IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Il nonno e il monsignore

Nonno e Monsignore

Nonno e Monsignore

di Maurizio Mazzotta

Fu tra un Natale e un Capodanno. Marco si sarebbe laureato a febbraio e pochi mesi dopo si sarebbe chiusa l’esistenza di quel vecchio, grande d’esperienza, che si era contrapposto a un bambino che aveva tanta voglia di conoscere e sperimentare. Era stato nonno per le origini comuni e Marco si era identificato con lui. Era stato padre e madre perché aveva fatto a gara con la nonna nel donargli dolcezze e attenzioni, ciò di cui, padre, madre e zia, erano stati avari. La nonna era morta da circa due anni e il nonno ormai stabile nella casa di Nùvoli sembrava rimpicciolirsi come chi se ne va arretrando, dissolvendosi, intimidito, per togliere il disturbo.

Quando rivedeva il nipote tornavano briciole di entusiasmo: “Raccontami, raccontami di Roma”. Parlavano dell’università, dei suoi studi, dei cambiamenti che subiva la capitale. Gli chiedeva di alcune vie, di piazze e di teatri e strizzava gli occhi che afferravano con maliziosa dolcezza ricordi assai lontani e per brevi momenti sembrava trasferirsi altrove. Marco ne approfittava per impadronirsi della sua figura, per imprimere nella mente le sue espressioni, spinto dal timore di perdere il ricordo di quel vecchio. A dieci anni Marco aveva creduto che quell’uomo fosse stato sempre così come lo conosceva e che sarebbe rimasto intatto, ma ora a vent’anni era tutto differente.

Quando parlarono l’ultima volta il discorso prese una piega diversa. Come se veramente avesse letto nel pensiero del nipote e volesse a tutti i costi, prima di andarsene definitivamente, mettersi a nudo, cosicché Marco avesse un’idea completa di quello che era stata la sua vita. Il vecchio intuiva cosa rappresentava per il giovane, conosceva la necessità dei miti ma anche i loro rischi. Il nipote era nell’età del realismo e bisognava vietargli pericolosi confronti.

La sua mano era racchiusa tra quelle del giovane mentre il nonno lo guardava con severa dolcezza. Scosse il capo, sospirò e cominciò a parlare. Le prime parole le pronunciò con grande sforzo, separate l’una dall’altra da uno spazio: il gradino della scala del mito che il vecchio scendeva con difficoltà.

Raccontò: – Venne da me un giorno. Voleva vedere come vivevo, almeno così disse mio fratello, il monsignore, anzi il “papa”.- Usò questo termine popolare con cui si chiamavano i sacerdoti a Nùvoli, con particolare enfasi dato che il fratello Ferdinando era stato uomo di potere in Vaticano.

– Ero andato qualche volta io a trovarlo, per salutarlo, e lui si offriva di aiutarmi sempre e in tutto. Mi fece una volta una proposta di matrimonio, secondo lui,  “matrimonio per bene”. Che io rifiutai.- 

Fece una lunga pausa quasi a costringersi di valutare quegli anni con criteri meno duri, ma la sua espressione che tornò ad abbuiarsi dimostrava che sul fratello in particolare non cambiava opinione.

– Venne lui quel giorno perché “voleva vedere come vivevo” e parlò di nostro padre che soffriva a causa mia.-

Si regalò un’altra sosta e piegò il capo verso le sue stesse mani che aveva messo insieme  sulle ginocchia con le palme in su in completo abbandono di resa.

– Tu non puoi ricordarlo. Eri molto giovane e lui veniva a Nùvoli di rado. Era di pietra. Come mio padre. Inattaccabile. Feci l’ingenuo; conoscevo le sue risposte. Dissi: Soffre della nostra lontananza. Lo abbiamo tradito entrambi. Cadde nel tranello. La mia è vocazione, rispose.-

Guardò il nipote per esprimere un commento: – La sua era vocazione, la mia no! Conosceva la mia passione per la pittura. Il grave è che chiamava vocazione il suo bisogno di potere.-

Sorrise esprimendo deboli segnali di sopportazione. Disse:

– L’uomo maschera a se stesso i suoi bisogni quando la sua coscienza non li accetta. Replicai che la mia vocazione era di vivere come vivevo, che un uomo ha diritto di scegliere per esprimere la sua libertà.-

Ancora una pausa. Lo sguardo diventò di un azzurro intenso. Aveva i colori affievoliti dal tempo e cercava forza per trasmettere al nipote la verità su se stesso. Marco si meravigliò di quel cambiamento negli occhi. Esasperò la sua attenzione quando sentì esclamare: – Non era vero!-

– Non era vero, Marco. Non ero un uomo libero. Più di lui sì, perdio!- e alzò il dito che si agitò nell’aria con insospettabile energia.

– Intuivo il motivo della sua visita e ne ebbi certezza. Non era venuto per vedere come vivevo, per parlare di nostro padre e sottolineare le mie colpe, era venuto per togliermi gli amici e la mia amica che era una danzatrice, progetto quest’ultimo che realizzò col tempo con grande determinazione e violenza. Ferdinando si dichiarava preoccupato ed  era venuto per dirmi che stava facendo il possibile per proteggermi perché erano tempi difficili, troppe sommosse e conseguenti repressioni.  Dovevo aiutarlo ad aiutarmi. Lui nella sua posizione… Insomma lo danneggiavo, danneggiavo lui, nostro padre, nostra madre, tutto ciò che era stato costruito dalla nostra famiglia.-

Marco riprese tra le sue le mani del nonno. Ebbe voglia di accarezzargli la testa e lo fece. Fu un contatto fisico straordinario; non ne ricordava un altro simile. Al tatto, sotto i radi capelli bianchi della nuca, era stato come racchiudere nel cavo della mano un uccello implume con la pelle sottile che permetteva di percepire tutte le inesattezze delle ossa. Quell’ultima volta col nonno, Marco ebbe la certezza che lo stava proteggendo, anche se ignorava ancora da cosa. Era arrivato il momento di ricambiare con quella offerta di protezione tutto quanto aveva ricevuto da lui. Il nonno doveva ancora dire la cosa più importante.

– Ero  simpatizzante…-

Marco fu colpito dal disprezzo con cui la mimica del suo volto accompagnò la parola. Capì confusamente che il nonno si stava facendo del male e avrebbe voluto soccorrerlo, come si fa con gesto preoccupato quando si avanzano le mani verso la persona cara per trattenerla. Oh nonno! pensò, e disse: – Che cosa vuoi dire, nonno? – Il nonno fece uno sforzo, e lo fece per il nipote, lesse in lui autentica apprensione; ridimensionò il suo discorso.

– Volevo andare oltre, Marco. Accettare in pieno il socialismo, dichiararmi, lottare, proprio in quegli anni difficili. Ho avuto delle riserve intellettuali; credo che nascondessero qualcosa d’altro. Per questo contrasto interiore non ero libero e non sono stato capace di dedicarmi alla politica come avrei voluto…non sono stato capace di esprimere tutta la mia voglia di uguaglianza. Lo seppi al capezzale di mio padre quando rividi, per la prima volta da quell’incontro, mio fratello. Capii che lui aveva vinto… dentro di me io avevo uno come lui… il nemico era dentro di me. Ho qualche idea, ma non certezze sulla natura degli ostacoli che mi sono posto. Promettimi che cercherai di capire…e spero che tu non abbia un nemico dentro di te.-

Quel salotto del palazzo di Nùvoli produsse la perla dei loro incontri: una conchiglia cresciuta al riparo dalle presenze di quella casa.

Un brano tratto dal libro di Maurizio Mazzotta: LE SUE DITA COME STECCHI di MANDORLO


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