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“Melanzana” o “melenzana”?

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melanzane

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di Mario Pintacuda

Una carissima amica palermitana mi raccontava ieri di essere stata corretta pochi giorni fa da suo figlio (che vive a Milano con la famiglia) quando, a tavola, ha usato il termine “melenzana” con la “e”: il “nordicizzato” figlio ha infatti avuto buon gioco a correggerla e a farle notare che la forma italiana corretta è “melanzana” con la “a”.

Su questo punto, in effetti, i vocabolari sono unanimi: il Devoto-Oli afferma che “melanzana” è il «nome italiano della pianta “Solanum melongena” delle Solanacee, di probabile origine asiatica, e del suo frutto»; il termine deriva «dall’arabo “bādingiān” incrociato con l’it. “mela”».

Concordano in tutto, per citarne solo altri due, il vocabolario De Felice – Duro e il Garzanti.

Tuttavia è innegabile che qui a Palermo, e più in generale nel Sud d’Italia, esiste una diffusissima varietà linguistica che dice senz’altro “melenzana” con la “e”.

Chi ha ragione?

A sostegno della tesi “meridionalistica” va detto che la forma “melenzana” (con la “e”) è quella più anticamente documentata: il TLIO (“Tesoro della lingua italiana delle origini”) registra soltanto il femminile singolare “melençana” (“colore de la melençana”), che si trova due volte in una traduzione padovana – dal latino all’italiano – di un trattato di medicina arabo (fine del ‘300).

Di “melenzane” o “melanzane”, però, nel Medioevo si parla assai poco: il delizioso ortaggio era stato introdotto in Europa dagli Arabi, ma all’inizio non dovette avere molta fortuna in cucina; anzi, a quanto pare, la melanzana (chiamata allora “petronciano” a Firenze) aveva la brutta fama di procurare la pazzia, come attesta una delle novelle del “Novellino” (fine XIII secolo): «Maestro Taddeo, leggendo a’ suoi scolari in medicina, trovò che, chi continuo mangiasse nove dì di petronciani, che diverrebbe matto; e provavalo secondo fisica».

A questo proposito, nel ‘500 il medico senese Pietro Andrea Mattioli immaginò (con riferimento ai presunti effetti nocivi della melanzana) che la parola fosse un composto di “mela” e “insana”.

Dal Cinquecento in poi, però, di “melenzane” si hanno varie citazioni: per dirne una sola, in una lettera del mercante veneziano Martino Merlini (1512) si trova questo plurale con la “e”; cfr. M. Cortelazzo, Dizionario veneziano della lingua e della cultura popolare nel XVI secolo, Limena (PD), La Linea Editrice, 2007, p. 807.

Il “Grande dizionario della lingua italiana” (GDLI), monumentale dizionario storico della nostra lingua, documenta la persistente oscillazione, nell’uso, fra i plurali “melanzane” e “melenzane” ancora nel ‘500 e forse oltre; tuttavia, nel ‘700 e nell’800 la forma con la “a” resta ormai l’unica a essere registrata nei dizionari italiani. Quanto al Vocabolario della Crusca, attesta che almeno fino all’Ottocento i termini “petronciano” e “melanzana” erano in concorrenza tra loro, con graduale e irresistibile affermazione del secondo sul primo.

Come si giustifica l’oscillazione vocalica “a/e” nel nome dell’ortaggio? L’arabo “bādingiān” ha subìto numerose modifiche, storpiature e adattamenti nel passaggio ad altre lingue: ecco dunque, oltre all’italiano “melanzana”, lo spagnolo “berenjena”, il catalano “alberginera” da cui deriva il francese “aubergine”, il milanese “meresgian”, il piemontese “maranzana” o “malansana”, il già ricordato fiorentino “pet(r)onciano”, il romanesco “marignano”, il napoletano “mulignana”, il siciliano “milinciana”.  

La forma “melanzana”, alle orecchie dei parlanti, sembrava incrociarsi con la parola “mela”; ma forse c’era stato anche l’influsso del greco-bizantino “melintzána” (oggi in neogreco si dice μελιτζάνα, pr. “meligiàna”), anch’esso di derivazione araba ma contaminatosi con la parola greca μέλας (mélas), cioè “nero”.

Insomma: “melenzana” con la “e” è una variante di “melanzana” tenacemente presente al Sud, forse perché ritenuto in origine dai parlanti come un composto di “mela” (con un procedimento simile a quello che, come plurale di “melagrana”, dà “melegrane”, forma popolare per il corretto “melagrane”).

Veniamo alla nostra Sicilia: il vocabolario di Traina presenta la voce “milinciana” nella doppia traduzione “petronciano/melanzana”; cita anche il “milincianaru” (cioè “chi vende petronciani”). Identica grafia, “milinciana”, si ha nel Mortillaro, che ricorda anche la “milincianedda”, cioè “il frutto della pianta descritta, che non cresce sino all’ordinaria grandezza, ma fermasi al volume di una noce, o meno, ed è tuttavia stimato, e si condisce saporitamente”.

Io, qui a Palermo e nella vicina Bagheria, ho sempre sentito pronunciare (da chi parla in dialetto) “mulinciana” o “milinciana” (oscillazione che Traina attesta anche fra “miluni” e “muluni” per indicare l’anguria); chi invece parla (o crede di parlare) in italiano qui dice quasi sempre “melenzana” con la “e”.

E dunque i turisti si mettano il cuore in pace e, se vogliono gustare i deliziosi piatti che nell’isola si ricavano dalla “petronciana”, chiedano “melenzane alla parmigiana”, “caponata di melenzane”, “involtini di melenzane”, “melenzane ammuttunate”, ecc.

L’importante sarà leccarsi i baffi.

P.S.: Per le notizie riportate, ho consultato soprattutto il competentissimo articolo di Antonio Vinciguerra nel sito dell’Accademia della Crusca (https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/si-pu%C3%B2-dire-melenzana-e-melenzane/1535).

Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico “Andrea D’Oria” e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all’Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E’ sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.Visualizza tutti gli articoli di Mario Pintacuda.

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