IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Annibale Pignataro non è più

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Di Maurizio Nocera

Annibale Pignataro

Un periodo triste questo dell’ASSA e  dell’APSEC di Lecce. In poche settimane, due sodali dell’associazione se ne sono andati per le vie imponderabili e inconoscibili dell’oscurità: prima il caro Giuseppe Schiavone, ora il caro Annibale Pignataro, entrambi campiensi.

Annibale aveva 84 anni ed è volato via nel cielo grigio di questi giorni il 13 febbraio 2022. Ha scelto che quel che rimaneva del suo corpo venisse incenerito.

A Rimini, città dove Egli ha vissuto per lungo tempo, era stato Direttore del Centro Integrato di Formazione e Consulenza e, ancor prima, Comandante dei Corpi di Polizia Municipale della stessa Urbino e di Santarcangelo di Romagna, dove viveva il suo amico poeta e grande scenografo Tonino Guerra.

Annibale, uomo apparentemente dal corpo minuto, aveva, al contrario, una forza straordinaria. A volte riusciva a giganteggiare. E questo gli veniva dalla grande esperienza di vita e dalla capacità di saper dominare le situazioni anche le più scabrose. Autore di libri tecnico-giuridici per conto delle case editrici Sapignoli, Maggioli e Gaspari, riusciva a pubblicare anche con altre case editrici come, ad esempio, questi libri: A scuola sui colli, (a cura di Antonio Mazzetti e Annibale Pignataro, Cierre Edizioni, 1989); Annibale Pignataro I misteri del castello di Acaya (Neftasia, 2011); A. Pignataro Romagna mia. La leggenda di Secondo Casadei (Imprimatur 2013, seconda edizione, Youcanprint, 2014); A. Pignataro, Pinin (Youcanprint, 2014); Annibale Pigmataro, Donne dall’Est (Formato Kindle, 2014); Come difendersi per non pagare le multe (a cura di Carlo Barbera e Annibale Pignataro, Avenue Media, Rimini, 2016); Nuovo Codice della strada. Aggiornato al 2008 e integrato con le sentenze della Corte di Cassazione (a cura di Carlo Barbera e Annibale Pignataro, Avenue Media, 2016). È stato per anni relatore a convegni di polizia municipale in tutta Italia. Docente per conto della Regione Marche a Corsi di formazione ed aggiornamento professionale per il personale della Polizia Municipale. Esperto anche di infortunistica.

Ma noi qui lo ricordiamo per le sue stupende poesie e i suoi bellissimi romanzi sul Salento leccese. Lo ricordiamo per il libro I misteri del Castello di Acaya, un lungo racconto sullo stile gotico. Non era la prima volta che un autore campiense si ispirasse al genere gotico. Lo aveva fatto già Carmelo Bene, che aveva tratto dal romanzo Il monaco di Matthew Gregor Lewis la sua opera teatrale Il rosa e il nero, messa in scena per la prima volta nel 1966.

Pignataro, nel suo I misteri del castello di Acaya si ispirò ancheal primo grande romanzo gotico – Il castello di Otranto – scritto da Horace  Walpole nel 1764. Ed è tutta sua l’operazione dello spostamento della scena gotica da una città di mare (appunto Otranto) ad un paese dell’entroterra (Acaya), consistente in una vera e propria rivoluzione copernicana del genere gotico. Mentre ne Il castello di Otranto, l’azione si svolge quasi interamente nel castello e i protagonisti sono nobili impegnati in questioni dinastiche, nel libro di Pignataro i protagonisti sono personaggi del popolo che devono sopravvivere in una realtà dura come quella del Salento leccese del XVI° secolo. Nel suo lavoro di fine letterato (benissimo la sua storia raccontata può competere con i grandi della letteratura italiana del Novecento) non mancano gli aristocratici, come il barone Giangiacomo dell’Acaya, la cui storia rappresenta la cornice di fondo dell’impianto narrativo e che sarà presente dall’inizio alla fine. Ma la protagonista della storia, Artana, una donna del popolo che entra come serva nel castello ma, dopo varie vicissitudini, ne esce e, in questo suo movimento tra l’interno e l’esterno delle mura, ci rende partecipi di due mondi affiancati, ma ben diversi tra di loro. Diventa quindi interessante vedere la dialettica tra ciò che avviene nel castello e la realtà esterna ad esso. E qui Annibale Pignataro è un romanziere formidabile. Egli (va ricordato che, dal punto della sua formazione, Egli era anche un sociologo-giurista), è riescito a ridarci l’idea di quel mondo difficile cinqueecentesco, riuscendo così, grazie all’introduzione di elementi di storia sociale, a modernizzare un genere cristallizzato entro determinati paletti, un genere in cui il popolo e la sua realtà sono sempre rimasti sullo sfondo, come semplice scenografia. Basti pensare, in tempi successivi, al Dracula di Stoker o a Il vampiro di Polidori, in cui i protagonisti appartengono alla nuova classe sociale dominante: l’alta borghesia. L’altro grande merito del nostro caro Annibale lo possiamo ritrovare nello suo caratteristico stile, mentre i grandi classici del genere gotico, in particolare quelli del ‘700, avevano una prosa tendente quasi al feuilleton, il suo romanzo, invece, si giova di uno stile molto  scorrevole e diretto nello sviluppo dell’azione. Inoltre, l’essenzialità, a volte anche estrema del linguaggio, conferisce grande vividezza alle immagini, in particolare quelle più crude o brutali, come lo stupro della figlia della protagonista o l’omicidio compiuto dalla protagonista stessa.

Altro importante romanzo salentino di Annibale Pignataro è La Sirena Di Gallipoli, che Egli stesso aveva sintetizzato così:

            «Chi avesse attraversato il Tirreno in quella giornata di luglio, partendo dalla costa e dirigendosi verso Occidente, avrebbe visto una scena tanto strana quanto maestosa. Il sole al tramonto, che sembrava quasi spegnersi in mare scendendo verso la linea dell’orizzonte, sarebbe apparso diviso in due esatte metà da una colonna di fumo denso e nero. Proseguendo sull’acqua, che passava sempre più in fretta dall’azzurro intenso al blu indaco, un’immagine surreale sarebbe apparsa agli occhi increduli del nostro ipotetico navigatore. A qualche centinaio di metri dalla colonna avrebbe visto una bara galleggiare sul mare e, poggiata sopra ad essa, una ragazza che la spingeva nuotando. Ad uno sguardo più attento, un altro dettaglio grottesco si sarebbe palesato, ma chiunque lo avrebbe attribuito ad un effetto ottico, generato dalla particolare luce del crepuscolo o al massimo da un’allucinazione: al posto delle gambe, in controluce, sarebbe apparsa un’ombra scura simile alla penna di un cetaceo». Una sirena.

Di questo straordinario racconto lungo, Maurizio Nocera aveva scritto la presentazione dove dice che:

            «Anche se alla fine del romanzo La Sirena gallipolina,di Annibale Pignataro, scomparirà nei mari lontani da Gallipoli, purtuttavia il suo spirito resta sempre qui, nel Salento. Infatti, quando al cambio delle stagioni, al calar del sole, l’astro vitale comincia a inabissarsi, a noi gallipolini, ai quali la vita ha insegnato a guardare su quella linea dell’orizzonte ponentino, vediamo un raggio rosso fendere il cielo e raggiungere un preciso punto dell’Isola del Campo. Su di esso, nel punto più alto e levigato da tutti i venti, appare la silouette d’una sinuosa fanciulla. Si sta facendo bella: aggiusta i capelli con i bianchissimi pettini di seppia; pulisce i denti con la madreperla della signora dei fondali, la cozza penna; tinge i suoi adorati occhi col blu cobalto del mare di santa Cristina; liscia le squame della sua amabile coda con la pelle viva d’un polpo di scogliera./ Si fa bella per il suo dolce e triste compagno; si fa bella per la festa che arriva; si fa bella per la sua stessa città, che appunto è detta Città Bella./ Intanto anche noi, pescatori di bellezza, la guardiamo, e imbamboliamo».

E ancora. E poi. Proprio sulla rivista dell’APSEC, «Pensiero Mediterraneo», avevamo aperto una «Rubrica» dedicata alla poesia e, primo fra tutti, avevamo cominciato proprio col caro Annibale Pignataro, le cui liriche le aggiungiamo nella forma conseguenziale:

            «IL RITORNO DI GIANGIACOMO DELL’ACAIA// Notte di tempesta, nubi basse,/ lampi e saette solcavano il cielo./ Il silenzio era assoluto, s’udiva/ solo il tintinnio della pioggia/ cadente sui tetti del castello/ e il fragore dei tuoni./ Dormiva il bimbo nella culla/ e il nonno il sonno dell’orso,/ l’orologio della piccola / piazza suonava le due./ La pioggia cessò di cadere/ il vento cedette alla quiete./ La mucca era inquieta/ i cani abbaiavano furiosi,/ s’aprì una finestra del maniero/ un gatto drizzò il pelo./ Il servo sospettoso s’armò/ di forcone e lanterna in mano/ illuminò l’androne./ Un rumore di zoccoli sul/ selciato avvisava dall’arrivo/ di un cavaliere. Presto si/ chiarì il mistero, da/ cavallo smontò un guerriero,/ con spada sguainata attraversò/ la strada e spalancò il portone./ Un urlo terrificante fece tremare/ il borgo, fendenti si abbattevano/ ovunque. Un lampo illuminò / la corazza: era il Barone/ ritornato nella piazza./ Il volgo fuggiva, inciampava/ cadeva. Acaia era liberata./ Giangiacomo depose la spada/ il servo il forcone e omaggiò/ il vero padrone./ Un’alba nuova sorgeva/ nel borgo e nel contado». Stupenda.

            «LUCCIOLE// L’ultima ombra di sole/ scomparve, preludio/ al buio che in breve/ avvolse la campagna./ Una nuvola di lucciole/ m’investì e intorno/ iniziò una fantastica/ danza di luce./ Felici giocavano/ disegnando strane figure./ Un reattore sfrecciò basso/ assordando la vallata/ per un attimo temetti / di averle perdute./ Riapparve la più grande,/ dopo le altre, erano/ timide, quasi smarrite./ Poi tutte insieme ripresero/ la danza di luce,/ disegnando una figura umana/ che, agitando la mano,/ s’allontanò lasciandomi/ ancora più solo». Meravigliosa.

            «LETTERA A UN GIOVANE// Sei solo un’ombra sbiadita/ i vecchi ricordano ancora/ le purghe, le urla,/ i passi dell’oca./ Figli di padri ignari,/ giovani senza futuro/ l’impegno non la speranza./ Uscite dal mondo dei morti,/ scacciate le false illusioni,/ follie e devastazioni/ la nostra Italia patì./ Cesare non ritornò,/ i falsi imperiali / erano terminati./ Camicie, teschi e bastoni/ non fan paura ai vecchi/ leoni che vigili/ difendono la libertà». Bellissima.

            «CAPODANNO 1944// La mattina del primo giorno/ io ragazzino insieme a Giovannino/ giovane contadino girovagammo/ nella campagna surbina verso mare

in cerca di cibo./ Causa maltempo ci rifugiammo/ in una vecchia casa diroccata/ ove incontrammo un vecchio/ anch’egli mendico e affamato./ Denutrito e malfermo sulle/ gambe fumava una vecchia/ pipa riempita di foglie secche./ Per pranzo avevamo un tozzo/ di pane di crusca un pugno di/ semi di zucca e una verza cruda./ Invitammo l’uomo a mangiare/ con noi ma non rispose./ Poco distante il piccolo Re / fuggiasco, ben protetto,/ banchettava con la famiglia/ nella masseria Monaci della/ contessa Ruffo. Dignitari di corte/ e gerarchi riciclati incuranti degli/ italici lutti gozzovigliavano / presso famiglie benestanti/ del brindisino e del leccese./ Nella casa la luce era scarsa,/ avvicinai il malfermo tavolino/ alla finestra senza vetri, caddero/ prime gocce di pioggia sul/ vecchio giornale che ricopriva/ il tavolo. Improvvisamente le/ gocce d’acqua si fusero con/ l’inchiostro disegnando una croce/ e parole d’amore e di pace./ Giovannino!, urlai. È miracolo o magia?/ Egli guardò sconvolto e mentre io/ pallido in viso guardavo l’evento:/ il villan fuggiva colto da spavento». Magnifico.

Caro, carissimo Annibale, non ti dimenticheremo.

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