IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Riflessioni sulla guerra. “Tutto è premuto,  qui…non c’è spazio”: due testimonianze sulla guerra in Ucraina,  una ucraina e una russa, che vivono a Trieste

immagini guerra in Ucraina

di Enrico Conte

immagini guerra in Ucraina

Sono passati ormai più di 100 giorni dall’inizio della guerra scoppiata il 24 febbraio.

Mesi di sconcerto e di raccapriccio, per l’orrore di un conflitto che ha riportato l’Europa indietro di  ottant’anni, ad  una concezione ottocentesca (così il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella) dei rapporti tra gli Stati e gli Imperi, a fronte di una spietata aggressione accompagnata da minacce nucleari, in grado di innescare un conflitto dagli esiti imprevedibili.

Le immagini che corrono, e che scivolano davanti ai nostri occhi da quel 24 febbraio, non sono quelle di Berlino, Francoforte, Colonia o di altre città europee ferite in forme distruttive dai bombardamenti degli alleati alla fine della seconda guerra mondiale.

Sono quelle di Kharkiv, Chernihiv, Irpin, Zaporizhzhia, Borodyanka, Bucha, Kherson, Mariupol, della battaglia in corso di Severodonetsk e dei tanti anonimi centri abitati rasi al suolo da un conflitto che travolge ogni cosa, piazze, mercati, ospedali, scuole,chiese,edifici pubblici e privati e, insieme con quelli, memorie personali e collettive, storie di città e di ogni singolo membro delle comunità, la cui vita è cambiata tragicamente all’improvviso, nello spazio di una notte, quella stessa notte con la dichiarazione di guerra da parte di Putin che ha sdoganato,nel XXI secolo, la parola “arma nucleare”.

Ma con le bombe è venuta anche meno, per gli europei, quella sensazione di “distanza” che  faceva pensare che le guerre fossero faccenda di un altro mondo, anche per quella sorta di copertura assicurativa, quella garanzia offerta all’Europa dagli Organismi Internazionali e basata su Jalta; con un Patto che risale a Roosevelt, Stalin e Churchill.

Con questa guerra è stato clamorosamente violato il diritto internazionale, e  lo scudo che quel  Patto ha sempre offerto, e senza il quale siamo nudi, esposti, privati di uno schermo protettivo, che il Cremlino ci ha strappato (Ezio Mauro).

La complessità della storia non può tuttavia impedirci di individuare un aggressore, Putin, che si richiama esplicitamente a Pietro I, detto il Grande e un aggredito, il popolo ucraino,  che vede la legge violata tacere, con una guerra che azzittisce  tutti, lasciando senza parole.

Resta ferma la necessità di capire, di analizzare le ragioni di una guerra che mette in pericolo la sopravvivenza pacifica di un mondo che si riscopre fragile – fragilissimo –  perché economicamente interconnesso e globale –  per pensare a cosa occorra per raggiungere la pace, alle prese con un nichilismo e un messaggio simbolico di morte  privo di speranza, e che usa le risorse naturali(il gas) come ricatto.

……..”E noi, nel mentre – scrive Antonio Scurati –  più o meno commossi dalle tragedie altrui, siamo giunti al punto  in cui le vittime della guerra, che da tre mesi si ripete uguale a se stessa sui nostri comodi schermi, siano diventate statistica.  Ne è triste indizio il fatto che le vittime civili, vittime per eccellenza, abbiano smesso di occupare la scena mediatica. In principio ci emozioniamo per quelle vite non nostre. Trepidazione per loro, palpitammo perfino, di sdegno e d’orrore. L’emozione però, lo si sa, dura il volgere di un istante. Solo i sentimenti sfidano il tempo, solo i ragionamenti, le idee radicate, i valori consolidati durano a lungo. Le emozioni no, quelle si consumano in fretta, al pari di ogni altro prodotto dell’intrattenimento di massa. La gente – conclude Scurati  – dopo un po’ si annoia e cambia canale in fretta“.

E intanto quelle immagini e quei  fotogrammi che scorrono in TV – o sui social – dopo lo choc iniziale, rischiano  di produrre – lo hanno già prodotto – un effetto anestetico, una distratta abitudine, un’assuefazione.

Ottant’anni di pace, con tre generazioni – complice il benessere economico e la tecnologia degli ultimi anni – hanno alimentato un distacco dai brutali rapporti di forza tra Imperi e, più semplicemente,  dalle cose reali, fenomeno analizzato con certa recente consapevolezza, e che ha inevitabilmente finito per coinvolgere ogni aspetto della vita, non ultimo il nostro rapporto con questa guerra, a due passi da casa. A 1500 km, ma in fascia protetta.

Con i primi cento giorni si stabilizzano le contabilità: 20.000 soldati ucraini morti, 12.000 russi, 4.200 i civili uccisi, 234 i bambini e 6,6 milioni di profughi, il 15% della popolazione.

Dotati di strumenti di lettura che ormai venivano ritenuti superati e impolverati dalla storia, il quotidiano spettacolo delle distruzioni, del dolore e delle catastrofi, è parso, via via, perdere la possibilità di decodificare quello che stava (sta) accadendo, e di metterci in relazione empatica con le persone colpite.

Solo chi ha sofferto è in grado di capire” (Eschilo) massima, questa, alla quale sembra fare eco il ragionamento del filosofo Byung-Chul Han: “L’indignazione digitale non è cantabile, non è capace né di azione né di narrazione, rappresenta uno stato emotivo che non dispiega alcuna forza in grado di produrre azioni…….la dispersione generale che contraddistingue la società di oggi non permette all’energia epica dell’ira di sorgere. Il furore, piuttosto, in senso enfatico, è più di uno stato affettivo, è una capacità di interrompere uno stato in essere e di farne iniziare uno nuovo. In questo modo produce il futuro. La massa di oggi è oltremodo superficiale e distratta: le manca qualsiasi massa, qualsiasi gravitazione necessaria per le azioni. Non genera alcun futuro!“.

Alle prese con il desiderio di sottrarci alla “società dello spettacolo” (Guy Debord), potremo tentare di darci una tregua, come fossimo spettatori che escono dal teatro per dedicarsi ad una più pacata riflessione, per procurarci un pizzico di sale-ragionamento, una piccola dose di consapevolezza e, durante questa tregua, provare a metterci in ascolto di chi è testimone di quell’evento, anche se indiretto, perché lontano dai luoghi del conflitto, ma in ogni caso coinvolto dall’appartenenza ad un popolo che combatte. 

Sentire testimoni indiretti di un conflitto, persone semplici e in carne ed ossa, fuori da uno schermo televisivo o di uno smartphone, può dare spazio alla possibilità di metterci in ascolto di punti di vista diversi, formatisi in contesti informativi distinti, di immaginare quel dolore, di riempire un vuoto di senso altrimenti alimentato dal moltiplicarsi frenetico delle immagini delle distruzioni e delle bombe sui palazzi sventrati, sui corpi martoriati e sull’orrore, sul silenzio e sul pianto dei sopravvissuti, sul dolore degli altri, che anestetizza se visto in TV.

Le interviste

Tutto è premuto, qui non c’è spazio”, così esordisce nella nostra chiaccherata Larysa Troyanova, edicolante,  alludendo alla serie di palazzi costruiti a Trieste, tra la fine del ‘700 e i primi del ‘900, alti anche cinque piani, con caratteristiche che si ritrovavano, al tempo, solo nelle grandi città e nelle capitali, quello che Maria Teresa d’Austria volle per Trieste, quando nel 1719 creò il Porto franco, attirando gente da tutto il mondo.

Tutto è premuto ,qui non c’è spazio…… ripete Larysa.

Sono nata a Kirov, in Russia, ma all’età di due anni, nel 1973, i miei genitori si sono trasferiti in Ucraina, nella città di Karkiv vicino al confine, in una regione russofona I miei nonni abitavano in campagna
(n.b.: scopriremo che russofona non vuol dire russofila).

Ho studiato per poter essere un insegnante elementare, e lo sono stata in concreto fino ai primi anni successivi alla caduta dell’Unione Sovietica; dal 1990 al 1996, quando nasce mio figlio, e mi trasferisco a Sumy con i mia madre e mio fratello. Dopo, non si trovava più lavoro come insegnante e, grazie alla frequenza di un corso per elettricisti, ho iniziato a lavorare nell’azienda elettrica di Stato.

Nel 2005 ho deciso di venire in Italia, e con mezzi di fortuna siamo state caricate in cinque in un pulmino,  siamo arrivate a Mestre, passando per Tarvisio, ci hanno fatto scendere e ci hanno detto: adesso arrangiatevi!

Ho iniziato a fare lavoretti a Bassano del Grappa, poi come badante a Conegliano Veneto, da un signore di 96 anni che ha regolarizzato la mia posizione contributiva. Mi ha aiutata molto e mi ha voluto bene. In quel periodo ho conoscito via internet un uomo, un triestino, oggi è mio marito.

Prima di partire per l’Italia avevo divorziato, senza mai ricevere aiuti per nostro figlio dal mio ex marito. Ogni tanto, rivolgendomi a lui, gli chiedevo: magari un aiutino? Ma per il suo disinteresse gli è stata tolta la patria potestà.

Mio figlio è rimasto con i nonni e l’ho rivisto per la prima volta dopo due anni di lontananza.

Dal 2014, in particolare dall’occupazione della Crimea, io non mi sento più russa ma ucraina. Se penso al un paesaggio che mi manca, ricordo quello dei campi di grano e di cereali, immensi, lunghissimi a vista d’occhio, quasi infiniti. Io li incrociavo anche quando, di ritorno dall’Italia e atterrata a Kiev, facevo il tragitto che mi portava a Kharkiv da mio figlio.

Adesso  ci sono mia madre e mio fratello nel Donbass, a Sumy, la città che, dopo quattro settimane di occupazione, è stata liberata dagli ucraini.

Alle tre del mattino, quando mio marito apre la nostra edicola in Piazza Goldoni, si accerta, dandomene notizia, che i cellulari dei miei cari funzionino e che loro rispondano ai messaggi.

Se non ci sono novità da mia madre e da mio fratello, vuol dire che sono vivi e non sono finiti sotto le bombe.

Quando il 24 febbraio è scoppiata la guerra in Ucraina, nelle zone di confine se lo aspettavano, mentre io mi auguravo che quella tensione che mi veniva raccontata si risolvesse per via diplomatica. Ora seguo le tv, quella italiana e quella ucraina, quella russa non la vedo per principio, perché l’informazione è distorta.

Se vedo i bombardamenti e sento le sirene via telefono, mi viene da piangere, come quando vedo mia cugina russa con la Z sulla maglietta. Lei abitava a Doniesk, città che è stata bombardata, da allora hanno preso le parti della Russia e  pensano che sia stata l’Ucraina a chiedere l’intervento di Putin con la sua operazione speciale….. intervento armato che ricorda la guerra di annientamento  con  programma di distruzione delle città tedesche nel 1943 ad opera degli alleati……

Il mio popolo è un popolo fiero e orgoglioso continua Larysa, ora ho voluto che una mia cugina, con marito e due gemellini, venissero qui in Italia, dove  sono stati aiutati da una signora benefattrice triestina che vuole restare anonima. Sono accolti con grande disponibilità d’animo a Muggia, presso la Parrocchia di Don Andrea Destradi, che è una grande persona. 

……  Dopo i bombardamenti a Kharkiv, ricorda il fotografo Paolo Pellegrin, nelle pause degli attacchi c’erano gli spazzini nelle strade e persino i giardinieri al lavoro nei parchi, forme di resistenza, che richiamano l’episodio ripreso da W.G. Sebald nel suo “Storia naturale della distruzione “dove si narra dell’impiegata di un cinema, la signora Schrader che, dopo la caduta di una bomba ad Amburgo, si mette subito all’opera con una pala della protezione antiaerea, nella speranza di riuscire a sgomberare le macerie per lo spettacolo delle due del pomeriggio”….. .

Julia Karpeeva, barista, anche lei è nata  in Russia, a Ulianovski, la città di Lenin, mi ricorda la signora con inconfondibile accento russo.

Prima del 2014, quando c’è sta l’invasione della Crimea,  qui a Trieste c’erano stati alcuni  episodi di intolleranza verso di noi russi da parte di persone ucraine. Poi sono aumentati anche nel negozio di prodotti russi che c’ è in via Ginnastica.

Nel 2007 conobbi una ragazza ucraina, lei mi raccontò che quando andava a trovare i suoi genitori in Ucraina, aveva paura di parlare in russo per il timore di essere picchiata. Quella volta mi sembrava surreale una cosa del genere, ma più passavano gli anni più si sentiva odio degli ucraini verso i russi, a me sono capitati due episodi spiacevoli già prima del 24 febbraio con due donne ucraine, che non conoscevo.

Una mi aggredì verbalmente mentre parlavo con mia figlia in russo. A distanza di pochi mesi incontrai nel negozio russo di via Giannastica, un’altra signora che, rivolgendosi a me, in modo dimostrativo, disprezzò articoli in vendita made in Russia. Pensai avesse dei problemi!

Più tardi, dal 2014, dall’ucraina si sentono slogan contro i russi, che sollecitavano allo sterminio dei russi. Per me una follia se si pensa che in Ucraina il 30% della popolazione erano russi, a scuola si parlava e si parla tutt’ora in lingua russa.

In Russia non ho mai visto lo stesso odio verso gli ucraini o altra nazione.

Sono sicura che il Governo russo non aveva altra scelta che iniziare l’operazione speciale per porre fine a un genocidio contro i russi da parte del governo ucraino, e che dura da otto anni nel Donbass.

Da allora ho pensato che la gente che viveva nel Donbass dovesse essere aiutata. Ho mantenuto i contatti con i miei parenti i quali sostengono che sia necessaria la denazificazione dell’ ucraina…. in Russia non ci sono arruolati….. la guerra….. è condotta da contractor .

Mi auguravo che tutto si risolvesse in via diplomatica mentre sono arrivati a dividere la chiesa ortodossa con un Patriarcato ucraino, distinto da quello di  Kiriv a Mosca.

Come penso che – continua Julia – non sia stato giusto che qui a Trieste al Teatro Rossetti, appena è scoppiata la guerra, abbiano deciso di non rappresentare il “Lago dei Cigni” di Cajkovskij…. che cosa assurda!…è stato annullato….eppure il popolo russo è pacifico, più mite  degli ucraini. Se penso ad un paesaggio che mi manca ricordo alberi, alberi e verde, tanti alberi.

Quanto al  ragazzo di 21 anni che è stato processato, e che è stato condannato all’ergastolo per aver ucciso civili inermi, ha confessato, è vero, ma temo che sia stato costretto a farlo. Ho seguito un giornalista inglese che ha fatto vedere che i nazionalisti ucraini non venivano perseguitati dalla giustizia.

A Larysa e Julia, al termine della chiaccherata, che si è svolta in momenti diversi, il cronista ha chiesto quale fosse un piatto tipico della tradizione cui fossero particolarmente affezionate.

Entrambe hanno indicato il “Borsch”, che è una minestra con le barbabietole rosse, con la variante delle verze e delle patate: una tradizione le unisce ed è emozionante immaginare il momento della preparazione di questo semplice pasto  nelle loro case realizzate in stile sovietico, e che abbiamo visto distrutte dai bombardamenti, o nelle sterminate campagne dei loro paesi.

Henry Kissinger ha recentemente dichiarato che l’Ucraina è un paese che si sviluppa attraverso  una faglia, ecco, in quella frattura della terra ci sono scivolate, Larysa, Juila e il loro popolo, e noi con loro, più o meno consapevolmente, mentre……………. alle nostre spalle l’angelo della storia di  Walter Benjamin, con il suo sguardo fisso e sbigottito, con i suoi occhi spalancati, osserva una sola catastrofe, la quale accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi…. egli “vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma dal Paradiso spira una tempesta che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine sale davanti a lui fino al cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta”. (Walter Benjamin, ripreso da W. G. Sebald nella sua “Storia naturale della distruzione”).

Finita la conversazione con Larysa e Julia ritorno sul mio smarphone e, sulla pagina di Facebook,  dove trovo le tre funzioni che servono per alimentare la rete social: mi piace, commenta e condividi, manca la funzione “compassione”, quella particolare e profonda percezione della sofferenza altrui che consente di entrare in relazione empatica con le persone, perché costituita da un “sentimento” che nasce e che si consolida in una pratica reale, e non da una pura “emozione” (Scurati) espressa dietro uno schermo.

A spiegare quella sensazione di smarrimento provata davanti alle immagini della catastrofe ucraina, non possiamo escludere che concorra l’esistenza di uno spazio lasciato vuoto, l’assenza di  un cappello simbolico, di quel qualcosa che può offrire una visione complessiva, che serva  a “contenere” emozioni, riflessioni, impulsi, idee, che fornisca quel limite, quella cornice, che occorre per far maturare un pensiero, individuale o  collettivo che sia, e per dare la possibilità di attribuire un senso alle cose che accadono, proprio ciò che  manca in questi difficili giorni di guerra.

Enrico Conte, 15  giugno 2022

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