madonna e per controllare che tutto fosse a posto. Evidentemente scoperto e riconosciuto dal sacerdote, il giovanotto non aveva esitato ad aggredirlo e a pugnalarlo. Poi era fuggito con il ricco bottino.

L’affronto era grande, non solo per l’atto sacrilego per cui tutta la gente del villaggio era sdegnata, ma anche per la morte atroce del giovane parroco, al quale tutti ormai volevano un gran bene. Interprete di questo sentimento generale, don Michele, ben conosciuto per l’appartenenza alla mafia, aveva immediatamente pensato di punire quell’assassino che senza alcun riguardo si era mosso in piena autonomia per compiere quella efferatezza proprio nel territorio di sua competenza. La mafia non permette simili gesti senza un preventivo assenso o ordine diretto. Non trascorsero che poche ore dal delitto notturno del parroco, che già prima di mezzogiorno il giovanotto fu trovato incaprettato e sgozzato in un vicino boschetto. I carabinieri avvertiti da un messaggio anonimo ritrovarono il cadavere e recuperarono la refurtiva.

Il racconto del campiere chiarì gli aspetti oscuri della vicenda; poi ciascuno tornò alle proprie occupazioni.

Naturalmente la morte del parroco e di quel ragazzo gettarono ancora di più nell’angoscia l’animo di massaro Turi. Era ormai sempre più convinto che bisognasse liquidare una volta per tutte l’antiquata struttura latifondistica dell’agricoltura siciliana, responsabile di tanta miseria e arretratezza. Ma finché rimuginava questi pensieri dentro di sé, massaro Turi capiva che le cose non sarebbero cambiate. Tante erano le forze in campo, ognuna delle quali in contrasto con l’altra: la politica, la mafia, il banditismo, l’indipendentismo, la nobiltà.

Il nuovo anno si apriva con gli eserciti americano e inglese (liberatori o invasori a seconda del punto di vista), che ancora dilagavano in tutta la Sicilia e massaro Turi si domandava: “Quale danno ancora mi arrecherà quest’anno? In questa terra che sa di lupara, di odi, di miseria, ma anche di zagara, di canti struggenti, di masserie pronte all’amore più tenero e intenso, di carretti decorati e di cavalli infiocchettati, io soffro di solitudine, che è poi la stessa di quella dell’universo intero. Quando all’alba dalla tua gola, agricolo bracciante, sorge il suono ritmato del marranzano che inquietamente inonda la campagna circostante, io non posso fare a meno di alzarmi dal letto e guardarti passare da dietro i vetri della finestra. La stessa malinconia indicibile mi avvolge quando d’estate te ne stai accovacciato all’ombra di un carrubo e con quel suono triste violi il silenzio del pomeriggio di calura, come fa la cicala fino all’ultimo respiro”.

Era trascorso circa un mese dall’omicidio del parroco, quando una mattina un campiere del feudo del principe di Baulì venne a trovarlo, accompagnato da due robusti guardiani.

-“Baciamu li mani a voscenza, massaru Turi. Sono venuto a riferirvi che il principe domani mattina ha bisogno di parlare con voi”.

Massaro Turi restò un po’ perplesso, perché non era una cosa di tutti i giorni che il principe mandasse una ambasceria con tale solennità per l’invito a un colloquio. Doveva essere sicuramente una comunicazione di una certa importanza.

-“Dite al principe che domani non mancherò!”

Ringraziò il campiere per il messaggio, chiamò Nunziatina e le disse di portare un paio di bottiglie di buon vino per quegli ospiti.

Rimasto solo, massaro Turi cercò di passare in rassegna gli eventi principali dell’annata, la contabilità delle gabelle, il conteggio dei prodotti agricoli, la distribuzione delle sementi, il controllo delle terre a pascolo. Ma non trovava nulla che potesse impensierirlo.

Chiamò Nunziatina e le ordinò di preparare quei dolci di pasta di mandorla che tanto piacevano al principe, perché l’indomani avrebbe dovuto andare a trovarlo.

Dopo la cena, come era sua abitudine, verificò che le porte delle stalle dove erano rinchiusi i cavalli e le mucche fossero serrate, che i recinti e tutto ciò che potesse essere bottino per i ladri notturni fosse stato messo al sicuro, alzò gli occhi e vide che una luna piena luminosa si inalberava sulla collina di fronte alla masseria, mentre nell’aria rosseggiava il canto dell’ultimo carrettiere che tornava a casa. Si sentì particolarmente in pace con se stesso, rientrò, spense i lumi della corte e andò col pensiero all’incontro del giorno dopo con il principe.

Il principe, pur avendo raggiunto l’età di ottanta anni, era ancora un uomo energico, alto e di bello aspetto. La moglie, dopo una difficile gravidanza, era morta di parto, mettendo al mondo l’unico figlio. Rimasto vedovo a sessanta anni non aveva voluto risposarsi, sebbene avesse molte aspiranti principesse che lo corteggiavano.

Viveva tutto l’anno nel suo elegante palazzo di città e solo ogni tanto si recava nel suo “Fortino” (così lo chiamava) del suo vastissimo feudo. Gabellotti, curatoli, soprastanti, campieri, venivano in città a informarlo di tutto e a ricevere ordini.

Il principe con l’aiuto di una balia aveva visto crescere bene il figlio; gli aveva procurato ottimi insegnanti e lo aveva avviato alla professione forense, facendogli frequentare l’università.

Con enorme dolore aveva visto infrangere quel progetto di vita così mirabilmente preparato: una terribile malattia in pochi mesi lo aveva condotto alla morte.

Il principe accettò e elaborò quel lutto con dignità e con straordinaria forza d’animo. Alla sua età si trovò improvvisamente senza alcuno affetto familiare. Non lasciava eredi.

Il principe discendeva da una antica famiglia di feudatari. Suo nonno era vissuto nel clima rivoluzionario del primo ottocento. Nel 1812 aveva conosciuto a Palermo lord Bentinck, il quale volle calmare gli animi dei siciliani ribelli alla monarchia dei Borbone concedendo la Costituzione e liquidando il feudalesimo medioevale. In realtà, a ottenere vantaggi concreti furono i nobili e non certo la povera gente. Il nobile non fu più concessionario feudale, ma vero proprietario di una enorme estensione di terra (latifondo), che dava in affitto ai suoi uomini (gabellotti), che a loro volta subaffittavano, lucrando ottimamente mediante imposizioni di gabelle al di sopra del valore prodotto dalla terra, a contadini che quasi sempre vivevano in gravi ristrettezze se non in miseria. Quei pochi fortunati contadini che a seguito della frantumazione del feudo erano diventati proprietari, in poco tempo piegati dall’usura per l’acquisto di attrezzi e sementi, furono presto costretti a cedere la terra. I braccianti erano, infine, coloro che vivevano in una condizione di semi schiavitù.

In questo quadro economico, il gabellotto era l’unica persona che aveva la possibilità, anche ricorrendo a soprusi, angherie e violenza, di accumulare denaro e persino di acquistare terre e titoli nobiliari. A quel punto cominciò a diventare piuttosto confuso il confine tra nobiltà e mafia. Nel 1860 Garibaldi, dopo lo sbarco in Sicilia ricevette l’aiuto dei “picciotti” per la cacciata dei Borbone, dovette fare i conti con la mafia e promettere una equa distribuzione delle terre, mediante una riforma agraria. Il Generale non poté dar seguito alle sue promesse e più tardi con la discesa dei piemontesi a Palermo non andò meglio. I siciliani si illusero di trovare in chi li rappresentava una autorità più umana, più giusta di quella a cui davano il benservito, una autorità che fosse espressione di riscatto da una secolare schiavitù nobiliare dalle radici straniere, tranne qualche rara eccezione. Si sbagliavano.

La situazione si aggravò per la decisa opposizione della nobiltà che non intendeva cedere le proprie terre, con la piaga del banditismo, nelle cui fila confluivano gli scontenti del nuovo regime dei Savoia, i sostenitori dei privilegi della Chiesa, la povera gente e i giovani che per fame o per rifiuto della leva obbligatoria fuggivano dalle loro case e si rifugiavano tra i boschi e i monti, vivendo di rapine, di assalti, di omicidi. Questa situazione di malessere sociale ed economico ancora nel primo dopoguerra non ebbe soluzione, anche se fu in qualche modo “soffocata” durante il periodo fascista.

Ora, con il secondo dopoguerra, ai vecchi problemi si aggiungevano altri, soprattutto ideologici, che rendevano ancora tutto più difficile.

Il principe di Baulì, sia per le vicende strettamente personali come la scomparsa del figlio, sia per avere dibattuto i problemi sociali tra i quali la questione dei latifondi con persone molto autorevoli e colte come il giovane Luigi Sturzo, quando d’estate tornava da Roma dove studiava teologia all’Università Gregoriana, sperava di condividere con il prestigioso amico le decisioni importanti che si preparava a prendere. I parenti di Caltagirone gli avevano assicurato che, finita la guerra, don Luigi sarebbe tornato finalmente dal suo esilio di New York.

Nel frattempo il principe pensò di cominciare ad agire. Gli venne in mente di organizzare un incontro (che altri più tardi per dileggio chiameranno Il Congresso di Baulì) tra tutti i rappresentanti delle forze in campo nella Sicilia del dopoguerra.

Il “Fortino” del principe aveva una posizione privilegiata; situato su una collinetta al centro del feudo dominava le decine e decine di ettari di terreni. Tutto attorno era circondato da un lungo muro di cinta. L’accesso era dal lato sud, mediante un’unica porta ferrata carrata che immetteva nella vasta corte, divisa in due parti da una doppia scalinata che portava direttamente alla terrazza, aperta sul grande salone del piano nobile.

Gli ampi locali del piano riservato al principe, quando nel corso dell’anno sentiva il bisogno di una visita, si sviluppavano al di sopra dei grandi magazzini, delle stalle, dei granai, delle varie abitazioni per i contadini e per i pochi braccianti fissi. La caratteristica più evidente era che quell’insediamento aveva pochissime finestre che si aprivano verso l’esterno e comunque tutte ben protette da robuste inferriate.

Massaro Turi fu accolto benevolmente dal principe, il quale mostrò di gradire i dolci preparati da Nunziatina. Chiamò la domestica e le consegnò il vassoio, dicendole che li avrebbero mangiati più tardi accompagnati da un bicchierino di rosolio.

-“Quali ordini vossignoria ha per me?-  disse massaro Turi.

-“Ordini…ordini…ma quali ordini ormai di questi tempi, Turi!” La Sicilia, dopo più di sei mesi dallo sbarco di questi stranieri, non ha ancora pace. La gente muore di fame, i ladri e gli assassini sono dovunque. Io vedo che anche i nobili hanno perso la testa, hanno solo un pensiero fisso: quello di non perdere neanche il più piccolo pezzo di terra. Si oppongono persino alla cessione dei terreni incolti, dimostrando un egoismo spaventoso. Sono contrari a qualsiasi rinnovamento delle tecniche di coltivazione e di lavoro. Per loro esiste solo la monocoltura del grano e l’aratro. Null’altro! Quella parvenza di governicchio, che ancora c’è, pensa soltanto a obbligare i contadini a portare metà del loro grano all’ammasso, con la conseguenza che quasi tutti imbrogliano per sfuggire alla fame e vengono perseguiti dalle leggi. Si ingrossano le bande dei latitanti, si consolida il potere di certi mafiosi, spalleggiati apertamente da quei nobili che non guardano in faccia nessuno, quando c’è da difendere i loro patrimoni. Ora io sono sicuro che nei prossimi mesi scorrerà molto sangue in Sicilia, se non ci prepariamo a un saggio cambiamento. In tutti questi anni ti ho osservato e mi sono convinto che tu sei un uomo onesto e generoso. Non c’è stato mai nessuno che è venuto a dir male di te, ad accusarti di qualcosa; anzi molti mi hanno riferito degli aiuti silenziosi che hai offerto alle tante famiglie ridotte alla fame per malattie o per mancanza di lavoro. Tu sai che Giovanni, il gabellotto che mi ha servito per più di quaranta anni, è morto da oltre due mesi. Ebbene, mi sono detto, chi meglio di massaro Turi può sostituirlo? Che ne pensi, Turi?”

-“Ringrazio vossignoria per l’onore che mi fa. Per il resto quello che vossignoria mi ha confidato, mi trova perfettamente d’accordo. E’ necessario e urgente pensare di alleviare le condizioni di vita di miseria che conducono centinaia di famiglie, mediante una giusta riforma agraria.”

-“Bene, naturalmente mi fa piacere che tu concordi con le mie idee di solidarietà, che da quando sono rimasto solo, dopo la morte di mio figlio, si sono rafforzate. Queste terre per me non hanno più alcun valore. Io sono vecchio ormai. Voglio farmi ricordare come un benefattore piuttosto che come un possidente ricco di titoli e di cieco egoismo. Ma gli ostacoli sono tanti e gravi. Voglio confidarti una mia idea, che già da parecchi giorni ho maturato. Nella prossima settimana terrò una importante riunione, alla quale naturalmente sei invitato. Hanno aderito tutti i personaggi ai quali ho fatto pervenire l’invito. Ci saranno una decina di persone, persone importanti, tranne un paio a cui ho dovuto garantire la sicurezza mediante una mia dichiarazione speciale, confermata dalle autorità militari e giudiziarie.”

Durante il pranzo e per tutto il giorno, il principe e Turi, il nuovo gabellotto di Baulì, parlarono a lungo scambiandosi opinioni e idee sullo stato delle campagne, sulla arretratezza del sistema di lavorazione della terra, sul modo di introdurre innovazioni senza tuttavia operare sconvolgimenti e disordini.

A sera Turi tornò a casa. Il pensiero del coraggioso progetto rivoluzionario del principe lo accompagnò lungo tutto il tempo del ritorno. Gli piaceva immensamente quella sorta di ultimo canto del cigno del principe. Questi da quando se lo ricordava da ragazzo e da quel che di lui diceva il padre, era stato sempre una persona amabile, gentile e generosa verso tutti, anche verso i più umili lavoratori. Ora la vecchiaia lo aveva reso più austero e affabile nello stesso tempo; sul suo volto aveva letto piacere e dolore, l’ideale del bello e della giustizia. Le sue guance ben rasate erano solcate da poche profonde rughe, le sue mani magre e macchiate di chiazze grigiastre sfogliavano vecchi registri e album di foto, e quando se ne stava in piedi, si incrociavano sul pomo d’argento di un bastone. Ripensando a quella straordinaria giornata passata a tu per tu con il principe, a quello che aveva detto e alle idee che aveva condiviso, era sicuro di non averlo deluso. Certo non ci sarebbe stata mai più una situazione simile. Quella era stata una giornata irripetibile. Pensava con tristezza come si spegneva quella illustre casata, quel nome, quell’essere umano tanto diverso dagli altri uomini, ma tanto uguale a tutti gli altri. Aveva intuito in quelle poche ore di conversazione sincera che ciascuno di noi ha una specie di camera segreta dove ci si va a rifugiare, a distillare il proprio dolore, le proprie paure, i propri rimorsi. Ciascuno ha un luogo privilegiato che porta con sé, un angolo di cielo, un monte, una campagna, una via deserta o anche un luogo che non ha mai visto, ma che se lo figura come una spiaggia illuminata dalla luna, un deserto dalle dune ondeggianti sotto un cielo stellato che ci fa sentire così piccoli, meno di un granello di sabbia sotto i nostri piedi.

Giunse infine il giorno della riunione.

La banderuola dall’alto dei tetti, ricoperti dai coppi rosseggianti, segnava la direzione dello scirocco. Davvero quegli ultimi giorni dell’inverno del 1944 erano piuttosto tiepidi e annunciavano l’imminente primavera. Al suo arrivo Turi, che aveva preferito farsi accompagnare dal suo fedele cocchiere, scese dal carretto. La corte era già affollata. Con sua meraviglia notò una gran numero di canne di fucili che brillavano al sole sulle spalle dei picciotti che portavano tutti la coppola. Più avanti era ferma una vecchia balilla, dalla quale poco prima erano scesi due carabinieri, l’autista con la divisa di maresciallo e l’altro con la divisa di maggiore. Entrambi si erano diretti verso la scalinata, ai piedi della quale, alcuni domestici in livrea, schierati in fila a destra e a sinistra, ricevevano gli ospiti.

Dall’alto della scalinata in piedi il principe sorridendo stringeva loro la mano e li accompagnava fino alla grande sala, dove al centro c’era un grande tavolo rotondo con le sedie di velluto rosso.

Guardando oltre il muro di cinta, un domestico fece notare al principe una nuvola di polvere che si avvicinava al “Fortino”. Un minuto dopo entrava sgommando una jeep americana. Scesero due ufficiali, il colonnello Carleton Washburne e il suo giovane tenente Ernest Ganci di origine siciliana che faceva da interprete. I domestici, premurosi, fecero strada e li consegnarono al principe, il quale già conosceva il colonnello per averlo avuto a pranzo con altri alti ufficiali americani poco prima di Natale. Un sorriso, una amichevole pacca sulle spalle e poi subito in sala.

Intanto, giù nella corte, serpeggiavano sospetti e commenti pepati.

-“Talìa comu s’annaca u yankee”, diceva un picciotto con aria malandrina al suo amico, mentre l’americano fumava una sigaretta e girava attorno a odorare i fiori della siepe.

-“Io non capisco, diceva l’altro, che minchia si devono dire in questa specie di Congressu ri Vienna. Mah, Turiddu ha tanto insistito… cuntentu lui…cuntenti tutti!”

Anche su in sala, il clima non era tanto tranquillo. Il maresciallo aveva fatto notare all’ufficiale, come tra i presenti gli sembrava di riconoscere facce di mafiosi e di latitanti. Il maggiore lo rassicurò, dicendo sottovoce che bisognava ignorarli, perché per intercorsi accordi era stata garantita loro la sicurezza.

Il principe prese per primo la parola, illustrando le finalità di quella riunione. Fece il punto sulla gravissima situazione in cui si trovava la Sicilia, parlò dello stato di miseria in cui versavano intere famiglie di contadini e di braccianti, della inadeguatezza del latifondo e precisò la sua intenzione di procedere alla frantumazione dello stesso per ciò che lo riguardava. Sperava così, con il suo esempio, di anticipare la volontà del legislatore che avrebbe dovuto occuparsi di una saggia riforma agraria. Le sue parole furono accolte da un mormorio di disapprovazione non solo dai due personaggi che rappresentavano la nobiltà, ma anche da parte di un noto mafioso e da un latitante, ai quali davano la caccia esercito e carabinieri.

-“Sono convinto, aggiunse il principe, che dopo un indispensabile confronto democratico, si potrà trovare la strada più giusta”.

A sentire parlare di democrazia, il colonnello Washburne fece un sorriso e un gesto di approvazione che servirono a calmare gli animi.

A quel punto il principe cominciò a dare la parola agli ospiti, facendo per ognuno una breve presentazione e spiegando il motivo della loro presenza.

-“ Ritengo di dover dare per primo la parola a S.E. mons. Antonino Catarella, vescovo di Piazza Armerina, che può farci conoscere il punto di vista della Chiesa.”

Sua Eccellenza esordì dicendo che dal 1941, anno della sua successione a S.E. Mario Sturzo, fratello del sociologo e teologo don Luigi Sturzo, ha avuto la possibilità di approfondire la dottrina sociale di don Luigi ( grazie anche alla lettura della fitta corrispondenza con il fratello Mario, gelosamente conservata negli archivi del Vescovado), secondo la quale l’unica via che resta per debellare la miseria è quella di abolire l’antistorico latifondo e di assicurare ai contadini un adeguato appezzamento di terreno da poter lavorare. “E’ chiaro, continuò S.E. Catarella, che, accettato questo principio, sarà compito della politica decidere le modalità migliori per dare concretezza alla suddivisione. Credo che a questo punto il mio consiglio possa essere lo stesso che ho trovato spesso negli scritti di don Luigi e cioè che in politica come in tutte le opere dell’attività umana occorre il tempo, la pazienza, l’attesa del sole e della pioggia, il lungo preparare, il persistente lavoro, per poi infine passare a raccogliere i frutti. Sento, inoltre, il dovere, a proposito delle future decisioni della politica, di riferire che la Chiesa si è espressa negativamente circa la richiesta della sinistra di costituire cooperative sociali per gestire le terre, anziché affidarle in proprietà ai contadini. E la Curia palermitana ha organizzato una decisa opposizione guidata da un ottimo politico che è Bernardo Mattarella.”

Il principe intendeva dare la parola al colonnello Washburne, ma questi tramite il suo interprete disse che preferiva ascoltare tutti prima di fare il suo intervento.

A quel punto, il principe invitò il dott. Palma. Questi illustrò la posizione di Aldisio che a Palermo, con la nomina ad Alto Commissario, aveva assunto l’incarico di ripristinare le forze dello Stato. Palma riferì che Aldisio si era venuto a trovare in difficoltà insuperabili, soprattutto per l’incoerenza e la confusione di idee, con la conseguenza di continui voltafaccia. “Quello che in questo momento, aggiunse Palma, io illustro a voi, forse già domani non avrà più conferma. Ci sono settori del mondo cattolico che, come ha già detto S.E. il vescovo, avversano l’idea della separazione della Sicilia dallo stato italiano e difendono il principio della assegnazione delle terre a piccoli proprietari; ci sono comunisti che come per esempio Girolamo Li Causi  (uno degli intellettuali comunisti favorevole alla sentenza di morte del filosofo Giovanni Gentile), direttamente inviato da Togliatti, guida la rivendicazione dei contadini, ma secondo il principio delle cooperative. E per non tacere nulla, ci sono mafiosi e nobili che ora appoggiano l’indipendentismo, ora lo avversano, a seconda della prospettiva degli interessi personali. La confusione è, dunque, totale. Il signor Finocchiaro Aprile per sostenere la sua idea (La Sicilia come quarantanovesima stella della bandiera americana), continua a scrivere lettere a generali, ammiragli, capi di stato come Roosevelt, Churchill, ma senza mai ottenere una risposta. Si teme, a ragione, che da questa grande confusione nasca un movimento di azione militare, una sorta di esercito di liberazione della Sicilia che con l’appoggio del banditismo, diventi una vera forza difficile da controllare”.

Il bandito, il mafioso, i nobili e i due carabinieri, incrociarono i loro sguardi senza dire una parola.

Finalmente il colonnello Wahsburne fece capire al principe che intendeva intervenire.

Il principe accennò brevemente alla figura del colonnello, ex cadetto della famosa accademia di West Point e appartenente a una famiglia culturalmente elevata che contava rapporti di amicizia con eccellenti studiosi, come J.Dewey, filosofo e pedagogista.

Il colonnello con l’aiuto dell’interprete ringraziò il principe per il richiamo alla cultura e al nome del Dewey, perché intendeva concentrare il suo intervento proprio su questo delicato aspetto della questione Sicilia. “Condivido, proseguì il colonnello, ciò che è stato detto sulla necessità di sollevare con riforme adeguate del latifondo la miseria della povera gente, ma lascio ai miei generali e agli uomini politici questo compito. Io voglio qui sottolineare l’importanza della formazione dell’uomo e del cittadino e dunque della scuola. Nel mio paese ho avuto riconoscimenti per un piano educativo, denominato Piano Dalton, cui ha dedicato tutte le sue energie una valorosa educatrice Helen Parkhurst e forse per questo sono stato incaricato di raggiungere Roma, come Consigliere scolastico plenipotenziario del Governo Militare Alleato, non appena la situazione lo permetterà. In tale veste offrirò tutta la mia esperienza e capacità per la nascita della nuova scuola italiana e per elaborare nuovi Programmi della scuola elementare. Sarà questa nuova scuola che dovrà insegnare ai ragazzi i valori della libertà, della democrazia e della pace.”

Il colonnello aggiunse altre felici considerazioni e auspicò il raggiungimento di un accordo tra le parti.

Il barone Paolo Fernandez, di chiara origine spagnola, uno dei due nobili invitati dal principe, aveva ascoltato con attenzione ma con evidente scetticismo il discorso del colonnello. Seduto accanto a Turiddu, il bandito, era uno di quelli sempre pronti ai voltafaccia; aveva condiviso un libello di un suo amico dal titolo eloquente “Elogio del latifondo”, che in quei giorni circolava liberamente. Dopo aver dichiarato la propria indisponibilità e quella della maggior parte dei nobili, proseguì dicendo che “la vita sociale in Sicilia è avvelenata da una forma di burocrazia e di centralismo, sin dai tempi della discesa dei piemontesi a Palermo, i quali hanno voluto imporre al sud la loro proterva volontà di dominio. Questa è anche la ragione per cui sono favorevole all’indipendenza della Sicilia. Ho qui con me un esempio di questa grave forma di burocrazia che non solo frena lo sviluppo, ma incentiva il banditismo. Il mio amico Turiddu me lo ha confermato. Nelle sue fila c’è un giovane che da bravo cittadino si è trasformato in assassino. Ecco la prova”.

Il barone fece una pausa e tirò fuori un pacchetto di carte: “Queste sono lettere, esattamente diciassette. Ecco i fatti: un giorno sfortunato, il giovane si reca all’ufficio postale del suo paese per pagare una grossa somma di denaro per una tassa governativa. Commette un errore. E la somma viene accreditata a un ufficio sbagliato. Il giovane si premura a contattare l’ufficio per chiedere la somma non dovuta e versata erroneamente. Ma l’impiegato dice che non si può richiedere a voce, occorre una domanda scritta. Viene fatta la domanda e attende per qualche tempo. Si vede recapitare una lettera nella quale non solo non gli viene restituita la somma, ma gli viene imposta una multa perché la richiesta di restituzione doveva essere rivolta all’ufficio in carta bollata. Per risparmiarvi la lettura di queste lettere, vi riassumo l’allucinante vicenda durata un anno e mezzo, nel corso del quale il malcapitato giovane si vedeva arrivare quasi ogni mese una lettera, ogni volta da un ufficio diverso, con la quale veniva informato che “la richiesta della S.V. verrà quanto prima esaminata dall’ufficio competente al quale lo scrivente si premura di inviare la presente nota. Deferenti saluti”. Seguiva la firma e il timbro del funzionario.

Alla diciassettesima lettera il bravo giovane, esasperato, va nell’ufficio dal quale è partita l’ultima lettera e uccide con la sua lupara il funzionario che ha firmato la comunicazione. Poi fugge e va a ingrossare la banda del mio amico”.

L’aria si era fatta pesante. Il principe non poté fare altro che constatare quanta distanza e discordia ci fossero intorno a quel tavolo. Era molto pallido e stanco. Se ne accorse massaro Turi, che sin dall’inizio gli era rimasto seduto a fianco in silenzio. Gli parlò all’orecchio. Poi massaro Turi disse ai presenti: “Il principe si scusa, non si sente bene. Mi incarica di informarvi che la riunione può ritenersi conclusa. Nella sala a fianco, i domestici hanno allestito un piccolo buffet con dolci e bevande. Siete quindi pregati di raggiungere la sala. Grazie a tutti a nome del principe e mio personale.”

Massaro Turi accompagnò il principe nella sua camera da letto, mentre gli ospiti si alzavano in fretta e alla spicciolata si allontanavano, dopo aver degustato una buona fetta di cassata siciliana.

Il “Congresso di Baulì” finì con un nulla di fatto, anzi con una minaccia non certo velata di uno di quei picciotti che vedendo il capo uscire piuttosto contrariato disse: “Sentirete presto il peso del piombo sulle vostre carni!”

Di innocente in quella turba sembrava esserci soltanto l’innocente linea dell’orizzonte. Ognuno aveva dentro di sé il proprio torrente di interessi, di egoismi più o meno scoperti, asciutti e ghiaiosi, violenti, dettati dal desiderio di possesso e di dominio. Si andava dileguando un incontro nato dal desiderio di giustizia, dalla volontà di cancellare o almeno di alleviare una miseria che come un’ombra perpetua toglieva luce ai fratelli.

L’eco dei motori copriva quella degli zoccoli dei cavalli dei picciotti che riprendevano la via dei monti. Qualcuno stringeva tra le labbra il marranzano; l’umido gioco della morte aleggiava sullo loro teste, ma non riusciva a spegnere l’arsura della speranza di un più sereno e giusto avvenire.

Passando innanzi al cimitero, massaro Turi si tolse la coppola. Pensò a come la morte accomunasse innocenti e delinquenti, persone umili che a lungo avevano sognato benessere e giustizia e tante altre che erano vissute credendo di sognare, tante persone note e ignote sepolte nella terra sulla quale passarono con passi di amore, di pietà, di furore, in fretta, e non sempre con la schiena eretta. Pensò che i muri di quel cimitero come quelli di ogni altro hanno visto e custodiscono segreti e misteri che nemmeno Proserpina quando a primavera sale su dagli inferi può restituire a coloro che non smettono di interrogarsi.

I cipressi mossi dal vento sembrava assentissero, le rondini in picchiata stridevano lanciando nell’aria tersa di aprile il loro sogno di libertà.

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