IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“ Le due sorelle”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello

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Sorelle in preghiera

Ermete insegnava Diritto Romano all’Università di Catania. Era un grande appassionato di problemi della Chiesa cattolica, ottimo conoscitore della storia della Chiesa, delle funzioni religiose, nonché dei simboli e dei misteri del cristianesimo.

A Pasqua, per tradizione familiare, Ermete con le sorelle Agatina e Venera era sempre in prima fila nella cattedrale di Catania per assistere ai riti pasquali. Ermete sottovoce commentava alle sorelle, una alla sua destra e l’altra alla sinistra, le solennità di quelle funzioni, il significato dei gesti del sacerdote, delle parole, dei silenzi, degli inchini, che facevano i sacerdoti durante le cerimonie.

“La liturgia, diceva, è parte essenziale della preghiera, è essa stessa preghiera, clima di perdono, elaborazione di sofferenza, incenso di ringraziamento, simbolo al pari del canto gregoriano, della scultura di una statua, della architettura del tempio innalzato in onore del Signore”.

Tutto, in quelle giornate solenni della Pasqua all’interno della cattedrale, era simbolo, allusione a qualcosa di misterioso tramite qualcosa di concreto, di sensibile: dal cero ardente che rinviava alla legge biblica e al corpo di Gesù, ai grani dell’incenso che ricordavano le piaghe del Cristo.

Le due sorelle ascoltavano in silenzio con la stessa umiltà e ammirazione, come ogni anno, quanto il fratello andava dicendo, con sempre nuovi particolari riguardo ai canti, ai paramenti, al significato nascosto delle Epistole, lette ad alta voce dal sacerdote.

Uscivano dalla chiesa esausti, ma felici di aver partecipato alle cerimonie con rispetto, passione e profonda pietà cristiana.

Alla morte dei genitori, Ermete decise di affittare la bella ed elegante casa di via Etnea, dove era cresciuto con le sue sorelle. Molta gente veniva a visitarla, ma quando si informava sul prezzo richiesto, si ritirava perché ritenuto troppo elevato.

Un giorno chiese l’appuntamento, per visitare la casa, la famiglia di Rocco. L’unica disponibile era Agatina, perché la sorella era a letto con un lieve malessere e il fratello impegnato all’Università. Presa la chiave, Agatina si recò nella casa di via Etnea e aspettò i visitatori. Agatina conosceva già Rocco, ma non i suoi genitori. Iniziò il lungo giro della casa, che piacque moltissimo ai genitori di Rocco. Questi cercava l’occasione per sorprendere da sola Agatina. Mentre i suoi genitori per una stretta scala visitavano la soffitta, si trovò improvvisamente a fianco di Agatina, la attirò a sé e la baciò a lungo.

Scoppiò così la scintilla dell’amore fra i due. E per più di un mese Agatina cercò ogni scusa per uscire sola e incontrarsi con Rocco. Poi la cosa si seppe.

Il fratello di Agatina aveva altri progetti per quella sorella, protestò vivacemente, rimproverò la sorella e le impose di non rivedere più quel giovanotto perditempo. Naturalmente dell’affitto della casa non se ne parlò più, anzi, quando Ermete incontrò il padre di Rocco, si lamentò con voce alterata, quasi minacciosa, per quanto era accaduto tra suo figlio e Agatina.

Dopo il fattaccio, Rocco non poteva più rimanere a Catania. Il padre lo obbligò ad andare a Parigi e fermarsi là per qualche tempo.

Rocco, che amava molto la compagnia degli amici, pensò di convincere un amico, simpatico, allegro, estroverso, con cui affrontare quella nuova vita. Ma Lorenzo era privo di mezzi; la sua era una famiglia molto modesta, il padre ferroviere con sulle spalle una numerosa prole. Rocco finì col persuaderlo, allettandolo con la promessa che per le prime spese avrebbe provveduto lui. Poi a Parigi si sarebbero arrangiati con qualche lavoretto.

Presero in affitto una cameretta sui tetti di Parigi con la vista della torre Eiffel.

Già dal giorno successivo all’arrivo, Rocco si presentò a un vecchio amico del padre, che viveva a Parigi da molti anni. Costui lo fece assumere da un notaio, suo conoscente, e Rocco cominciò la sua attività lavorativa che gli consentiva di vivere discretamente e divertirsi. Il suo amico Lorenzo fu altrettanto fortunato: venne assunto da un antiquario di stampe e libri antichi, il quale aveva oltre al negozio anche una bancarella lungo la Senna, presso Notre-Dame. Il proprietario gli affidò la gestione della bancarella e lui se ne stava seduto su una poltroncina di vimini in attesa dei clienti.

Rocco e Lorenzo si ritrovavano ogni giorno nella pausa dal lavoro e consumavano il pasto presso una brasserie nelle vicinanze del Jardin du Luxembourg. Si scambiavano le notizie  che giungevano da Catania, parlavano degli ultimi avvenimenti della politica. Un giorno il discorso cadde su un nome che ancora a quel tempo i parigini detestavano: Vincenzo Peruggia.

“Peruggia con due “g” mi raccomando”, diceva Rocco.

“Si vede che a quei tempi all’anagrafe di Dumenza c’era un ignorantone che non sapeva che Perugia si scrive con una “g“. E lì risate, anche perché Rocco, rispolverando una antica poesia appresa a scuola, diceva dell’ironia del poeta nei confronti di un principino che agli esami aveva affermato che “paggio e maggio scrivonsi con due “g” come cugino”. E vinse il premio!

Insomma finivano il loro discorso, concludendo che Vincenzo Peruggia era stato un vero patriota, un ladro straordinario che aveva fatto fessi i francesi e portato La Gioconda in Italia, volendo così punire quel ladro di Napoleone che aveva portato in Francia molti capolavori dell’arte italiana. Per fortuna, aggiungeva Rocco, che qualcuno a Venezia era stato più furbo di lui ed era riuscito a dissuaderlo dall’asportare la famosa preziosa Pala d’oro della basilica di San Marco. Il parroco, infatti, gli aveva fatto credere che quella non era d’oro, ma di semplice metallo colorato d’oro e adorno di pezzetti di vetro.

Erano passati già due mesi, quando una mattina l’antiquario, visibilmente infuriato, fece chiamare Lorenzo nel suo negozio.

Mancava una grande stampa del ‘700, molto rara e di grande valore. L’antiquario chiese spiegazioni, ma Lorenzo non seppe trovare una giustificazione plausibile.

Rocco e Lorenzo la sera stessa, poco prima della mezzanotte, si videro piombare in casa tre poliziotti che perquisirono senza successo la piccola camera dove vivevano. Gli agenti lasciarono l’invito a presentarsi in commissariato la mattina seguente.

Il commissario, un uomo tarchiato, con i baffi e i capelli brizzolati, vestito di scuro e con il sigaro in bocca, quando li vide entrare, esclamò:

Ah, les italiens! Bien…” E poi continuò:

“Aveva ragione Tolstoj quando conversando con un amico se ne uscì con una frase molto dura: gli italiani sono quelli che mandano in giro per l’Europa ladri e imbroglioni come Cagliostro e Casanova!…Bien…Bien…che cosa avete combinato ora voi due? Avete rubato una stampa del ‘700?”

L’interrogatorio proseguì per circa un’ora, poi finalmente Rocco fu rilasciato, mentre Lorenzo che aveva confessato si vide costretto a restituire la stampa, a pagare una cauzione per tornare in libertà e invitato a non allontanarsi da Parigi, fino allo svolgimento del processo.

Quella incresciosa vicenda che aveva visto coinvolto Rocco rallegrò Venera: “Vedi bene che il tuo seduttore è un poco di buono. Con lui non avresti avuto serenità. E’ stata una grazia che sia partito e che ti abbia lasciato libera”.

“Ma io non volevo libertà, volevo restare sottomessa e fedele a lui. E’ stato il padre a obbligarlo a partire!”

In realtà, Ermete aveva fatto la sua parte, con le sue rimostranze al padre e infine mostrandosi soddisfatto della decisione di mandare via dalla città il giovanotto, per far cessare le chiacchiere tra le gente.

A Parigi, il notaio, appresa la notizia dalla stampa, non se la sentì più di tenere Rocco nel suo rispettabile ufficio e pensò di licenziarlo.

Rocco lasciò l’amico al suo destino e se ne tornò a Catania. Qui il padre non navigava in buone acque. Il commercio dei tessuti stava attraversando una brutta crisi e il suo negozietto era sull’orlo del fallimento. Ciò nonostante, Rocco riprese la vita di spensieratezza dispendiosa di una volta. Provò nuovamente ad avvicinare Agatina, ma questa sostenuta dai consigli della sorella e dai divieti di Ermete, si guardava bene dal dare una pur minima speranza a Rocco, durante le abituali passeggiate domenicali lungo la scintillante via Etnea, ricca di eleganti negozi.

Rocco non era disposto a rassegnarsi a quel rifiuto ostinato. Soffriva per il suo orgoglio ferito. Gli amici non erano molto teneri con lui e, tra uno scherzo e l’altro, gli rinnovavano l’amarezza di due fallimenti: quello dell’avventura parigina e quello del mancato fidanzamento.

A poco a poco una idea di vendetta, da tempo annidata nel suo cervello, venne allo scoperto e diventò un progetto concreto.

Da qualche anno il professore aveva acquistato un vasto agrumeto nel territorio di Francofonte, che gli rendeva parecchio.

Una mattina Rocco partì da Catania con una tanica di benzina e quando fu sul posto mise in atto quel progetto lungamente accarezzato. In pochissimo tempo il fuoco divampò con lo scirocco che spirava forte da Sud-Est. La distruzione coinvolse anche altri proprietari vicini. Le indagini immediatamente avviate portarono quasi subito alla individuazione del colpevole, che venne arrestato.

Dopo quella tristissima esperienza, Ermete vendette tutto ciò che restava delle proprietà di famiglia, presentò le sue dimissioni al rettore dell’Università e con le sorelle si trasferì a Roma.

Ermete, come un saggio padre, con il ricavato delle vendite delle case e dei terreni di Sicilia e con i suoi risparmi, acquistò due grandi e belle case in città e un attico sul mare di Ostia.

Ciascuna delle due sorelle scelse di vivere nella propria casa, mentre Ermete si trasferì a Ostia, dove dal terrazzo si godeva  un incomparabile panorama sul mare. Venera diceva sempre che affacciandosi da quel terrazzo aveva la sensazione di trovarsi su una nave in mezzo al mare.

D’estate la spiaggia brulicava di bagnanti, di ombrelloni variamente colorati, di bambini che giocavano. Le voci giungevano fin lassù, la musica, il viavai del passeggio. Di giorno il mare era solcato da mille barche a vela che sfilavano l’una accanto all’altra, quasi sfiorandosi. Al tramonto, le sorelle non volevano perdersi lo spettacolo del sole che lentamente, tra nuvole sanguigne, spariva all’orizzonte dentro il mare. Di sera, la fila dei lampioni si perdeva in lontananza a destra e a sinistra del terrazzo e nel cuore scendeva una dolce malinconia che richiamava gli anni della giovinezza trascorsi a passeggio vicino agli scogli di Polifemo.

Venera e Agatina spesso si attardavano dinanzi allo specchio, i loro occhi scrutavano il viso: “A guastarlo un poco, ma solo un poco, dicevano, sono quelle minuscole rughe attorno alla bocca e sulla fronte”.

Ma quelle rughe rivelavano il passare implacabile del tempo. Venera rammentava quando da ragazza spartiva col pettine profumato i lunghi capelli e si accingeva a intrecciarli. Due lunghe trecce che, correndo per le scale per raggiungere le sue amiche, le ballavano sulle spalle. Sorrideva, sorrideva a tutti: Venera impersonava la felicità! E le sue amiche ci aggiungevano anche la bellezza, giocando sul suo nome: ecco sta arrivando Venere!

La morte del fratello sopraggiunta all’improvviso fece precipitare nella confusione e nella disperazione le loro vite.

Continuarono a vivere separatamente ancora per qualche tempo. Venera si era scelta la compagnia di un grosso pappagallo coloratissimo, Agatina aveva preferito un gattino, al quale si era affezionata fino a tenerlo con sé sul letto.

Col passare degli anni, Venera non se la sentì più di restare separata dalla sorella. Vendette la sua casa e si accinse a trasferirsi in casa della sorella, dove c’era anche un bel giardino.

In autunno, a una certa ora del tardo pomeriggio, quando il sole cominciava a calare tra i tetti delle case attorno, si guardavano negli occhi. Poi una delle due diceva all’altra: “Andiamo in giardino a vedere cadere le prime foglie degli alberi”.

E si sedevano l’una accanto all’altra su un sedile di pietra scolpita a contare le foglie che il vento strappava ai rami. Qualcuna andava a cadere vicino ai loro piedi: Venera era sempre la prima a raccoglierla dicendo: “La farò asciugare ben bene e la conserverò nell’album con la data di oggi”.

L’album era diventato panciuto e già da qualche tempo, Venera diceva alla sorella: ”Bisogna che ne compri un altro, questo non ne può più contenere!”

Ma l’album, anno dopo anno, restava sempre lo stesso.

Ora che erano insieme, rievocavano spesso i giorni della giovinezza, gli amori perduti per colpa del fratello, che inesorabilmente scartava quelli che si facevano avanti senza possedere quei requisiti familiari a suo giudizio indispensabili. E la bellezza, la prestanza fisica, l’allegria e la spensieratezza, si erano cinte di fiori selvatici e lentamente si erano nascoste per non riapparire più.

Così non tardava l’ombra della notte a salire sul loro aspetto: i loro occhi stanchi, si posavano sulle fotografie antiche e sugli oggetti del passato.

 Quanta tristezza in cuore per quei giorni trascorsi inutilmente! Eppure l’acqua della fontana del giardino scrosciava come allora, i fiori del gelsomino erano là a riceverle col profumo di sempre, la ghiaia dei vialetti che percorrevano scricchiolava allo stesso modo sotto i loro passi.

Succedeva, talvolta, che tra i pensieri tristi, a una delle due veniva in mente qualche battuta che il fratello raccontava tornando dall’Università: ”Sentite che cosa mi ha riferito un collega che è impegnato in tribunale come avvocato. Il presidente interroga una testimone che nel corso di una manifestazione di piazza è stata ferita da un colpo di pistola:

-Per cortesia, signora, ci dica dove è stata ferita nel tafferuglio”.

“No, signor presidente, non nel tafferuglio, ma un po’ più sopra!”

Ridevano e per un po’ tornava il buonumore.

Delle due, Agatina era la più apprensiva, temeva il sopraggiungere di sciagure, di malattie, di presenza di estranei nella loro casa.

Era diventata superstiziosa e imponeva alla sorella di toccare le cose in un certo modo, usando ora la mano destra ora la sinistra, di stare attenta a non versare l’olio, di bruciare un po’ di sale se alla finestra vedeva passare qualcuno o qualcuna vestita di rosso.

La sorella, paziente, la accontentava. E lei più realisticamente si atteneva ai consigli che il fratello quando era in vita raccomandava, come per esempio, quello di non percorrere la Via del Mare per raggiungere Ostia, perché particolarmente pericolosa. Le poche volte che andava a Ostia con il suo “maggiolino” sceglieva la via Cristoforo Colombo, ritenuta più sicura.

Sul terrazzo di casa, un giorno, legò un lenzuolo bianco su cui c’era scritto “Vendesi” e un numero di telefono, volutamente errato. Non amava le agenzie e voleva trovare direttamente un acquirente che possedesse i requisiti che aveva in mente.

Quando qualcuno chiedeva informazioni agli inquilini, si sentiva rispondere che le signorine erano irreperibili e solo una delle due veniva di tanto in tanto.

La cosa durò parecchio tempo, finché un giorno un signore di mezza età con la moglie vide uscire una anziana donna, piccola, magra, con scarpe da ginnastica. Si avvicinarono e chiesero notizie dell’attico. La signora si fermò, li squadrò con diffidenza e, avuta assicurazione che non fossero dell’agenzia, si tranquillizzò e cominciò a chiacchierare con la signora. Quando apprese che il marito era siciliano, originario di Acireale, cambiò subito atteggiamento. Si rallegrò, diventò espansiva:

“Ah, desideravo trovare un acquirente che fosse della mia terra. A lei venderò il mio attico con molto piacere!”

“Ma, signora, non ho ancora idea del prezzo che lei chiede!”

E quando riferì la somma richiesta, quel signore restò perplesso.

“Peccato, disse, potrei farcela, ma solo fra qualche anno!”

“Ah, se è per questo, non si preoccupi, sono disposta ad aspettare”.

Chiese il numero del telefono e se lo annotò su un taccuino.

“La chiamerò io!”

“Che proposta strana!”, fece il marito rivolto alla moglie.

In casa Venera e Agatina erano sempre più sole. Sempre sospettose, non parlavano nemmeno con i vicini. Solo Venera un paio di volte a settimana andava a fare la spesa al vicino mercato, avendo cura di spendere il meno possibile, di comprare la merce meno costosa, di prendere solo il necessario per loro, il gatto e il pappagallo.

Agatina si era ammalata, stava quasi sempre a letto o in poltrona, le tremavano le mani, a volte restava per ore a fissare il pavimento. Quando la sorella le parlava, non rispondeva, aveva perso la memoria. Finì col non ricordare più nemmeno il suo nome e col non riconoscere neanche Venera.

Il gatto un giorno uscì fuori in giardino e non tornò più. Venera faceva del suo meglio in casa, ma tutto era trascurato.

Una mattina Venera, sfogliando il suo taccuino, vide un nome e accanto il numero telefonico: si ricordò di quel signore gentile di alcuni anni prima. Chiamò e come se fossero trascorsi pochi giorni da quell’incontro, parlò con la signora. Quando sentì che loro avevano la somma disponibile per l’acquisto dell’attico, subito disse che allora si poteva andare dal notaio, senza altra formalità, senza preaccordo o anticipo di denaro.

A quei signori sembrava inusuale la procedura proposta, ma si limitarono a dire che entro una settimana potevano presentarsi dal notaio con l’assegno pattuito. Chiedevano, però, che la signora si facesse accompagnare da un parente o almeno da una persona di sua fiducia.

Il notaio conosceva già Venera, perché insieme con il fratello e la sorella erano stati più volte suoi clienti. Al momento della firma e della consegna dell’assegno, accadde un imprevisto. Venera sosteneva che la cifra concordata non era quella segnata sull’assegno, ma un’altra, maggiorata di una ventina di milioni di lire. Quel signore e la moglie si guardarono in faccia stupiti, poi, imbarazzati, spiegarono al notaio che la cifra era proprio quella dell’assegno. La persona di fiducia che aveva accompagnato Venera, gli si avvicinò e sottovoce gli disse che quella era stata sempre una vecchia abitudine della famiglia e che il notaio ne era a conoscenza.

“La accontenti, altrimenti salta l’affare!”

A malincuore, il signore tirò fuori il libretto degli assegni e firmò un secondo assegno. Poi, soddisfatta, Venera finalmente si decise a firmare con grafia incerta: Venera Liotta.

Era passato appena un mese, quando il telegiornale del mattino dette la notizia di due sorelle trovate morte nel loro appartamento da almeno quindici giorni.

Erano morte di inedia, praticamente di fame!

Vincenzo Fiaschitello è nato a Scicli nel1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali (Concorso Nazionale a 119 cattedre -D.M. 30 giugno 1969).  Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola alla Facoltà di Magistero Università di Roma. Direttore didattico dal 1974, preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.

E’ autore di vari saggi sulla scuola, di opere di poesia e di narrativa.

E’ presente nel sito Poesie Report On Line e nell’Antologia R. Pasanisi (a cura di) “Le mattine sono ancorate come barche in rada”. La poesia italiana contemporanea, Edizioni dell’Istituto di cultura di Napoli, 2023

Attualmente è redattore della Rivista culturale telematica “Il Pensiero Mediterraneo” (Redazione di Roma).

Vincitore della XXXIX edizione (2023) del Premio dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli e della rivista internazionale “Nuove Lettere” per la raccolta edita di racconti “Ginevra, racconti storici e non”, Avola, Libreria Editrice Urso, 2021.

Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore ordine al merito della Repubblica Italiana (2 giugno 1997).


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