IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

La religione della crescita: un commento al libro di Serge Latouche “Limite”, Bollati Boringhieri, Torino, 2012

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Serge Latouche

di Vincenzo Fiaschitello

Il secolare percorso che ci ha portato dal “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, cioè il necessario, l’indispensabile per poter sostenere la nostra vita di ogni giorno, ai bisogni sempre più sofisticati e illimitati del nostro tempo sapientemente gonfiati dalla pubblicità aggressiva e subliminale, nonostante tanti segnali che avrebbero dovuto indurci già da oltre un secolo ad arrestarne la marcia o comunque a imprimergli una rotta diversa, più vicina alle reali esigenze dell’uomo, è continuato nella direzione del progresso inarrestabile.

   Ma, si domanda Serge Latouche nel saggio che ha per titolo “Limite”, è mai possibile credere veramente che una crescita infinita sia realizzabile in un mondo finito?

Come mai e soprattutto quando l’uomo occidentale elabora la logica della crescita esponenziale illimitata?

   Latouche scrive che è intorno al 1850 che l’occidente imboccando la strada termoindustriale “ha dato consistenza al suo desiderio di sposare la ragione geometrica, ovverosia la crescita infinita, sogno che si manifesta almeno a partire dal 1750 con la nascita del capitalismo e dell’economia politica” (S.Latouche, Limite, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p.56 ).

   Non c’è dubbio però che presupposti fondamentali, che riconoscono il potere dell’uomo, si possono riscontrare anteriormente a quest’ultima data, se non anche nella notte dei tempi del mito: Giasone che va alla ricerca del vello d’oro; Ulisse che vuole infrangere il limite delle colonne d’Ercole.

   Si può dire che tutto il pensiero occidentale sin dal Rinascimento è orientato a esaltare l’uomo, la sua capacità di agire, di costruire, di conoscere la natura.

   Liberandosi dalla logica del concetto scolastico, si scopre quella del concetto matematico. Dalle regole del metodo cartesiano si passa alle regole di Newton procedendo per analisi anziché per deduzioni. Se per Cartesio, Malebranche, Spinoza e Leibniz la ragione è il territorio delle verità eterne, comuni allo spirito umano e a quello divino, per gli illuministi la ragione, più che un complesso di idee innate date prima di ogni esperienza, è un processo, una data forma di acquisto, una forza, una funzione straordinaria importante per la sua capacità di legare e di sciogliere.

   Questo mutamento del modo di pensare che vale per tutti campi del sapere (politica, economia, etica, psicologia, ecc.) si pone il compito di eliminare ogni residuo di pensiero metafisico e soprattutto di sottrarre allo stesso concetto di natura l’appoggio del concetto di Dio.

Scrive Latouche: “lo sviluppo scientifico…[è] l’affermazione della potenza del razionale. La geometrizzazione galileiana del mondo sfocerà nella pretesa baconiana e cartesiana di padroneggiare l’universo…L’uomo pretende di ricreare il mondo meglio di quanto hanno fatto Dio e la natura” (S.Latouche: Limite, pp.79-80).

   Si dà il benservito al concetto bruniano della natura intesa come partecipante dell’originario essere divino; ci si allontana definitivamente dal concetto spinoziano  di  Deus sive natura. E’ l’uomo con l’originaria spontaneità ed energia del pensiero, con la sua abilità tecnica e di sperimentazione a plasmare a suo piacimento la natura.

   Il tema celebrativo della scienza e del progresso è molto presente in letteratura. Un poeta come Vincenzo Monti, attento a inneggiare agli eventi politici, culturali, scientifici straordinari del suo tempo, nell’ode al “Signor di Montgolfier” lo fa con molta efficacia. Alludendo alla decomposizione dello spettro solare eseguita da Newton e agli esperimenti di Galilei e Torricelli scrive: Dal sole i rai dividere /pesar quest’aria osasti /la terra, il foco,il pelago /le fere e l’uom domasti.

   L’uomo non vuole impedimenti, condizionamenti negativi, intende esercitare la propria libertà. Anche le frontiere possono farlo sentire prigioniero: vuole essere cittadino del  mondo.

   Il desiderio di potere tutto, l’idea di un progresso continuo e inarrestabile, la convinzione che i lumi della ragione non conoscano ostacoli né possano ammettere barriere, insuperbisce l’uomo al punto da fargli rigettare ogni tipo di limite e da rifiutare la stessa norma morale. E giustamente Latouche parla di una metafisica progressista della illimitatezza, caratteristica della modernità occidentale. Scrive: “Rifiutare ogni limite, trasgredire, sembra diventato l’unico ideale morale di una ipermodernità in crisi” (S.Latouche: Limite, p.92).

   Tale tendenza si riscontra anche nei piccoli eventi quotidiani cui abbiamo occasione di assistere, come per esempio, l’acceso desiderio di adolescenti e giovani che incollati ai videogiochi sperimentano la passione di liberarsi degli stessi limiti fisici, vivendo straordinarie avventure virtuali.

   Il sogno di onnipotenza è strettamente legato al rifiuto dei limiti della conoscenza, dei limiti ecologici, dei limiti economici, dei limiti politici, dei limiti morali, dei limiti geografici o territoriali in nome della religione della crescita.

  L’attuale crisi economica che ha creato un altissimo livello di tensione sociale in quasi tutti i paesi industrializzati ha condotto la nostra realtà socio-politica-economica a una fase di decrescita. Il concetto di decrescita si è diffuso sin dagli anni settanta del secolo scorso ad opera dell’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen e delle importanti anticipazioni dei lavori del Club di Roma diretto da Aurelio Peccei (Rapporto sui limiti dello sviluppo,1972).

S.Latouche che da sempre in tutti i suoi saggi è stato un convinto fautore della decrescita spiega che con questo termine si vuole non tanto un improbabile e niente affatto desiderato ritorno  alla “barbarie”, alla povertà, quanto la necessità e l’esigenza di un cambio di paradigma, di una inversione di tendenza rispetto al modello dominante della crescita e della accumulazione illimitata di merci. Ciò che egli rimprovera alla civiltà occidentale è il fatto più che evidente che “l’impatto dell’azione umana ha raggiunto un livello tale da perturbare e modificare il funzionamento dell’ecosistema terrestre” (S.Latouche: Limite, p.50).

   Ne derivano problemi gravissimi che sono sotto gli occhi di tutti: rifiuti, inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria, distruzione delle foreste, esaurimento delle risorse della terra.

   E’ così che la produzione economica rompe con la natura, non incontra alcun limite ecologico. Ma quel che più stupisce per la gravità del problema è che la scienza economica ignora “l’entropia,

ovverosia la non reversibilità delle trasformazioni dell’energia e della materia. In questo modo i rifiuti e l’inquinamento pur essendo prodotti dell’attività economica non vengono fatti rientrare nelle funzioni della produzione” (S.Latouche: Limite, p.51).

   I riflessi socio-politici di una economia che punta alla crescita illimitata, all’aumento sfrenato e senza controllo dei consumi e alla massimizzazione del profitto, sono la fagocitazione della sfera politica dall’economico, la disintermediazione finanziaria, la deregolazione sociale, la globalizzazione. S.Latouche scrive:” lo stadio supremo dell’onnimercificazione del mondo distrugge le solidarietà fondanti del legame sociale a tutti i livelli”(S.Latouche: Limite, p.32).

   In effetti la mondializzazione o globalizzazione diventa la guerra di tutti contro tutti, cioè di una condizione sociale simile a quella descritta da Hobbes. Il guaio, però, è che non sembra apparire all’orizzonte la possibilità di un “contratto” che serva ad assicurare un certo grado di sicurezza. Ci troviamo a constatare con amarezza la nascita di una pericolosa oligarchia plutocratica mondiale. Vediamo sempre più spesso che i capi di stato nazionali si dimostrano “onnipotenti rispetto ai loro amministrati nell’applicazione puntigliosa di regolamenti oppressivi, ma totalmente soggetti agli ordini dall’alto e dipendenti dal potere centrale e gerarchico”( S .Latouche: Limite, pp.28-29 ).

   Il potere centrale è anonimo e senza volto, per cui si può dire che, se non si cambia il tipo di economia, tutti i vantaggi sono per quei pochi che hanno poteri senza territorio e che nulla resta per la moltitudine che è priva di potere nel proprio territorio.

   Con la globalizzazione assistiamo a un vero e proprio gioco al massacro interculturale su scala planetaria. Il libero scambio culturale ed economico è una ingiustizia  perpetrata  dalle potenze economiche dominanti ai danni del resto del mondo.

   Ora dunque parlare di decrescita significa non solo immaginare un nuovo tipo di economia, ma anche un nuovo tipo di società. Si pensi alla società conviviale di Ivan Illich, il quale nel concetto di convivialità vede il passaggio dalla produttività senza freni a un valore etico che ci aiuti a riconoscere l’esistenza di scale e di limiti naturali.

   Relativizzare le nostre credenze, metterci al posto dell’altro è indispensabile se non si vuole perdere la conoscenza di se stessi. La decrescenza coltiva il sogno di un pluriuniversalismo, espressione di una vera democrazia delle culture, liquidando così  l’ideologia del senza frontiere. Scrive S.Latouche: “le frontiere per quanto arbitrarie possano essere (e c’è da sperare che lo siano il meno possibile) sono indispensabili per ritrovare l’identità necessaria allo scambio con l’altro”(S.Latouche: Limite, p.36).

   Salvaguardando la nostra identità e riconoscendo quella degli altri siamo nella condizione migliore per lo scambio interculturale. Se c’è l’annullamento di una delle parti, non c’è rispetto, non c’è “distanza”, non c’è il limite che ci consente di operare correttamente.

   Si tratta dunque di ritrovare il senso del limite in tutti gli aspetti del vivere sociale. Il concetto di limite è accostabile a quello di distanza, a quel concetto di distanza al quale si riferiva Malebranche. Se non vogliamo essere e agire da “pazzi” dobbiamo sempre porre tra noi e le cose una distanza, senza la quale si sfocia nella pazzia. Il pazzo in effetti è quello che dice: io sono l’albero; io sono la spazzola, ecc., proprio perché l’albero, la spazzola, gli sono entrati “dentro”. Il rispetto, la distanza, sono dunque il limite che l’uomo deve mantenere in ogni circostanza del suo operare culturale, economico, politico, scientifico, etico.

   S.Latouche così scrive: “l’autolimitazione, ritrovare il senso del limite, è una questione che si pone per l’individuo, ma ancora di più per l’essere collettivo: l’umanità o la società”. E conclude citando André Gorz: ”l’autolimitazione si sposta dal livello della scelta individuale al livello del progetto sociale. La norma del sufficiente, in mancanza di un riferimento nella tradizione, va definita politicamente” ( S.Latouche: Limite, p.105).

   Ecco allora aprirsi un problema colossale.

   Come si potrà ragionare sulla norma del sufficiente?

   Chi, quale autorità politica, giuridica, morale, potrà assumersi il compito di descrivere efficacemente la norma del sufficiente per questo o quello individuo, per questa o quella famiglia, per questa o quella comunità, per questo o quel popolo?

         All’uomo del doposviluppo, di Vincenzo Fiaschitello

A Serge Latouche, filosofo ed economista

Appartieni alla generazione

che nell’occidente ha visto il rapido

mutamento dai cigolanti carri,

che frangevano il silenzio dell’alba

che spegne i lumi e fuga le paure

della notte, ai roboanti motori.

Quando tutta la bellezza dell’universo

chiusa sembrava nell’azzurro mattino

declinando l’aspro inverno

il ruvido e vecchio contadino

i tralci della vite legava

e la tenera borragine dalla secca

gramigna liberava

scrutando le nubi del cielo tra le quali

s’impigliavano i suoi pensieri

ricordando l’allucinato rosso

dei papaveri che specchiavano il sole

di una vita sobria e armoniosa.

Le sue azioni e i gesti più semplici

ora stringere le fascine,

ora attingere la preziosa acqua

alla cisterna o al torrente

che con tremula scia correva via,

tutto aveva il segno di reciproco

rispetto e del permanere

di una vita genuina e umana

senza inutile spregio di risorse.

Lavorava per la prossima alba

di quanti altri dopo di lui

avrebbero respirato l’azzurro del cielo.

Pur così vecchio continuava

a piantare ulivi e fichi

per gli dei immortali, non volendo

solo ricevere dagli antenati

ma anche trasmettere ai suoi discendenti.

Miserere uomini del sud del mondo

dell’agognata avidità travestita di pietà

e generosità che Truman rivelò

con il suo programma di aiuto tecnico

capace di cancellare sofferenza e povertà.

Lo sviluppo, falso mito, ha generato

col saccheggio sfrenato delle risorse

naturali una nuova colonizzazione

lasciando solo briciole ai molti

cambiando la frugalità in miseria.

Simile a stella morta, di cui ancora

si vede la luce anche se spenta

per sempre, è da tempo

a vantaggio di quei pochi

che hanno poteri senza territorio

e niente lasciano ai territori

che sono privi di poteri.

Giunto è il tempo del doposviluppo

o della decrescita che non è povertà

o privazione di benessere, ma frugalità,

moderazione nel cogliere quanto

la natura dona, catoniana sobrietà,

fusione dell’uomo con il cosmo.

Uomo del nord se mi rubi

anche l’azzurro del cielo

e le dolci acque del fiume

non mi resta che la tristezza

infinita che come pietra malata pesa

sul mio cuore nel nulla sospeso.

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