IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“La costola di Adamo”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello

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La costola di Adamo

La costola di Adamo

Trascorrevano gli ultimi giorni di agosto presso un agriturismo in collina. Nel pomeriggio, mentre Maria, la moglie, restava a fumare una sigaretta e a bere il caffè con la padrona di casa, i figli, due maschi di sei e di otto anni, si divertivano a giocare con i cani e a guardare le capre che brucavano l’erba intorno.

Samuele preferiva inerpicarsi, tutto solo, verso la sommità della collina, percorrendo un sentiero in ripida salita. Più avanti, la salita diveniva più dolce e giungeva finalmente al bivio, dove si ergeva su un basamento di cemento e mattoni un crocifisso di legno ricoperto di polvere sul quale spiccava il corpo di Gesù, scolpito con una carne così smagrita e sofferente da mostrare vistosamente tendini e ossa.

Di rado, lungo quel percorso, incontrava qualcuno; ogni tanto si udiva il suono di un campanaccio: erano le mucche che lentamente si spostavano lungo il pendio della collina. A lui piaceva molto quella agreste solitudine entro la quale immergeva il suo pensiero, assorbito rapidamente come il pane in piccoli tozzi inzuppato in una tazza di candido latte.

Seduto su un sasso vicino al crocifisso, volgeva lo sguardo verso la valle dalla quale giungeva il ronzio degli uomini, amava ricapitolare le tappe della sua vita alla luce di quella teoria di E. Haeckel, che da studente aveva trovato molto interessante (1).

Provava a verificarla e, sì, in fondo un po’ di verità doveva pure averla!

Infatti quando era ragazzo, era proprio come l’uomo primitivo, sempre a correre, a saltare, a lottare con i compagni reali o immaginari, ad arrampicarsi sugli alberi, a cercare rifugi in grotte nascoste, a costruirseli come nicchie tra il fogliame.

Nello stesso tempo sentiva un forte bisogno di protezione dai pericoli, dalle paure ancestrali, e trovava naturale rifugiarsi nella religione. Frequentava la chiesa, gareggiava con i compagni per servire la messa e, quando non gli riusciva, si soffermava in sagrestia a sfiorare con le mani quelle corazze di stoffe di vari colori, appese nei grandi armadi di legno scolpito, dai quali usciva odore di santità per i ripetuti incontri con Dio, odori di incenso che impregnavano di umiltà e di fede i suoi vestiti e il suo cuore.

Da adolescente e giovane, si riteneva un provetto cacciatore, prima di prede di animali veri, poi via via di animali di fantasia e infine di donne che vedeva come schiave da catturare, da sconfiggere come le belle amazzoni e trascinare per i lunghi capelli fino alla propria dimora. C’era in lui una sorta di superiorità innata e di disprezzo, al punto che, già giovane brillante universitario, non mancava mai di accompagnare il passaggio di una ragazza, non con i soliti apprezzamenti delle qualità femminili, ma con frasi talmente oscene che la poveretta di turno non osava nemmeno alzare gli occhi e si allontanava velocemente, sicura di avere incrociato un maniaco.

La sua voglia di annientamento della donna giunse a un punto tale di esasperazione che lo portò a colpire tutto ciò che rappresentava il “femminile”: dai documenti del personale femminile nei pubblici uffici all’abbigliamento nei negozi. Ne uscì con una severa multa e ammonizione del giudice, evitando per poco una condanna più grave che per lui sarebbe stata fatale.

Da adulto dimostrò eccezionali doti di intelligenza e una profonda cultura che gli fecero raggiungere importanti obiettivi nel lavoro. Ma non lo abbandonava una sorta di doppia esistenza, perché accanto a quel senso di disprezzo verso le donne e di supremazia maschile che continuava ancora a persistere, c’era in lui, all’opposto, una forma di sopravvalutazione della femminilità. Vedeva nella donna la perfezione, la bellezza, la gentilezza dei modi di comportamento, la comprensione, la fedeltà, lo specchio per eccellenza di ogni virtù. E questo naturalmente lo portava, da un lato ad amare con passione e devozione la moglie, dall’altro a desiderare di possederla e di dominarla come fosse una cosa di sua proprietà, a sottometterla a criteri indiscutibili di obbedienza, a tenerla schiava e preda pronta a essere divorata. Ogni segno, anche minimo di decadimento della bellezza, veniva rimarcato con il dileggio e l’ironia.

Questi ribollimenti interiori lo prostravano e, tuttavia, non poteva fare a meno di ritornarvi spesso. Si chiudeva in sé, non amava discorrere, “faceva riposare la sua voce”, diceva, a chi lo interrogava sul perché di quel mutismo. E in quello stato non gli piaceva il movimento, le forme fluide, inafferrabili, come poteva essere l’acqua di un torrente, una cascatella fra le rocce. Preferiva un’acqua ferma, racchiusa entro confini ben precisi, uno stagno o persino una pozzanghera, dove magari andavano a suicidarsi inesperte formiche o imprudenti insetti. Un terrore inspiegabile si impadroniva di lui al solo pensiero di una grande cascata d’acqua, di un fiume in piena, della distesa smisurata del mare. Era meglio, dunque, concentrarsi sulla poca acqua che versava la mattina sui vasi di gerani della finestra di casa o ricordare, quando era ragazzo, quel filo d’acqua che lasciava cadere dalla ampolla, nel momento in cui sull’altare il sacerdote doveva  lavarsi le mani per prepararsi all’offertorio.

Al passaggio di un gregge, si alzò in piedi per meglio guardare quella bianca lanugine che andava rispuntando sul dorso delle pecore, tosate alla fine della primavera. Una pecora si fermò a brucare un ciuffo d’erba che fuoriusciva da sotto il sasso dove prima se ne stava seduto. La pecora alzò la testa.

-“Che sguardo strano”, disse fra sé Samuele. Quegli occhi umidi, quelle pupille che lo fissarono per un interminabile istante, lo lasciarono confuso e turbato. Gli venne in mente l’articolo di un giornale che qualche giorno prima lo aveva particolarmente colpito.

“Una su diecimila è umana”, riferiva il giornalista, commentando l’esperimento condotto da una  équipe di scienziati americani, che avevano ottenuto un embrione di pecora-uomo. Una cellula su diecimila era umana!

Dall’embrione al feto? Il miracolo della moltiplicazione delle cellule che, aspirando ciascuna a rinunciare all’unicità di se stessa, erano pronte a creare una nuova vita! Ma quale vita?

E Samuele non poté trattenersi dal pensare all’antico mitologico centauro. Uno scienziato ante litteram aveva già catturato il segreto della manipolazione della vita?

Sembrava a Samuele che quelle idee, quelle supposizioni, quei pensieri, si andassero tutti a collocare in un mondo diverso da quello comune di cui ciascuno ha esperienza, in un mondo tra realtà e sogno, tra la vita e la morte, tra la luce che dà chiarezza e razionalità e il buio che nasconde nel mistero e stende una tela spessa e cupa a ricoprire ogni cosa.

Il giorno tardava ancora a morire, quando Samuele decise di scendere e avviarsi verso casa. Quasi tintinnavano quei cristalli di tristezza che si erano formati nella sua anima. Aveva l’impressione che persino la cultura, le centinaia di libri che erano stati il nutrimento della sua mente e del suo cuore, lo abbandonassero a se stesso, senza aiuto alcuno. Gli stessi principi etici appresi in famiglia e in chiesa, gli stessi dogmi della religione, tutto gli appariva come un vestito logoro, rattoppato in più punti. E le lacrime cominciarono a scorrere sulle sue guance, pensando alla poesia che un tempo aveva visitato la sua anima e poi se ne era fuggita, anzi era rimasta sotto il suo sguardo triste, come quello di un uomo che, dall’alto di una scogliera, scorge in mare una bottiglia che sprofonda e s’alza sulle onde e poi di nuovo sprofonda. L’uomo immagina che dentro ci sia un foglio di carta, quella poesia che non ha mai scritto. Abbandonata nelle acque del mare, nessuno ha potuto raggiungerla e resta là a vagare, a danzare, in attesa che qualcuno la salvi. Ma chi può farlo?

-“Non certo tu, si diceva Samuele, che non sei più figlio del cielo, non tu che hai scordato il cielo stellato, non tu che hai smesso di amare!”

Quella notte non fu per Samuele, una notte facile. Aveva stentato a prendere sonno, dopo che a lungo aveva conversato con la moglie su tutte le piccole cose accadute in famiglia: la sbucciatura del ginocchio del piccolo, la gioia provata dal figlio più grande per la prima cavalcata, la cattura e la successiva liberazione di un passero entrato in volo nella sala da pranzo. Tutto, la donna aveva saputo gestire con pazienza, con dolcezza e saggezza. E Samuele approvava compiaciuto.

Ma la notte, la notte fu dura!

Una luna piena illuminava la campagna. Dalle finestre aperte, ogni tanto giungeva il verso di una civetta. Samuele non era superstizioso e quel suono non lo infastidiva affatto. Piuttosto c’era qualcosa, come un pelame ispido che ai piedi del letto sopra le lenzuola lo infastidiva, ma non riusciva a capire che cosa fosse.

Si addormentò o forse no! Sentiva una voce rauca come proveniente dal fondo di una caverna: “Uccidila… uccidila!… Ora riprenditi la tua costola, la tua costola!”

Allora gli sembrava di ubbidire a quella voce, a quel comando assurdo. Prendeva, a tastoni, la corona del rosario che ogni sera la donna devotamente recitava, gliela infilava al collo e poi stringeva, stringeva, fino a soffocarla.

“Ora, riprenditi la costola che ti è stata rubata”, gli diceva la voce. E lui prendeva il grosso coltello che quell’essere

immondo, sollevatosi dal letto, gli porgeva e apriva il petto della donna e le staccava una costola.

Si svegliò, si guardò attorno atterrito. Lui stava con un braccio proteso fuori dalle lenzuola come se stringesse in mano un osso scarnificato, guardò la moglie e sentì che dormiva tranquillamente. La toccò con una mano sul viso e quella accennò un sorriso e disse: “Perché non dormi? E’ ancora notte!”

Quando tornarono in città, Samuele, ancora con quel macigno di rimorso che si portava dietro, volle andare a trovare un suo vecchio amico che non vedeva da anni. Suonò alla portineria del convento di S. e pregò il padre di annunciarlo a monsignor Alessandro, il priore. Questi fu felice di rivederlo: “Caro Samuele, finalmente ti rivedo! Come stai?”

-“Non vedi, don Alessandro? Il lavoro va bene, ma il resto proprio no!”

Si sedettero in una saletta e don Alessandro ascoltò Samuele, il quale parlò in maniera precipitosa e confusa. Ma le parole assassino, colpevole, le afferrò perfettamente e sbiancò in viso.

-“Ma mi stai dicendo che hai ucciso tua moglie? Ma perché? Come è successo?”

-“Sì, no, don Alessandro. L’ho uccisa, ma non l’ho uccisa!”

-“Spiegati meglio, Samuele, e calmati per l’amor di Dio!”

Raccontò con calma quel che esattamente era successo quella notte.

-“Sì, è vero, non l’ho uccisa realmente, ma io mi sento ugualmente colpevole, come se l’avessi fatto! E poi, don Alessandro, soffocarla con la corona del rosario…Non riesco a darmi pace.”

-“Senti, caro Samuele, ho capito tutto. Tu sei ancora sconvolto per quel terribile sogno. Questo può essere il momento propizio perché tu possa tornare alla fede di un tempo e dare una svolta alla tua vita. La settimana prossima avremo qui in convento il famoso professor Gianluigi Milani, il quale è un esperto conduttore di gruppi di spiritualità. Fai ancora in tempo a iscriverti, se sei d’accordo, e così lunedì puoi entrare nel gruppo anche tu. Vedrai che ne uscirai rinnovato”.

Dopo un’ampia dissertazione sulla efficacia del gruppo di spiritualità, il prof. Milani disse:

-“Ora, a turno, ciascuno di voi si presenti e, senza curare troppo l’ordine di esposizione dei propri pensieri, li comunichi agli altri liberamente, parlando di sé, come confessandosi, senza reticenza alcuna”.

Già dal secondo giorno, tra i partecipanti, una decina di maschi di mezza età, si era stabilito un clima di cortesia e di discreta amicizia. Man mano che passavano i giorni e ci si avviava al termine della settimana, quasi tutti i membri del gruppo avevano esposto le riflessioni personali in maniera sempre più articolata, tanto che il prof. Milani aveva dovuto suggerire all’inizio della seduta un limite di tempo. Toccò infine a Samuele fare il suo ultimo intervento.

La sera precedente, Samuele si volle ritirare in una piccola cappella del convento per chiarire meglio a se stesso i pensieri che si affollavano nella sua mente. Alzando lo sguardo, si avvide di un quadro che riproduceva il meraviglioso affresco di Giotto nella cappella degli Scrovegni: l’accesso di Cristo a Gerusalemme. Gli sembrò un segno della volontà del Signore, come accadeva al santo vescovo di Ippona quando sentiva una voce che lo invitava ad aprire a caso il libro della Bibbia e leggere i versetti che gli capitavano sotto gli occhi. Sì, poteva essere il segno che il Signore gli mandava perché lo voleva umile come quell’asinello che portava in groppa Gesù, come l’asinello della bellissima Natività del Ghirlandaio, come l’asinello compagno di eremitaggio di San Francesco in estasi di Giovanni Bellini, come tutti gli asinelli raffigurati nell’arte scultoria dal XII secolo in poi: dalla cattedrale di Rouen, a

quella di Chartres e di Nantes, al pavimento a mosaico di Otranto, fino al famoso asino verde di Marc Chagall dei nostri tempi o ancora a quell’asinello che il nonno caricava di bisacce  di frutta, tornando dalla vigna. E pensando con tenerezza alla sua infanzia diceva: “Povero asinello, precipita tutte le mie colpe nel pozzo dell’oblio. Ah, quel pozzo dal quale, la sera d’estate, attingevo l’acqua col secchio di latta lucente e poi la versavo sull’unico limone che fioriva lì accanto, tutto l’anno!”

E dunque Samuele ora si sente pronto a rimproverare il suo intelletto, che nel suo orgoglio e aridità, gli ha imposto di vedere il mondo solo secondo la sua prospettiva e lo ha indotto a ritenersi al di sopra di tutto e di tutti, al di qua della colpa e della morte. E’ stato l’orgoglio che gli ha fatto cercare solo la bellezza, la perfezione, la felicità  a ogni costo, senza fargli notare che attorno a lui c’erano anche menzogne, debolezze, disperazione, odio. L’orgoglio che gli ha fatto dimenticare le persone che ha teneramente amato e che non sono più, quei morti  che non chiedono altro che di essere ricordati con le loro manchevolezze che avevano in vita. Dentro di sé udiva come una voce che gli diceva: “E giusto espiare le colpe, non  è giusto lamentarsi per i mali che noi stessi ci procuriamo con il nostro vivere, perciò ricordati che quando il mare e il cielo si saranno anneriti, comprenderai che il tempo è quasi finito. Invecchiando, sconfortato, sarai portato a dire che è difficile staccarti dal mondo, anche se la gioia non sempre ti ha accompagnato: la vita è sempre la vita e racchiude tutto, ti è costata tanto e continua a costarti, ma paghi volentieri finché puoi pagare, finché non sei completamente sazio, finché un dolore sovrumano non ti sovrasta e ti rende disponibile, forse, a comprare persino la morte. Ma tu non avere fretta, non lasciarti trascinare dal terrore della sofferenza, dal vedere marcire la tua

carne; non accelerare, non togliere il freno anche a quella minuscola fetta inutile di vita che ti resta. L’avrà anche la tua

tomba l’erba alta come quella che cresce attorno alle tombe di coloro che ti hanno preceduto!”

Il lungo esame di coscienza della sera consentì a Samuele di esporre dinanzi al gruppo quello che ancora costituiva un nodo aggrovigliato nel suo animo e cioè quel dramma che sin dall’adolescenza aveva vissuto: l’avversione e il risentimento verso la donna, che lo portava a svalorizzarla nella sua umanità e nel contempo a venerarla per le sue innegabili virtù. E tutto questo l’aveva portato sull’orlo dell’abisso con il sogno-realtà del delitto della moglie.

Riflettendo a voce alta, Samuele iniziò a parlare:

-“Forse l’uomo del nostro tempo, debole, fiacco, apatico, senza ideali né valori da difendere e custodire, vuole riprendersi arbitrariamente quella costola che Dio tolse ad Adamo, uccidendo, violentando, la donna. Se Adamo allora fu ben felice di cederla per avere la donna come compagna, come con-sorte, perché oggi la rifiuta? Perché tanti eventi così distruttivi e terrificanti nei suoi confronti?

Rientriamo in Adamo, scendiamo nella profondità del suo spirito, nella dolcezza immensa del nuovo e della scoperta dell’amore, della scoperta del “tu”, dell’altra carne che, senza aspettarcela, si presenta ai nostri sensi e al nostro cuore. Facciamo in modo che quella meravigliosa lontananza divenga  il punto di partenza, dal quale riprendere il viaggio interrotto, non importa da quale parte stia il torto o la ragione. Non puoi condurre da solo questo viaggio fino ai confini dell’eterno, hai bisogno dell’altra. E allora svestiti di ciò che appesantisce il tuo corpo, di ciò che amareggia il tuo cuore e  per mezzo degli occhi di Adamo, guarda le cose nella loro verginità: le montagne prima che l’uomo le scalasse, il mare prima che il legno lavorato dalla mano dell’uomo lo solcasse, l’aria prima che il respiro dell’uomo la inquinasse. Ancora oggi questo è possibile. Pensa a quel che scienza e tecnica ci stanno approntando: la promessa di un viaggio verso la verginità del

cosmo. E se questo non ti alletta o non ti convince, pensa che puoi farlo con la fantasia e con l’immaginazione, con la poesia.

E’ vero che anche uomini illustri non hanno amato la poesia, Platone, per esempio, per non dire di Nietzsche che apertamente detestava i poeti perché con i loro versi intorbidavano le acque per farle sembrare più profonde, ma è anche vero che spesso il mondo non si può guardare direttamente, ha bisogno di filtri. Come gli occhi non possono fissare il sole, così tutti noi abbiamo bisogno di un filtro speciale che è la poesia. Più che intorbidare le acque del reale, il poeta moltiplica la realtà, la scopre e la riscopre in mille modi sempre nuovi e diversi, crea il lontano, il lontano lontano, il lontano astratto e reale insieme, il lontano immaginato.

Semmai il dramma per l’uomo è quando il lontano lo vediamo vicino, accanto a noi, prossimo, e ci turba e ci disturba. Tutto bene, finché il lontano resta tale, ma quando non lo è più, allora siamo tentati di rifiutarlo e ci volgiamo nuovamente all’assenza, all’astratto, rigettando con decisione ciò che costituisce l’amore e la morte del nostro tempo e luogo, ciò che è il sangue che scorre sulla fronte del nostro vicino.

Quel che conta per questa nostra vita così effimera è il segno, forse anche il segno del nulla che ti prende il cuore, che pure ti chiama verso qualcosa, il segno che ti dà il senso della tua durata, breve o lunga che sia. Non rinunciare a cercare, anche il nulla si può cercare, alla fine potrai giudicare.

E se la tua bilancia ha bisogno di essere tarata, non perdere altro tempo, le stagioni ti incalzano senza respiro. Il nulla non è il vuoto, è pure qualcosa! E’ come il silenzio che non è semplice assenza di suono, ma suono del mistero, che il nostro orecchio udrà nel tempo che sarà capace di udire.

Ora muoviti in questo tempo che ti appartiene. Io mi commuovo a pensare che non ci sono mai stati tempi disabitati dal tempo. Sempre l’umanità, sparsa più o meno numerosa, in questo o in quel luogo della terra, ha sempre avuto le sue albe e i suoi tramonti, l’oscurità della notte e la luce del sole, lo schiudersi delle gemme e la caduta delle foglie. Non è mai riuscita a catturare le ore, il tempo, che fluisce come un fiume, imperturbabile, verso il suo mare.

E io sto qui a passare in rassegna pensieri che mi volano attorno come farfalle, che mi danzano come api ronzanti attorno a colorati fiori di campo, sento che ho un debito verso chi in questo momento compie gesti così comuni, ma anche così importanti, quali: accendere il fuoco, cuocere i cibi, preparare la pasta e fagioli che la nonna della nonna le insegnò, rigovernare la casa, sullo sfondo di un tempo perduto nella storia della umanità”.   

Vincenzo Fiaschitello

Nato a Scicli il 18/10/1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma con il massimo dei voti (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (Esami di Stato D.M.10/8/1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali (Vincitore Concorso nazionale a 119 cattedre, indetto con D.M. 30/6/ 1969) e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola –Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974 (Vincitore Concorso nazionale D.M.25/9/1970), preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.

Ha pubblicato oltre venti opere di saggistica, di poesia e di narrativa, nonché molteplici articoli di critica letteraria, di filosofia, di storia, di pedagogia e di didattica.

Onorificenza su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri: Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana (Decreto Pres. Rep. 2/6/1997)

v.fiaschitello@gmail.com


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