IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Artemisia”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello  (Parte seconda)

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Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura, (1638-1639),

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura, (1638-1639). (Fonte: Wikipedia)

Un pomeriggio girovagavo con certi amici, quando vidi venire da Piazza

Navona una piccola folla: davanti riconobbi mio padre che stava in mezzo a

due guardie che lo avevano arrestato. Corsi subito a casa a portare la brutta

notizia a Artemisia, la quale però non mi parve molto turbata. Forse si

aspettava che un evento del genere potesse accadere da un giorno all’altro,

visto che nostro padre frequentava amici niente affatto raccomandabili. Ma,

come più tardi si seppe, l’arresto e il processo che ne seguì, furono causati

da una denuncia piuttosto banale, almeno così ci sembrò allora.

Il pittore Giovanni Baglioni si era sentito diffamato da un sonetto che era apparso

sulla statua di Pasquino. Baglioni era un pittore molto noto e apprezzato da

nobili e cardinali, per cui non poteva correre il rischio di vedersi distruggere

la reputazione. Si era rivolto al papa Clemente VIII, sicuro di ricevere

sostegno e solidarietà, perché il pontefice aveva emanato disposizioni

severissime per i cosiddetti poeti che infangavano con versi osceni e

ripugnanti il prestigio di un noto personaggio, da quando lui stesso era stato

vittima di tali iniquità, dopo la condanna a morte di Beatrice Cenci e della

sua famiglia. Si scriveva, infatti, che non aveva fatto nulla per evitare quella

condanna, perché così poteva appropriarsi dell’immenso patrimonio dei

Cenci.

Il processo, nel quale era coinvolto anche il Caravaggio, si concluse

tuttavia senza gravi conseguenze per mio padre, che fu subito scarcerato.

Ricordo che mio padre era venuto in aiuto del Caravaggio anche in un

precedente processo, quando il pittore fu denunciato dalla proprietaria della

casa dove alloggiava, perché accusato di non pagare l’affitto. Il Caravaggio

si era poi vendicato, facendo rompere a sassate i vetri delle finestre di casa

della proprietaria, ricorrendo all’aiuto di una squadra di ragazzi, tra i quali

ero stato coinvolto anch’io.

Artemisia si faceva sempre più bella e sempre più abile nella pittura.

Cresceva perciò la gelosia di mio padre. Mi aveva dato l’incarico di

riferirgli tutto ciò che diceva e faceva, se si affacciava alla finestra o se

varcava l’uscio di casa da sola. Allo stesso tempo aveva pregato una vicina

di nome Tuzia, una donna di circa trent’anni, madre di due bambini, di

vigilare Artemisia soprattutto quando lui non era in casa.

Con questa donna, ancora giovane e di bello aspetto, Artemisia si confidava

e la riteneva un’amica fidata. Approfittando dei lunghi periodi di assenza di

mio padre, Artemisia poco più che sedicenne diede una prova eccezionale

del suo talento di pittrice.

Mi ero accorto che Tuzia faceva da modella con il suo bambino piccolo e

Artemisia la ritraeva come una dolcissima Madonna con bambino. La sera,

prima del ritorno del padre, Artemisia nascondeva la tela per poi riprenderla

il giorno dopo. Io non osavo riferire a mio padre quel segreto. Ma quando

una sera lo scoprì, preferii restare fuori di casa e saltare la cena. Poi seppi,

invece, che mio padre era rimasto affascinato e commosso dinanzi a quella

toccante composizione, a quei colori vivaci, a quell’arte così vicina alla

lezione delle sue opere e, attraverso queste, al realismo del maestro

Caravaggio e così lontana da quell’ideale devozionale che la chiesa della

Controriforma esigeva dai pittori al suo servizio. La Madonna, se era

lontana dal sacro, era invece una madre reale nell’atto naturale di allattare il

bimbo con delicata tenerezza.

Fu così che mio padre, Orazio Gentileschi, vinse ogni pregiudizio verso la

donna che, in possesso di eccezionale talento, può dedicarsi alla pittura. Che

strano destino il suo! Avrebbe voluto che a seguire la sua strada fossi stato

io, il maggiore dei maschi, ma presto si era accorto che in me non c’era

quella stessa fiamma che ardeva in Artemisia. Decise che per me sarebbe

stata sufficiente quel po’ di tecnica che via via andavo apprendendo e che

invece per la figlia fosse necessario curare la preparazione.

Si era legato di amicizia con Agostino Tassi che in quel momento a Roma

vantava molte importanti protezioni, nonostante la sua vita di violento e di

smargiasso. Come pittore godeva di grande fama di esperto di prospettiva e

creatore di illusioni prospettiche, per cui riusciva ad ottenere numerose

commissioni per dipingere pareti e soffitti dei nuovi e sontuosi palazzi che i

nobili facevano a gara di elevare per dimostrare il potere dello loro

famiglie.

Quale migliore maestro, dunque, per la diciottenne geniale Artemisia?

Il Tassi accettò volentieri l’incarico, affascinato dalla bellezza di Artemisia,

che aveva avuto modo di ammirare durante i lavori di decorazione del

Casino delle Muse del palazzo di proprietà del principe Scipione Borghese,

nipote del pontefice Paolo V. Mio padre, infatti, aveva voluto Artemisia,

come modella per rappresentare una suonatrice e il Tassi al vederla così

bella e altera, non poté fare a meno di innamorarsene. Ma Artemisia non lo

degnò neanche di uno sguardo di incoraggiamento, perché aveva già una

sua passione segreta per un certo Geronimo, un giovane di ottima famiglia,

timido, dai modi gentili.

Artemisia lo aveva notato passare per strada ed era bastato che il giovane

avesse alzato lo sguardo verso la finestra per invaghirsi di mia sorella.

Debbo confessare che in quella circostanza non solo fu complice Tuzia, ma

anche io.

Avevo circa tredici anni, allora, e siccome cominciavo a sentire un grande

affetto e apprezzamento per la bravura di Artemisia, mi umiliai fino al

punto di rassegnarmi a portare di tanto in tanto certi bigliettini che il

giovane scriveva a Artemisia, la quale li leggeva con l’aiuto di Tuzia.

La complicità della donna consistette nel fatto che il giovane Geronimo

ebbe la possibilità di mettere piede nella bottega quando mio padre era

assente. In quelle occasioni io mi incaricavo di trascinare via i miei due

fratelli più piccoli, Giulio e Marco, e un paio di ragazzi apprendisti che

aiutavano in bottega.

Quando un giorno mio padre tornò prima del solito e sorprese il giovane a

colloquio con Artemisia, si infuriò al punto da prendere il bastone della

scopa e darlo più volte sulla schiena del poveretto, costringendolo alla fuga.

A calmare l’ira di mio padre valsero ben poco le assicurazioni di Tuzia che

diceva di essersi allontanata per assistere i suoi bambini e i suoi giuramenti

che tra i due c’erano stati solo brevi e innocenti colloqui, mentre Artemisia

dipingeva. Quel bastone, la sera al mio rientro purtroppo lo sentii anch’io

più volte sulla mia schiena.

Il nome di Artemisia era sulla bocca di tutti, non solo come abile pittrice,

ma come modella che si prestava a farsi raffigurare priva di veli. Si

pensava, dunque, a una giovane libera quasi come una cortigiana. Questo

non era assolutamente vero. Un innato senso di castità la manteneva sempre

in uno stato di pensosa riservatezza, senza nulla mai concedere alle lusinghe

di corteggiatori improvvisati.

Il più audace di costoro fu il Tassi. Era un uomo basso, tarchiato, già avanti con gli anni, privo di scrupoli morali.

A Roma aveva subito un processo per l’accusa di adulterio e incesto, accusa

molto grave per la quale fu condannato, ma grazie alla protezione dei nobili

per i quali lavorava, restò libero di commettere impunemente altri reati.

Un giorno di maggio del 1611, il Tassi approfittando della complicità di

Tuzia, alla quale promise del denaro, si introdusse in casa, entrò nella

bottega dove Artemisia stava dipingendo e, toltile dalle mani pennelli e

tavolozza, nonostante la resistenza di mia sorella, la stuprò.

Quel giorno ero andato a portare il pranzo a mio padre che lavorava su una impalcatura, dalla quale con un pretesto l’amico Tassi si era allontanato. Aspettai che il padre consumasse il pasto e poi tornai a casa. Sulle scale vidi che Tuzia e

Tassi parlavano animatamente, ma al mio apparire si separarono in fretta.

Quando entrai, trovai Artemisia che piangeva in un angolo. Raccolsi i

pennelli, la tavolozza e alcune tele rovesciate e, visto che non voleva

rispondere alle mie domande, la lasciai e corsi da Tuzia. Mi disse che era

meglio occuparmi d’altro, che non potevo capire certe cose e che si trattava

di una crisi di pianto di cui spesso le donne sono vittime, ma di breve

durata.

In effetti, qualche ora dopo, trovai Artemisia intenta a dipingere. Quando mi

avvicinai, si asciugò la mani sul grembiule e mi accarezzò i capelli.

La sera nemmeno il padre si accorse di nulla.

Evidentemente Tuzia era riuscita a rassicurarla con le sue ciarle e promesse, le stesse che Tassi aveva fatto a Artemisia, ferita nel suo onore e sconvolta e cioè che il matrimonio riparatore avrebbe salvaguardato la sua reputazione.

Nei mesi seguenti, ricordo che il Tassi continuò a incontrarsi con Artemisia.

Mio padre aveva intuito qualcosa, ma la prudenza lo tratteneva per via degli

interessi comuni. Il Tassi riusciva a procurarsi con il suo carattere

estroverso e la sua maestria un gran numero di commissioni da parte della

nobiltà romana.

D’altra parte, come più tardi emerse, Artemisia sperava

nella riparazione del matrimonio. Quando apprese con certezza che Tassi

era sposato e che forse era il mandante dell’assassino della moglie e che

aveva come amante Costanza, la giovane quindicenne sorella minore della

moglie, non poté più fare a meno di confessare tutto al padre. Questi,

dunque, si sentì in obbligo di denunciare il Tassi, sia per stupro di Artemisia

e sia per furto, poiché era scomparsa una sua tela di grande dimensione.

Il processo si svolse tra il marzo e il novembre del 1612 e fu una prova

durissima per Artemisia che dovette strenuamente, anche sopportando la

tortura voluta dai giudici, difendersi dal tentativo del Tassi di negare il fatto

e dalle accuse di donna cortigiana, prostituta, da parte di vari testimoni

pagati dal pittore. Quella esperienza segnò per sempre la vita personale e

artistica di Artemisia.

Volevo bene a mia sorella e desideravo venire a conoscenza dell’andamento del processo.

Durante gli interrogatori degli accusati e dei testimoni, solo pochi

interessati potevano assistere; in un momento in cui la porta della sala era

rimasta socchiusa, potei guardare in faccia quell’odioso smargiasso e le

spalle di Artemisia, seduta dinanzi ai giudici. Poi scoprii che passando dal

cortile e arrampicandomi fino a una finestrella, potevo gettare lo sguardo

all’interno della sala, dove si svolgevano gli interrogatori. Fu così che

durante un interrogatorio vidi il triste spettacolo della tortura. Avevano

legato i polsi di Artemisia con una corda e aiutandosi con un randello

stringevano i pollici delle mani fino a farli sanguinare. Solo allora si

fermarono. Artemisia non emise un lamento. Sconvolto, non volli più

assistere agli interrogatori.

A casa spesso, mentre mio padre con il suo carattere introverso continuava

il suo lavoro, io stavo accanto a mia sorella, le prendevo le mani avvolte in

fasce e con delicatezza gliele carezzavo e le facevo coraggio, dicendole che

appena guarita avrebbe potuto riprendere i pennelli. Lei mi guardava e

sorrideva, forte e decisa a lottare contro quell’uomo spregevole per

dimostrare che lei era una pittrice al pari se non meglio di un uomo.

Tutta Roma in quei giorni parlava del processo. La maggior parte della

gente era convinta che il disonore l’avrebbe sepolta.

Ma così non fu. Artemisia ne uscì vincitrice, anche se la sentenza di

condanna del Tassi non produsse alcun effetto pratico per le solite

protezioni di cui godeva il pittore.

Il suo carattere ribelle la spinse a opporsi con fermezza alla opinione

corrente che la gente aveva nei confronti della donna e cioè che il suo ruolo

era soltanto all’interno della famiglia o del convento, altro spazio non c’era.

[Continua]

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