IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“La leggenda dell’isola dei mostri”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello

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Isola dei mostri

Isola dei mostri

 

Il ritrovamento di un tronco d’albero, scavato in forma di canoa primitiva vicino all’unica spiaggetta del lungo e montuoso promontorio, aveva creato un nuovo preoccupante allarme.

I due giovani che lo avevano avvistato non erano riusciti a trattenerlo a causa delle alte onde del mare. Tornati nella loro piccola città, che dalla parte opposta del mare dominava un’ampia vallata ben coltivata e ricca di vegetazione, avevano fatto crescere con il loro racconto, ansie, paure e pregiudizi nei confronti di quella misteriosa isola da sempre tenuta d’occhio, come terra popolata da mostri.

I borgomastri che si erano succeduti nel tempo avevano sempre raccomandato ai loro concittadini di tenersi lontano da quella spiaggia. Lo stesso, in famiglia, facevano i genitori con i loro ragazzi. E se venivano a conoscenza che un loro figliolo si fosse spinto da quelle parti, non esitavano a raccontare ancora una volta le storie che si tramandavano di padre in figlio. Gli abitatori dell’isola non erano uomini, ma mostri, una specie di razza tra l’umano e quella di strani animali. Non si sapeva esattamente quando e da dove fossero venuti a stabilirsi in quell’isola.

Ce ne era abbastanza perché i più piccoli rispettassero il divieto, ma anche per suscitare tra i giovani una incredibile curiosità di conoscere come stavano effettivamente le cose.

Un giorno tre giovani intraprendenti e coraggiosi, che si facevano beffe delle assurde dicerie che a loro giudizio alimentavano una vera e propria leggenda su quell’isola misteriosa, si posero segretamente al lavoro per costruire una barca, attrezzata con remi e vela. Dopo un faticoso lavoro, durato alcune settimane, i tre amici affidarono la loro vita a una impresa che nessuno prima di allora aveva tentato. Sistemarono le ultime cose: cordame, piccole scorte di viveri, di acqua, qualche coperta, bastoni e un vecchio archibugio.

Pierre, il più grande dei tre amici, che aveva studiato con profitto sotto la guida di un esperto precettore, disse:

-“Vi confesso che sono piuttosto ottimista. Se riusciremo ad attraversare il tratto di mare che ci separa, sono sicuro che non troveremo dei mostri, ma uomini semplici e buoni, incorrotti, allo stato di natura”.

-“Ma gli uomini allo stato di natura, disse Bernard, il più giovane, mi fanno paura. Sono violenti, non ragionano, reagiscono selvaggiamente”.

-“Questo non è assolutamente vero, lo rassicurò Pierre. Il mio precettore dice che a Parigi vive un famoso filosofo, Jean Jaques Rousseau, il quale sostiene che l’uomo allo stato di natura è diverso dall’uomo civilizzato perché è dotato di due sentimenti fondamentali: l’istinto di sopravvivenza che gli consente di autoconservarsi, di non far soffrire gli altri, di avere pochi bisogni e di vivere nel presente senza temere la morte”.

Così dicendo, invitò gli amici a unire gli sforzi per spingere la barca in acqua. Alzata la vela, la barca volò verso il mare aperto in direzione dell’isola.

Non avevano mai creduto alle storie di quei rari pescatori che qualche volta si erano avventurati in quel tratto di mare. Narravano che era meglio stare lontano da quell’isola e dal mare che la circondava.

Il cielo era sereno, soffiava una leggera brezza che gonfiava la vela e faceva filare la piccola barca, tanto che i tre amici non avevano neanche bisogno di mettere le mani ai remi, quando all’improvviso udirono sotto la barca come un muggito, che proveniva dalla profondità marina. Il rumore divenne presto visibile sulla superficie dell’acqua mediante un moto rotatorio che andò via via spaventosamente aumentando. Prima largo, fece quasi arrestare la corsa della barca, poi sempre più stringente al punto da imprimere alla barca la stessa forza rotatoria e farla girare vorticosamente. Gridavano terrorizzati, impotenti, senza alcuna possibilità di sfuggire al diabolico movimento. Una schiuma immensa avviluppava la barca nel suo furibondo girotondo. Aggrappati ai pochi sostegni disponibili e stretti fra di loro, quasi a formare un unico grande corpo, i tre amici si vedevano sprofondare come in un imbuto e poi rapidamente risalire.

A poca distanza dal cerchio mostruoso, dove l’imbarcazione era sballottata come un fuscello, tutto era tranquillo, il mare piatto, il cielo privo di nubi. Furono minuti interminabili, poi finalmente il gorgo, spaventosa bocca di un terribile animale, come per un rigurgito del mare a causa di un cibo indigesto, li lasciò uscire. La barca si acquietò e fu ancora in grado di galleggiare, nonostante fosse stata sottoposta a quell’immenso delirio d’acqua.

Ai tre amici non sembrava vero di essere ancora vivi, si guardarono attorno e videro che nulla era cambiato rispetto a prima di finire in quella mortale trappola. Evidentemente era vero quel che raccontavano i pescatori di quel gorgo che chiamavano il Passo del drago.

Intanto all’orizzonte era apparsa l’isola misteriosa e, vinto il terrore, ripresero a remare nel più tranquillo dei mari.

Man mano che si avvicinavano, scrutavano la costa per trovare il luogo più sicuro per l’approdo. Si accorsero subito che non c’erano rocce attorno, ma solo spiagge. Con non poca apprensione, tirarono a secco la barca, presero i bastoni e il vecchio archibugio, scalarono una modesta duna di sabbia e ai loro occhi si aprì il paesaggio dell’isola. Sembrava un’isola deserta, disabitata: radi alberi in lontananza, alture basse e piatte. Si intravedevano parecchie grotte, dove immaginavano potesse esserci qualcuno.

Pierre, che con l’archibugio assunse il ruolo di capo della spedizione, suggerì di avanzare con prudenza fino alle prime grotte.

Giunti a poca distanza, videro due bambini nudi, di pelle scura, che correvano e gridavano. Alla vista di quegli esseri sconosciuti, i bambini si fermarono a guardarli con curiosità.

-“Altro che esseri simili agli animali, disse Paolo, a me sembrano  del tutto come noi, tranne che per il colore della pelle!”

-“Hai ragione! confermarono i due amici.

Nel frattempo cominciarono a uscire altri, maschi e femmine, e con loro anche un cane, due gatti e un agnellino che seguiva la madre. Con una certa preoccupazione i tre amici videro che anche dalle grotte più lontane uscivano a frotte altri uomini, donne e bambini. Istintivamente si sentirono minacciati perché sembravano non avere atteggiamenti pacifici come quelli che per primi si erano avvicinati. Infatti non si sbagliavano: gli adulti avevano sguardi torvi, facevano gesti minacciosi con le braccia.

-“Abbiamo giudicato bene, disse Pierre ironicamente, sono proprio come noi!”

Giunti a poca distanza, i bambini si chinarono a raccogliere i sassi che lì attorno erano abbondanti e cominciarono a scagliarli contro i tre intrusi. Un anziano con i capelli bianchi cercò di interporsi, alzò le braccia per farli desistere, ma senza successo. Dinanzi agli occhi dei tre amici che, per difendersi, avevano

cercato riparo dietro una piccola duna di sabbia, accadde un fatto straordinario. I sassi lanciati dai bambini si trasformavano nell’aria in uccelli che, dopo aver volteggiato sopra le loro teste, si allontanavano e scomparivano all’orizzonte.

Gli amici, attoniti, commentarono:”Davvero non abbiamo mai visto una battaglia di sassi mutata in volo di uccelli!”

I bambini smisero di scagliare sassi, mentre gli adulti discutevano animatamente con il vecchio che aveva cercato di proteggere gli stranieri. Poi le grida da concitate divennero sempre più deboli, fino a cessare quasi del tutto.

La folla si era a poco a poco diradata e tutti ritornavano verso le grotte. A un tratto un uomo alto e robusto si voltò, tornò indietro e con un grosso sasso improvvisamente colpì alla testa il vecchio, che stramazzò al suolo senza un lamento. I suoi compagni di grotta gli furono subito vicino e videro che il sangue usciva a fiotti dalla nuca. Pierre con i due amici si avvicinò e, strappato un lembo della sua camicia, cercò di tamponare la ferita. Il vecchio aprì gli occhi e accennò un sorriso: una donna, lì vicino, piangeva in silenzio. Alcuni uomini portarono una specie di barella fatta di arbusti intrecciati e coperta di foglie. Lo sollevarono e delicatamente lo adagiarono sulla barella, ma quello soffiò qualche parola all’orecchio di chi gli stava vicino e allora lo condussero in riva al mare. Girò lievemente il capo, toccò con la mano l’acqua e con il braccio alzato puntò l’indice verso la terra che si scorgeva in lontananza. Con gli occhi pieni di lacrime, lo portarono dentro la grotta.

Anche Pierre e i suoi amici con sguardi e con gesti furono invitati ad entrare. Era un luogo umido e poco illuminato: nella parete più interna si vedevano diversi giacigli, poi una tavola su cui erano posate alcune radici di piante, qualche frutto e tazze di terracotta ripiene di latte.

Dopo poco si vide il vecchio fare un sospiro e chiudere per sempre gli occhi.

Pierre appariva commosso, con la mano salutò quella gente e uscì, seguito dai due amici.

Si diressero verso la barca e mentre la spingevano in acqua, una donna, sorridendo e gesticolando, fece loro capire quale era la rotta sicura per raggiungere la loro terra.

Il pericolo del “Passo del drago” era scongiurato. La traversata, infatti, fu tranquilla e in meno di un’ora raggiunsero la spiaggetta ben nota, prima del tramonto del sole.

Di bocca in bocca, la notizia della visita all’isola dei mostri fece il giro della città e giunse al borgomastro. Passata la prima incredulità, il borgomastro, considerata la gravità della vicenda, convocò il Consiglio per ascoltare i giovani che avevano osato tanto, disobbedendo alle disposizioni della comunità. Pierre raccontò tutti i particolari dell’avventura, concludendo che era falso tutto ciò che si andava dicendo da sempre sulla mostruosità degli abitanti dell’isola. Loro avevano visto persone e non animali o mostri, gente poverissima, persone che parlavano un linguaggio incomprensibile, alcune gentili e accoglienti e altre meno, “persone che vivono, piangono e muoiono, come tutti noi”, concluse Pierre.

A quel punto si alzò il più anziano del Consiglio:

-“Ma come possiamo credere a questi giovani? E’ chiaro che per evitare una punizione esemplare vogliono farci credere che tutto quello che ci hanno tramandato i nostri antenati è falso. Io propongo di non perdere altro tempo ad ascoltare la loro storia e di chiuderli in prigione finché non si decidano a dire la verità!”

-“Ben detto!” fecero in coro gli altri.

-“E io, intervenne uno dei meno anziani, propongo che venga al più presto costruito il muro di cui da tempo si discute tra noi”.

Scoppiarono gli applausi e il borgomastro diede ordine di portare in prigione i tre giovani.

Si stabilì che dalla settimana successiva si sarebbe dato avvio ai lavori per la costruzione del muro, lungo la spiaggetta. Nelle intenzioni della comunità, il muro doveva avere una doppia funzione: impedire il ripetersi di avventure come quella dei tre giovani e salvare la comunità da eventuali sbarchi di esseri indesiderati provenienti dall’isola. Il muro doveva essere abbastanza alto e abbracciare la roccia da una parte all’altra.

Tra gli abitanti dell’isola, dopo la venuta dei tre stranieri, si era diffuso un desiderio di conoscere la terra da cui provenivano, che era stata sempre sotto i loro sguardi, sia con il bel tempo quando il sole faceva risplendere le rocce, sia quando la nebbia o il temporale la nascondeva e lasciava loro il gioco della immaginazione.

Un giovane, alto e forte, decise con la sua compagna incinta di raggiungere quella terra. Su un tronco d’albero aveva ricavato per sé e la compagna due comodi posti e all’alba iniziarono la traversata. Il giovane conosceva il pericolo dei gorghi in quel tratto di mare, per cui riuscì ad evitarli e a giungere sulla piccola spiaggia del promontorio quando il sole era a metà del suo corso. Tirò a sé il tronco e insieme si avviarono a piedi fino a un’ampia grotta dove si rifugiarono.

Dopo gli ultimi avvenimenti, il borgomastro aveva preso le sue precauzioni: due giovani a turno avevano ricevuto l’incarico di vigilare la spiaggetta dall’alto di una roccia. La notizia di quell’arrivo, dunque, si diffuse in un baleno per tutta la cittadina. Ai due giovani fu ordinato di ritornare sul posto e vigilare senza farsi notare, in attesa che si preparasse una spedizione per l’alba del nuovo giorno.

Curiosità e preoccupazione crescevano di pari passo. La gente voleva essere informata: “Chi erano? Come erano? Quanti erano?”

Erano tutte domande che si rincorrevano. Già dopo il tramonto, con il primo chiarore della luna, si avviarono gli uomini con bastoni e forconi, seguiti dalle donne che, meno inclini alla violenza, portavano dietro anche i loro bambini e illuminavano la via con i lumi. Percorsero il breve tragitto e giunsero alla spiaggetta, ma non trovarono nessuno. I giovani rimasti di guardia, dall’alto della rupe, gridando, indicarono la grotta dove si trovavano gli invasori.

Uno spettacolo straordinario, inaspettato, si presentò ai loro occhi. Un uomo in piedi stava accanto a una donna che teneva in grembo un bambino e lo allattava al seno.

Una donna esclamò: “Ma è un presepe!”

Gli uomini lasciarono cadere a terra i bastoni e si fermarono stupiti a guardare, le donne e i bambini entrarono dentro, coprirono la donna e il bambino con grembiuli e fazzolettoni che avevano con loro e a turno vollero accarezzare e prendere in braccio il bimbo appena nato. Qualcuna tirò fuori dalle tasche un po’ di pane, un frutto, e li offrì alla giovane madre e al compagno. Un’altra prese l’iniziativa di tornare a casa a prendere indumenti, latte e formaggio.

Restarono là tutta la notte, finché all’alba udirono voci e passi che si avvicinavano. Era la spedizione annunciata dal borgomastro. Colui che aveva il comando della spedizione, dopo aver legato le braccia al giovane straniero, voleva fare la stessa cosa con la sua compagna, ma le donne si frapposero e impedirono che venisse portata via. Una di loro disse: “Io sono sola a casa, sono vedova, posso ospitare la donna e il bimbo!”

E subito l’aiutarono ad alzarsi e portando il bimbo in braccio le donne si accinsero a tornare in città.

Il giovane prigioniero, intanto, fu condotto dinanzi al Consiglio in seduta plenaria. Una gran parte della popolazione era venuta ad assistere, anche se non tutti erano riusciti a trovare posto. Molti erano rimasti nei corridoi e una fila di persone sostava nella piazza antistante il palazzo in attesa delle decisioni che avrebbe preso il Consiglio.

Dai discorsi che si intrecciavano si capiva che i più erano sorpresi dall’aspetto assolutamente umano del prigioniero.

-“Allora, diceva uno, i nostri antenati ci hanno ingannato, quando dicevano che quell’isola era abitata da mostri?”

-“Proprio così, diceva un altro, mia moglie mi ha detto che la compagna è una donna normale e come ogni donna ha partorito un bambino!”

Nel frattempo il borgomastro aveva preso la parola e rivolgendosi al medico che aveva fatto intervenire:

-“Signor dottore, noi l’abbiamo invitata perché lei possa esaminare attentamente questo essere che abbiamo catturato e esprimere la sua autorevole opinione sulla sua appartenenza o meno alla razza umana”.

Il dottore, inforcando gli occhiali, si avvicinò al prigioniero, lo guardò, lo tastò, lo fece camminare, gli fece aprire la bocca, gli strappò un capello dalla testa, poi concluse: “Per me è umano, è come noi!”

Un mormorio corse per la sala: approvazione, disapprovazione?

A un tratto uno degli astanti, mentre tutti i membri del Consiglio erano rimasti sorpresi e ammutoliti dopo aver udito il giudizio del medico, si levò in piedi e con voce tonante disse:

-“ Eh,sì, cari signori! Lo vediamo tutti che costui ha due occhi, un naso, una bocca, due gambe e due braccia, ma possiamo solo per questo dire che è come noi? Io non ci credo. Chi ci dice che ha anche un cuore, un cervello, un fegato, dei polmoni, un sangue come il nostro? Occorre secondo me fare una prova decisiva: “Aprirlo! Sì, aprirlo e vedere se anche dentro è come noi!”

Un senso di raccapriccio si avvertì tra la folla. Ma ci fu qualcuno che disse:

-“Sì, il nostro amico macellaio se ne intende, è il suo mestiere. Aprirlo…aprirlo!”

Il borgomastro intervenne a calmare gli animi e, comprendendo che era indispensabile richiamarli alle leggi di civiltà, disse che

la questione dell’umanità del prigioniero era chiusa. Era bene a quel punto esaminare la faccenda sotto un altro aspetto.

-“La nostra comunità finora è vissuta in piena armonia e tranquillità. A nessuno dei nostri concittadini è venuto a mancare l’essenziale: cibo, abitazione, lavoro. Per questo ora noi temiamo che l’arrivo in massa di questi stranieri possa arrecare danno, squilibrio, sofferenze. Forse tutti voi ricorderete che cosa accadde a un tizio che possedeva un bel palazzo. Un giorno si accorse che alcuni topolini avevano invaso un paio di stanze. Si comprò due grossi gatti e tutto tornò tranquillo. Ma per poco, perché quei topolini si moltiplicarono e divennero anche più grossi fino a far paura anche ai gatti, i quali non osavano più attaccarli e facevano finta di non vederli. Insomma, cari concittadini, finì che il palazzo fu del tutto occupato da una schiera di topi divenuti ancora più grossi e temibili, al punto che il padrone dovette abbandonare il palazzo”.

Tutti applaudirono.  “Sì, ha ragione il borgomastro. Dobbiamo difenderci ad ogni costo!”

-“E allora, concittadini, continuò il borgomastro, la mia proposta di costruire il muro resta valida per fare in modo che non avvengano sbarchi nel nostro territorio. Inoltre domani stesso provvederemo a rimandare indietro il prigioniero, la sua compagna e il bambino”.

Altri applausi e poi il Consiglio si ritirò. La gente, soddisfatta, cominciò ad allontanarsi e tornare nelle proprie case.

Vincenzo Fiaschitello

Nato a Scicli nel1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola alla Facoltà di Magistero Università di Roma. Direttore didattico dal 1974, preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.

E’ autore di vari saggi sulla scuola, di opere di poesia e di narrativa.

Attualmente è redattore della Rivista culturale telematica “Il Pensiero Mediterraneo” (Redazione di Roma).

Vincitore della XXXIX edizione (2023) del Premio dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli e della rivista internazionale “Nuove Lettere” per la raccolta edita di racconti “Ginevra, racconti storici e non”, Avola, Libreria Editrice,Urso, 2021.

Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore Ordine al merito della Repubblica Italiana (1997).


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