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Il “Silos”, i migranti  e le città: Trieste caso emblematico?

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Il Silos di Trieste

Il Silos di Trieste

di Enrico Conte

Il 18 dicembre è stata la giornata internazionale dei diritti dei migranti, ricorrenza  preceduta dal Forum Globale dei Rifugiati a Ginevra, un incontro che è servito per fare un punto con i soggetti, pubblici e privati, organizzazioni internazionali, associazioni, autorità locali, che hanno un ruolo nel sostegno alle persone rifugiate.

Si calcola (f.te Unhcr) che il numero degli sfollati continui a crescere nel mondo e che abbia superato i 114 milioni, persone che fuggono da guerre (Afganistan, Siria, Ucraina) e crisi climatiche in Africa. Al Forum hanno partecipato anche realtà italiane che hanno dimostrato la capacità di saper valorizzare i talenti e le competenze dei rifugiati che possono generare benefici per il sistema paese, attraverso percorsi di inclusione lavorativa e sociale.

Le città, sotto questo profilo, rivestono un ruolo simile a quello di una cartina di tornasole, perchè sulle stesse si scaricano, in primissima battuta, i migranti che cercano asilo, attratti dal  benessere e dalla libertà.

Le guerre, i conflitti, che non sono solo immagini di distruzione sui nostri piccoli e grandi schermi, le crisi economiche, sono fatti che lasciano tracce sui territori, in forme striscianti, attraverso fenomeni complessi, i rincari, le transizioni energetiche e ambientali, quelle digitali (si pensi all’impatto generato dagli acquisti on line e dalla chiusura dei negozi di vicinato), le carovane di persone-migranti che, dopo distanze chilometriche, toccano le città, magari solo per poter chiedere asilo e poi andare a vivere  in altri paesi europei.

Non sfugge a questa dinamica quanto sta accadendo a Trieste, al suo “Silos”, un bene di archeologia industriale, storico-culturale e paesaggistico sottoposto a tutela che, nel secondo dopoguerra, ospitò gli esuli istriani, quelli dell’esodo, i “rimasti” in Jugoslavia, costretti a fuggire all’estero.

Un edificio, collocato in posizione centralissima che, da circa venticinque anni, lo spazio temporale di una generazione, versa in stato di abbandono e, che negli ultimi tempi, è diventato ricovero “osceno”, difficile trovare altre parole per descrivere un inferno dove si trovano accampati, in tende di fortuna, in mezzo ad acquitrini e rifiuti di ogni sorta, pakistani, afghani e umanità varia della “rotta balcanica”. Perchè è qui, a Trieste, che termina questa rotta che dieci anni fa, con partenza dalla Turchia, ha iniziato a produrre i suoi frutti gettando sulla crosta urbana, come fossero scarti, umani di ogni etnia, uomini a volte con famiglie al seguito e ragazzi anche minorenni.

Una realtà che non viene vista, che sembra attraversare, senza lasciare traccia, lo sguardo di tanti, nonostante faccia parte del paesaggio urbano (è collocata a ridosso della Stazione centrale) e della  sua storia, individuale e collettiva.

Quello che, dopo la seconda guerra mondiale era diventato il “Silos”, lo raccontano i romanzi di Marisa Manieri e “Vita a Palazzo” di Annamaria Zennaro Marsi:…” in quel sito vivevano migliaia di profughi, era un edificio immenso, costruito sotto l’impero asburgico come deposito di granaglie, una stazione di treni, con un grande cortile interno e dove i bambini giocavano e le donne stendevano i panni. L’interno era diviso in box, come celle di alveare, alcuni avevano un nome, come un nome avevano le strade interne, la dalmata, la polesana, la via della cappella e dei lavandini. Entrare nel Silos era come entrare in un paesaggio vagamente dantesco, in un notturno e fumoso purgatorio. Odori di cottura, di minestrone, di sudore, le note di una radio, un colpo di tosse, il pianto di un bambino. Le raffiche di bora filtravano da ogni dove”.

Tuttavia, quello che si vede accanto alla Stazione centrale dei treni non conta, come sembrano non contare neanche i dati sul flusso di migranti il cui significato si coglie se solo gli stessi venissero incrociati con quelli forniti dalle fonti ufficiali: circa 45 persone al giorno che arrivano dalla rotta balcanica, delle quali, non oltre 6, sempre al giorno, chiedono asilo, le restanti sono persone in transito per altri paesi. Ciò nonostante il tema viene raccontato e fatto percepire come fosse un’emergenza, uno dei tanti prodotti della fabbrica della paura, di estrazione non solo locale.

Mentre il problema è perlopiù costituito dalla risposta, lenta, del sistema pubblico, dall’assenza di un luogo dignitoso dove i migranti in arrivo possano dormire e ricevere il primo soccorso. Basterebbero 100 posti letto a rotazione, dichiara il  Consorzio italiano di Solidarietà e, come prevede la legge 142 del 2015, servirebbe uno sforzo organizzativo maggiore della Prefettura che tratta le domande di asilo, accompagnato da una risposta legata al fabbisogno effettivo da parte degli enti locali.

Il risultato è che al “Silos” dormono circa 200 migranti, nel mentre 6 persone al giorno chiedono asilo, allungando una lista di persone in attesa di ricevere una risposta, prima di essere inserite nel sistema di accoglienza diffusa in città (1270) o inviate in altri luoghi.

Eppure quel sito, sia che lo si consideri bene storico-culturale per il suo passato con gli esuli istriani, che porzione del paesaggio urbano, dovrebbe essere “tutelato e valorizzato a partire da iniziative dello Stato, della Regione e degli altri enti territoriali attraverso intese”, con la possibilità che al soggetto proprietario vengano assegnati termini per la presentazione di interventi per il recupero (artt 131 e  133, Codice dei beni culturali e del paesaggio). 

Sembra lecito chiedersi, allora, se il “Silos” di Trieste non sia anche assurto a paradigma distopico di un certo clima sociale, frutto, potrebbe dirsi, di un “processo di smaterializzazione del corpo e delle cose” ( Daniele Del Giudice), che porta a considerare quell’edificio come un  bene extraterritoriale e, ciò che accade al suo interno, al più, l’oggetto di un brevissimo reel sui social, in tempi di “realtà aumentata ma di immaginario senza sogni, in un mondo reale che cerchiamo di non vedere, mettendoci un filtro virtuale dietro cui  rifugiarci”(Subsonica).

Sembra inutile dire che il “Silos” meriterebbe un trattamento diverso, magari una risposta al  problema della realizzazione di una sede (dignitoso ricovero, come accade a Pordenone), di civile smistamento per i richiedenti asilo (art 10 Cost ), ma anche un intervento che non mortifichi la sua memoria storica, rispetto alla quale sembra agire, piuttosto, un cortocircuito, una potente amnesia, un velo di rimozione, una postura che rimanda a qualcun altro (chi?) il compito di risolvere il problema, lasciando che nel frattempo si produca la dispersione di migranti senza meta per le strade urbane.

Un tentativo di innescare una reazione, un “sussulto di  dignità”, lo si deve ad una iniziativa del vescovo Enrico Trevisi e del mondo dell’accoglienza, CIS, con il suo Presidente Gianfranco Schiavone, Diaconia Valdese, Comunità di Sant’Egidio, San Martino al Campo, Linea d’Ombra, Donk e Caritas. All’incontro non hanno partecipato rappresentanti della Regione e del Comune, il Prefetto è intervenuto con una nota con la quale ha comunicato che la provincia di Trieste accoglie 1270 immigrati e  che, da inizio anno, sono stati trasferiti 1500 richiedenti asilo.

Come sottofondo, il silenzioso-rumore-assordante della società civile che appare caduta in una paralisi da aporia, in un letargo interrotto da alcune dichiarazioni di partiti locali.

E in un periodo storico, ci ricorda Carlo Galli, “di una democrazia, sospesa tra ordine e conflitto, che si dovrebbe manifestare non tutta dentro le istituzioni, ma anche nella società mobilitandola e dove il popolo non è solo un insieme di individui che eleggono un parlamento, ma anche una presenza attiva che si muove secondo diverse modalità che esprimono un conflitto”.

Il punto è che, lo si dice con grande umiltà e senza sottrarsi alla complessità della materia, il fenomeno migratorio andrebbe analizzato e affrontato collegandolo ad altri fenomeni epocali e strutturali, per tutti, il calo demografico, l’emigrazione dei giovani e il mismatch tra domande e offerte di lavoro: si calcola in circa 400mila unità il numero di posti di lavoro che restano scoperti per assenza di figure professionali adeguate e specificamente formate (f.te Istat).

Allora, più che un “sussulto di dignità” forse potrebbe servire, ancora di più, “un sussulto di interesse prospettico”, prendendo spunto dalle pratiche virtuose di  quei centri che funzionano del SIA, Sistema di Integrazione e Accoglienza, previsti dalla legge 142 del 2015, ai quali è affidata una serie di compiti: di assistenza materiale, sanitaria e linguistica, di formazione e orientamento lavorativo da gestire con progetti dei quali possono essere titolari gli enti locali.

Nell’epopea di Gilgamesh si narra dell’iniziativa del Sovrano di un  centro Sumerico, Uruk, che fece costruire un muro che servisse per recingere l’abitato e per difenderlo dalle ricorrenti incursioni dei nomadi vicini. Fatto epocale che, simbolicamente, segnò il passaggio da una situazione cangiante di un luogo abitato alla separazione tra ordine e caos, e alla nascita della città.

Siamo ancora lì, verrebbe da dire, portati indietro dalle immagini dei corridoi maleodonaranti del “Silos”, peraltro ingigantite, per contrappasso, da quelle de”Il male non esiste”, titolo di un potente film di R. Hamaguchi nelle sale cinematografiche, ma con la consapevolezza aggiuntiva che, in questo caso, lo struzzo-umano, con i suoi ricorrenti automatismi, esiste si, eccome.

Enrico Conte

Redazione di Trieste


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