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Gli inchiostri di Alberto Buttazzo tipografo artista

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Alberto Buttazzo nella sua Tipografia

Alberto Buttazzo nella sua Tipografia

di Maurizio Nocera

Tutte le volte, le mie passeggiate a Lecce inevitabilmente mi obbligano a percorrere una solita strada: da Porta San Biagio per Piazza Sant’Oronzo e i suoi dintorni. Dovete sapere che, subito dopo la Porta, c’è via dei Perroni e, appena prima della straordinaria chiesa architettonica di San Matteo, si trova la Tipografia del Commercio di Antonio e Alberto Buttazzo. Scrivo Antonio perché egli fu, assieme a suo padre Umberto, nel 1926 il fondatore della nota ditta, nata come Tipografia “La Teatrale” per via della passione dei Buttazzo per il teatro.

Alberto, recentemente scomparso (15 marzo 2023) è stato fino a ieri il titolare della ditta. Di questa importante azienda tipografica leccese, nel 2010, è stato pubblicato un libro – Antonio Buttazzo, tipografo leccese (Milella) -, che fa la storia della ditta e, in album fotografico, pubblica alcuni degli straordinari manifesti da essa stampati soprattutto nelle occasioni delle feste patronali.

Il motivo della citazione è dovuto al fatto che sempre, passando da lì vicino, mi sono fermato e sono entrato nella tipografia un po’ per salutare Alberto e un po’ per ammirare sulle sue pareti gli straordinari prodotti tipografici, alcuni dei quali risalgano alla prima metà del secolo scorso.

Una volta capitò che Alberto mi passò sotto gli occhi un foglio inchiostrato da una delle sue macchine tipografiche piane. Egli riteneva trattarsi di un’opera d’arte. Nell’ammirarlo, rimasi alquanto sorpreso, perché si trattava di un mezzo folio con la scritta sotto-impressionata Gallipoli deve rinascere! Sulla carta dominava l’inchiostro tipografico, elemento su cui si basano alcuni degli interventi artistici del tipografo; interventi che, a volte, più che altro sono il frutto della casualità del lavoro, e che tuttavia sta anche nell’occhio artistico del tipografico accorgersi della loro eccezionalità.

Uno dei primi a commentare l’arte di Alberto Buttazzo fu Vittorio Balsebre, leccese, anch’egli artista e critico d’arte, il quale su «L’Ora del Salento» (3 febbraio 1971), scrisse:

            «Buttazzo, servendosi di tecnica personalissima, cioè la macchina tipografica a rulli, riesce a trasferire sulla carta le immagini di una sua idea informale, propria, riallacciandosi, così, anche inconsciamente, ai grandi nomi dell’antifigurabilità (come Pollok, ad esempio), che con grovigli di colore intrecciandosi sulla superficie crea un’immagine spaziale e formale di rilevante interesse: dei nuclei in cui l’intensità cromatica più o meno si accentua o si rarefà per costruire la trama dinamica dell’opera./ In essa si riscontrano i segni di un’azione esercitata con punteruolo che stanno a determinare anche, e soprattutto, una ricerca materica, se non addirittura di spazio, perché l’intensità dell’intervento non risulta proprio tale da forare la superficie cromatica ma solo di scalfirla e violentarla in maniera e senso segnico e gestuale ad un tempo. Le superfici ottenute da Buttazzo risultano così di una tale intensità e di un assommarsi di esperienze informali di diversa provenienza ed estrazione, ma sempre ottimamente sostenute e tali, comunque, da sostanziare l’efficacia operativa per un’ulteriore esplicazione che emana dai suoi lavori evidentemente concretizzata./ Ma si ingannerebbe chi pensasse che solo perché Buttazzo adopera la macchina tipografica quale mezzo (cioè tecnica) d’espressione per ottenere le sue opere, fosse meno persuasivo ed efficace. D’altronde tali opere non si possono paragonare a quelle calcografiche o a categorie affini. Egli infatti usa la macchina e gli inchiostri da stampa, come altro operatore usa la spatola o il monotipo, o qualsiasi altro mezzo tecnico per ottenere un’immagine proiettata dalla sua percezione interiore poetica in una formale».

Alberto Buttazzo nella sua Tipografia

Ovviamente, qui non dico di un artista sprovveduto, aggiuntosi al lungo elenco degli artisti salentini. Affatto. Anzi dico questo, perché Alberto Buttazzo è stato artista da sempre, cioè sin dalla gioventù, proprio da quando, assieme ad altri pittori, scultori, fotografi e poeti, diede vita al Gruppo d’avanguardia artistica leccese «Gramma» verso la fine degli anni ’60.

Su un altro numero di «L’Ora del Salento» (27 ottobre 1971), sempre Balsebre scrive una nota critica, intitolata Buttazzo commemora un 18° anno. Eccola:

            «Buttazzo, nel n. 3-4 di “Gramma” (la già nota rivista del Centro omonimo) presenta una felice impaginazione dell’ormai suo simbolico “18”. Il numero che per lui ha un significato affettivo e reale, perché commemora una data, un’età: quella di una persona a lui cara [la moglie Maria Rosaria]. Un numero che Buttazzo ripete da qualche tempo, come intervento estetico, sempre presentato con una felice intuizione./ Il foglio, questa volta, esce dal “Gramma” per ingrandirsi e moltiplicarsi: diventa manifesto sui muri della città, si articola così in una mostra sui generis ed investe, o può investire, il passante che avrà occhi per guardare. È l’opera che va al pubblico e l’idea è felice per una manifestazione di più vasta portata che possa coinvolgere più operatori ed anche più parte del pubblico».

Dunque, il mezzo folio (35 x 50 cm) inchiostrato, di cui scrivevo prima e che mi sorprese perché dominato dalla scritta Gallipoli deve rinascere!, era un foglio di base sicuramente di scarto con una grammatura modestissima, penso ai 60 gr., risultato di un doppio passaggio sotto i rulli della macchina tipografica, in quanto l’inchiostrazione presentava due livelli di tono, uno scuro intenso, l’altro grigio fumo di Londra. Sul recto e sul verso del foglio, in alcuni punti appaiono dei fulmini di bianco immacolato nell’immensità del nero, effetto questo sicuramente ottenuto attraverso la possibile e casuale piegatura del foglio nel passare sotto i rulli.  Il risultato estetico è di una bellezza straordinaria, almeno per chi, come me, ama l’arte della stampa tipografica.

Bellezza e straordinarietà dell’opera di cui immediatamente si era accorto lo stesso tipografo artista, vale a dire Alberto Buttazzo, il quale non cestina il foglio di scarto, divenuto ormai opera d’arte. Di questo modo di fare tipografia si era accorto subito anche il noto critico d’arte leccese Toti Carpentieri il quale, nella presentazione della Personale di Alberto Buttazzo alla Galleria Maccagnani di Lecce (20-28 febbraio 1969) scrive:

            «Impronte./ Una realtà oggettuale che esiste soltanto a livello di stimolo, o meglio di mezzo, identificandosi nell’intervento meccanico dell’operazione, che però la condiziona asservendola ad una volontà di ricordi onirici./ Immersi in plumbee atmosfere da smog, vengono fuori fantasmi kafkiani che, smarrita la strada del ritorno al Castello, vagano angosciosi ammantandosi di bianco o vermiglio, e lasciando ben nitide le impronte del loro cammino. / Ego, super-ego, es./ Anche Michaux e il calligrafismo Zen non sono esenti da una compartecipazione a livello di inconscio, ma lo sguardo di luce, improvviso, violenta l’uniformità delle tenebre, fermando nella retina la ripetizione filmica dell’impronta, sia essa assurda o reale nella sua leggibilità./ Un groviglio di atomi, come presenza di qualcosa che non c’è, e come assenza dell’essere: massima indeterminazione heisenberghiana./ Ma la luce ritorna, sempre più violenta e continua, ed il Castello si fa forza nella nebbia: Franz e Sigmund, ora, sono insieme».

Straordinaria lettura psico-artistica quella del noto critico d’arte leccese, in quanto legge e interpreta giustamente un’estetica affatto facile. Infatti, nella storia dell’arte in generale, è raro incontrare l’uso delle macchine tipografiche per esprimere un sentimento, un modo d’essere, un sensato modo di fare dell’umana esistenza. Per conoscere la bellezza tipografica, di sicuro dobbiamo andare a quel grande di Magonza (Johann Gutenberg) e alla sua invenzione dei caratteri mobili, che per primo impresse sulla carta la splendida e mai superata Bibbia delle 42 linee (1455), oppure andare allo splendore della tipografia di Aldo Manuzio a Venezia a cavallo dei sec. XV-XVI, oppure andare ancora alla bellezza dei caratteri tipografici di Giambattista Bodoni nella Parma di fine Settecento, o infine alla bellezza e vitalità tipografica della Stamperia di Alberto ed Enrico Tallone di Alpignano. A tutto ciò va aggiunto il bellissimo carattere Dante, ideato da Giovanni e Martino Mardersteig.

Comunque, in tutti i casi citati, si tratta di bellezza dei caratteri, di una particolare tipologia di carta e inchiostri, di una straordinaria cura aurea dell’impaginazione; invece, in Alberto Buttazzo, tipografo artista, ciò che egli ha messo in movimento è una visione coscienziale dell’uso degli macchine a lui congeniali per lavorare e vivere: l’ottocentesca macchina tipografica per stampare i prodotti richiesti da una molteplice clientela (manifesti teatrali, pubblicitari e per le feste patronali, pirottini, bigliettini da visita, piccole brochure per mostre d’arte e poesia, ecc.). I caratteri che egli ha usato, quasi sempre sono stati quelli della ormai scomparsa ditta “Nebiolo” ma anche altri che suo padre Antonio si era fatto costruire in legno. Oggi tutta questa meravigliosa e preziosa materia d’archivio è sempre lì nella vecchia Tipografia del Commercio di via dei Perroni. Anche per la carta e gli inchiostri, Alberto mise sempre una certa preferenza, ad es., i prodotti ditta “Etelia” di Firenze. È su questa attrezzatura tipografica, tipicamente usata per la produzione, che si è basò l’arte di Alberto Buttazzo che, con i suoi interventi, ha segnato, con una nota di modernità, il gruppo «Gramma».

Alberto Buttazzo nella sua Tipografia

Sull’opera che allora presi in esame, ci fu un’altra interessante curiosità: nella mezza colonna fumo/nero, erano ancora leggibili alcune parole, in primo luogo il titolo – Gallipoli deve rinascere! -, poi una parte di testo, che trovo interessante e attuale alle vicende politiche della Città bella. Lessi la parte ancora esistente:

            «Una scelta decisiva.// Gallipoli vota di nuovo e ancora una volta i suoi cittadini si trovano di fronte a una scelta. Una scelta che è politica e amministrativa ad un tempo. Vi è infatti uno stretto legame fra una politica seguita dai partiti di governo e la situazione critica in cui si trovano i Comuni, tra la politica del Centro sinistra e il caos e la paralisi in cui è stata gettata Gallipoli./ L’arbitrio antidemocratico del governo e dei tre partiti che lo rappresentano [… riferimento alla situazione nazionale] rende sempre più grave la crisi delle autonomie locali./ Paralizzati dalla politica di forti tagli della spesa e della mancata riforma della finanza locale e della legislazione comunale e provinciale, vessati da controlli sempre più pesanti, i Comuni e le Province d’Italia richiedono oggi, perché possa sopravvivere e svilupparsi l’ordinamento autonomistico previsto dalla Costituzione, un profondo mutamento degli indirizzi del governo di Centro sinistra./ Attuare subito le regioni a statuto ordinario (fra queste la Puglia), affermare la finanza locale, predisporre una nuova legge urbanistica, garantire il carattere democratico della programmazione attraverso la partecipazione responsabile degli Enti locali: questi sono oggi i punti fondamentali e urgenti di un programma di difesa delle autonomie comunali./ Nessuno dei gravi problemi dell’Italia Meridionale è stato risolto e neppure affrontato. Migliaia e migliaia di lavoratori continuano ad emigrare e la nostra provincia è tra le più colpite. Gli investimenti vengono compiuti senza tener conto delle effettive esigenze della popolazione, ma sono esclusivamente determinati dalla scelta dei grandi monopoli e dei gruppi politici dominanti, dando luogo a “fughe” di miliardi e ad una catena di scandali».

Il documento elettorale continua sull’altra colonna del foglio-giornale, che si presenta fortemente inchiostrata, per cui mi fu impossibile leggerla.

Accortomi di questo interessante testo politico elettorale, chiesi ad Alberto quale era la data del suo intervento tipografico e chi fu il committente del foglio-giornale. La sua risposta fu lapidaria: metà degli anni ’60 e committente l’on. Mario Foscarini, il quale scrisse il testo in tipografia, lì lo corresse, poi aspetto qualche giorno. Ritornò, se lo fece dare, quindi lo pagò.

Altri tempi e altri uomini, la cui correttezza, onestà, sincerità, amore per la propria comunità, rispetto per il Bene Comune e per il benessere dell’umanità sono principi inderogabili. È in tutto ciò che stava [e sta, perché la sua bozza esiste ancora in tipografia] la straordinarietà di quel foglio-giornale, inchiostrato dal tipografo artista Alberto Buttazzo e scritto dall’indimenticabile amico del popolo Mario Foscarini.

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