“Cantastorie”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello
Una grossa valigia di cartone legata con una corda e un lungo
rotolo di tela attorno a un bastone in spalla erano tutto il
bagaglio di una coppia di cantastorie, che giungeva alle prime
case di un paesino di montagna, semidistrutto dai
bombardamenti della guerra appena terminata.
Avevano percorso un lungo tratto di strada dal bivio dove un
autocarro li aveva lasciati. Stanchi e impolverati, si sedettero su
una pietra che era rotolata fin sul ciglio della strada da una casa
distrutta.
L’uomo aveva un pastrano, ricavato da un pezzo di coperta
militare, cucito rivoltato e tinto, dal quale tirò fuori da una
tasca interna il flauto e diffuse nell’aria le note di una antica
canzone.
La donna, che sotto un cappotto pied de poule indossava una
camicetta bianca confezionata con la tela del paracadute di un
biondo aviatore precipitato con il suo Stuka sui campi di
granoturco, gli si avvicinò e posò la testa sulle sue ginocchia.
Passò una vecchia vestita di nero con uno scialle bianco che le
copriva le spalle e il petto e, sorridendo, li salutò.
Beatrice, qualche anno prima che scoppiasse la guerra, era
fuggita dalla sua famiglia benestante per seguire quell’uomo di
cui si era innamorata. Tutte le mattine, Lorenzo si fermava sotto
le finestre della sua casa, suonava il flauto, recitava poesie e
raccontava storie. La gente aveva imparato a conoscerlo e si
fermava ad ascoltarlo; alcuni portavano anche i bambini.
Quando finiva, tutti applaudivano, compresa Beatrice affacciata
alla finestra.
Dagli applausi ai sorrisi, agli inchini, all’amore, il passo fu
breve!
I due innamorati, una sera, fuggirono insieme. Che vita difficile
fu la loro! Ma erano felici. Lorenzo scriveva fantastiche storie
di maghi, poesie e racconti, illustrava con disegni coloratissimi
avvenimenti storici e fatti della vita di ogni giorno. Beatrice
cantava con voce aggraziata e suonava il violino,
accompagnando la narrazione con melodie improvvisate.
-“Beatrice, è già più di un’ora che siamo qui e abbiamo visto
passare solo una donna. Non vorrei che fosse un paese
fantasma”.
-“Ah, ecco sta arrivando qualcuno, disse Beatrice, chiederò
dove possiamo andare a mangiare qualcosa”.
-“Questo è un paese molto piccolo, precisò la signora che nel
frattempo li aveva raggiunti, non troverete nessuna osteria, ma
se vi rivolgerete al parroco della chiesetta qui vicino, vedrete
che non vi farà mancare un boccone. E’ un prete di gran cuore,
che di questi tempi tristi non è facile trovare”.
I due cantastorie ringraziarono, raccolsero le loro cose e si
avviarono alla ricerca della chiesetta. La trovarono nell’unica
piazzetta del paese, un po’ danneggiata, ma ancora salda.
Il parroco non fece loro mancare pane, latte e un po’ di
formaggio.
-“Reverendo, lei si sarà accorto del tipo di lavoro che facciamo,
le domandiamo se al tramonto, a suo parere, riusciremo ad
avere un po’ di gente per le nostre canzoni e le nostre storie”.
-“Benedetti figlioli, vi pare che qui, dopo tutto quello che di
triste è accaduto a causa della guerra, ci sia ancora qualcuno
disposto ad ascoltare le vostre fantasticherie?”
-“Perché no? disse Beatrice, io credo che anzi questo sia il
momento migliore. Con i nostri versi, con i nostri canti, con le
nostre storie di maghi e di fantasia, la gente può rimettersi a
sognare. A me pare, reverendo, che quando si smette di
sognare, arrivino i guai, le cose peggiori, le malattie. Noi tutti
abbiamo bisogno di trovare significati nei fatti quotidiani, negli
avvenimenti che ci uniscono o che ci dividono,
nelle azioni di ogni giorno, ma anche nelle narrazioni, nei miti
del passato. Certo, il più profondo dei significati lo troviamo
nella religione, nell’idea di un Dio creatore. Ma quello sarà un
approdo ultimo, un porto finale e sicuro della nostra vita. Prima
c’è il cammino della vita, duro, difficile, aspro, che ha bisogno
della immaginazione per renderlo più accettabile”.
-“Ma, cara figliola, l’immaginazione è ondivaga, ti porta di qua
e di là, senza una direzione: è come il vento che soffia, che
trascina dove magari tu non vuoi. E’ meglio affidarsi alla logica
che ti dà chiarezza delle cose, che ti fa comprendere, e a quel
punto sei pronto ad accogliere per fede la parola di Dio”.
-“Mi perdoni, reverendo, se insisto, io non metto in dubbio che
l’umanità possa farsi travolgere dal vento, come lei dice e come
in realtà è accaduto con la guerra, ma io penso che pur se
l’umanità è e resterà sempre debole, vivace e frivola, sarà pur
sempre amabile, feconda nel trovare ogni tipo di espediente per
superare le difficoltà e non mancherà di una pur minima leggera
saggezza, se coltiverà l’immaginazione. Sarà l’immaginazione
che ci aiuterà a superare violenze, miserie e mediocrità, perché
essa è capace di portarci ovunque e non solo da un punto
determinato a un altro punto ben determinato, come dire dalla
causa all’effetto, come fa la logica. Per quanto fragile e debole
non c’è creatura che non aspiri alla libertà e alla felicità. Tra
una lacrima e un sorriso, nel cammino della vita, ognuno
attende e va verso il proprio momento supremo che è, come
giustamente lei sostiene, l’incontro con Dio e con il mistero”.
-“Reverendo, disse Lorenzo noi siamo come gli aedi di un
tempo, come i giullari e menestrelli delle corti medioevali,
poliedrici e versatili. Siamo capaci di animare le piazze, i
mercati, le feste. Ma dov’è la gente? Dove sono gli occhi dei
bambini?”
-“Ecco, sì, i bambini! disse il prete. Non ce ne sono qui, anzi ce
n’è uno solo in questo paese, ed è pure malato”.
-“Non importa, lo cureremo. Noi facciamo lo spettacolo anche
per una sola persona!”
Al tramonto, invece, la piazza era gremita. Venivano dal lavoro
dei campi e alcuni non erano nemmeno tornati a casa e avevano
poggiato le loro cose accanto ai muri. Montato un esteso
pannello dai colori sgargianti, su cui erano raffigurati su diversi
quadri gli episodi principali del racconto, i due artisti iniziarono
lo spettacolo con un semplice inchino verso la folla e un sorriso
accompagnato da un gesto scherzoso verso il bambino malato,
seduto in prima fila, accanto alla sua mamma.
Lorenzo suonava alternando il flauto e la chitarra, Beatrice
cantava. E quelle orecchie, quelle pietre che per lungo tempo
non avevano udito che grida di terrore ed esplosioni di morte,
nel silenzio di una magica sera, tornarono a sentire note così
dolci e commoventi da strappare lacrime di tenerezza, pensando
a tutti coloro che non c’erano più.
Fu poi la volta di una voce profonda che si sposava
magicamente a quel suono, una voce che faceva rivivere quelle
figure così ben dipinte, muoverle, correre, parlare, come
personaggi reali e che, tuttavia ognuno sapeva essere
inesistenti, usciti dal mondo della fantasia, dalla mitologia
propria della nostra cultura, falda d’acqua profonda, sotterranea,
sulla quale generazioni di nostri antenati si sono sempre
ritrovati immersi. Era un gioco! Ma come nel gioco ogni
bambino “sa” che non è vero quel che sta facendo, che non è
vero il personaggio che sta interpretando e dice ai compagni
“facciamo finta di…”, così là in piazza, quella umanità uscita
dal dolore della guerra “sapeva” che non era vero quello che i
loro occhi vedevano, ma ugualmente amavano quel frutto della
immaginazione, capace di sanare le ferite dell’anima.
Renato, il bambino malato di otto anni, ora piangeva se la brutta
megera picchiava la bambina che aveva resa schiava, ora rideva
ascoltando la buffa storia del ragazzo che in groppa a un asino
sognava di raggiungere la luna e riusciva ad elevarsi al cielo,
girando vorticosamente come un’elica, la coda dell’animale.
In maniera molto semplice e modesta, quei due artisti
toccavano corde di chitarra e di violino, ma soprattutto corde di
una umanità che aveva bisogno di chiavi di lettura per ottenere
risposte plausibili ai “perché” di tanti dolori che la guerra aveva
procurato e in generale ai “perché” del male nella vita sociale.
Ogni opinione che ciascuno serbava dentro di sé, poteva essere
valida, destinata a sorreggersi o a correggersi con quella di altri.
Ma come spiegare a quella gente che non arriva mai il momento
di una risposta definitivamente giusta fintanto che l’uomo sarà
l’uomo?
Intanto un barlume di luce indugiava ancora oltre la piazza, tra i
tanti ruderi di case. Le cime degli alberi si piegavano a una
leggera brezza e accoglievano l’oscurità con la stessa
indifferenza con la quale l’aurora le aveva baciate.
Scrosciarono gli applausi e tutti volevano stringersi attorno a
quei due e facevano a gara per ospitarli. Beatrice e Lorenzo
accettarono l’invito della mamma con il bimbo malato, il quale
fu felice di vederli da vicino nella sua casa.
La festa si ripeté con lo stesso successo e entusiasmo per alcune
sere, finché i due artisti decisero che bisognava proseguire e
visitare altri paesi. L’ultima sera, a casa del piccolo Renato,
quando giunse l’ora di andare a dormire, Beatrice e Lorenzo
vollero raccontare ancora una volta la storia che lo aveva tanto
commosso, perché si ricordasse di loro.
“Questa è la storia di un elefante. Il cacciatore che lo aveva
catturato nella foresta gli aveva incarcerato le zampe con una
spessa catena di ferro, chiusa da un grosso lucchetto. La
moglie del cacciatore teneva come schiava una bambina di
appena otto anni, alla quale faceva sbrigare tutte le faccende
domestiche. Lei se ne stava tutto il giorno a rimirarsi allo
specchio, a pettinarsi, a provare creme e unguenti, anelli e
monili, ma il suo aspetto restava sempre orribile, una vera
megera. Il cacciatore aveva affidato alla moglie la chiave del
lucchetto e la vecchia, sperando di non perderla, se l’era legata
con uno spago alla cintola.
Una sera, la bambina vedendo che l’elefante incatenato a una
enorme quercia, dinanzi alla casa, soffriva tanto, pensò di farlo
fuggire. Mentre la vecchia dormiva sulla poltrona vicino al
camino, la bimba tagliò lo spago, prese la chiave e andò a
liberare l’elefante. L’animale, però, non sembrava volersi
allontanare; la bimba lo sollecitava, ma quello restava fermo,
finché con la proboscide la sollevò in groppa e a quel punto
cominciò a correre verso la foresta. Si fermarono vicino a un
albero altissimo, cresciuto vicino a una roccia tutta coperta di
muschio e lì si riposarono fino al mattino.
L’elefante disse alla bambina: Tu mi hai salvato la vita,
anch’io voglio fare altrettanto. Ti dirò come fare per sfuggire
dalle mani di quella brutta e cattiva donna. Passando da questo
buco che vedi nella roccia, potrai uscire dalla fiaba ed essere
libera per sempre.
La bimba ringraziò l’elefante, gli fece una carezza e
attraversando il buco misterioso si ritrovò fuori della fiaba, nel
mondo della realtà. Vagò a lungo smarrita, poi s’incamminò,
ma non si sa verso dove. Sarai forse tu, Renato, a
incontrarla?”
Beatrice e Lorenzo continuarono i loro spettacoli in grandi città
e in piccoli paesi per lungo tempo, sempre molto applauditi
dagli spettatori entusiasti. Era nata una bambina che somigliava
tutta alla madre. Già a tre anni, Cordelia amava cantare e
recitare e con la sua vocina e il suo tenero aspetto incantava gli
spettatori.
Le condizioni di salute di Lorenzo da qualche tempo non erano
affatto buone e spesso la sera, quando Cordelia dormiva, diceva
alla moglie: “Quando penso al torrente di emozioni, di
esperienze e di iniziative che insieme abbiamo attraversato, mi
sento felice e appagato. A volte mi sembra che la mia vena
magica e poetica stia per arrugginirsi, poi guardando i tuoi
occhi e quelli di Cordelia o al mattino il cielo limpido che via
via trascolora dall’azzurro intenso al tenue pastello delle ore
infuocate dal sole fino al rosso del tramonto come il succo di
arance del mio paese, mi dico che sono in errore e scrivo e
sogno e suono. Mi accorgo di essere forse nel momento giusto
della vita per capire che non si può scrivere qualcosa di bello,
comporre racconti, poesie, senza avere dei ricordi. E non
importa se tu li scordi momentaneamente. Essi ritornano e
diventano ancora più belli, diventano ricordi di ricordi e allora
senti e scrivi quel che ti detta il cuore!”
Beatrice gli fece una carezza e lo abbracciò.
Poi Lorenzo continuò: “Ascoltami, Beatrice, quando non sarò
più al tuo fianco, promettimi che tu e Cordelia continuerete a
portare la gioia e la fantasia tra la gente. Per me è giunto il
giorno in cui appare così chiara la brevità del tempo
dell’esistenza, quella brevità che induce molti a svilire le cose
che hanno curato nel corso dei loro anni, non solo quelle fatue
come il denaro o la gloria, ma anche tutto ciò che è servito a
nutrire l’anima come i libri, la cultura, la musica, i viaggi e
perfino l’amore, visto travestito di sazietà e sfumato. La brevità
del tempo per me ora mi induce a pensare che è giusto
rinnegare il male e le sofferenze cha abbiamo inflitto ai nostri
simili, ma non quello che ci ha aiutato a coltivare i nostri sogni
per crescere in fermezza, in libertà e saggezza e porci al
servizio dei nostri compagni di viaggio meno fortunati, per
lottare contro tutte le ingiustizie, per farci voce di chi voce non
ha, dei diseredati e degli ultimi. Quando sarò morto, non voglio
che il mio corpo assuma l’aspetto di chi ha posseduto tutte le
virtù, ben vestito e abbellito; al contrario desidero che la mia
immagine e il mio ricordo restino così come sono stato nella
vita reale, con i difetti e le debolezze, proprie di ogni essere
umano. Tutti noi siamo come le onde del mare, ora calme e
serene che baciano e carezzano la battigia, ora tempestose e
violente che flagellano la dura roccia. Quel che più conta è
lasciare l’impronta della propria interezza e non soltanto il fasto
apparente e barocco, quale quello che circonda l’urna di un
celebrato personaggio, re o imperatore, vescovo o cardinale,
dove dentro non c’è nulla o soltanto un po’ di cenere”.
Piangeva Beatrice, ascoltando quelle parole del suo uomo, e
pensava che quel suo pianto non era che una infinitesima
appendice di un dolore simile che tutte le donne come lei in
quel momento hanno provato nella lunga storia del mondo, fino
al mito incarnato da Andromaca e Ettore.
Passarono alcuni anni. Le conseguenze dolorose e negative
della guerra si erano alquanto attenuate, la vita era ripresa con
maggior lena e ottimismo in tutte le comunità.
Lorenzo era morto, Beatrice e Cordelia, ormai tredicenne,
avevano arricchito il loro repertorio di canti e storie fantastiche
e riscuotevano il favore del pubblico in ogni paese che
visitavano. Un giorno capitarono anche nel paesino di
montagna dove Lorenzo e Beatrice recitarono e cantarono,
dinanzi a Renato, il bambino malato. Chiesero timidamente
notizie di lui e seppero che era guarito subito dopo la loro
partenza e ora frequentava l’università in città. Raccontavano in
paese che a guarirlo era stata Miriam, una bambina che era
uscita dalla fiaba, come assicurava lui stesso. Ma nessuno mai
aveva visto quella bambina. Era solo lui che poteva vederla. E
da lei aveva appreso tanti segreti della vita, quei segreti che solo
una donna conosce. La sua mamma non c’era più e lui si
affidava solo a lei. Le diceva sempre: “Quando diventeremo
grandi, ti sposerò e potremo stare sempre insieme!”
E poiché lei gli rispondeva che non era possibile perché era una
bambina uscita dalla fiaba e non poteva crescere e che sarebbe
rimasta sempre bambina, Renato si rattristava: “Va bene, ma
allora se resti vuol dire che sarai mia figlia!”
Renato si laureò, perfezionò i suoi studi e fu assunto in una
grande azienda. Presto, le sue eccezionali qualità e competenze
indussero il proprietario a nominarlo Capo e responsabile del
personale. Era un incarico di grande prestigio, cui Renato aveva
da tanto ambito. Ma ora che quel sospirato obiettivo era
raggiunto, non passava giorno che non si sentisse apatico, senza
idee e con la mente bloccata. La depressione stava per
impadronirsi di lui in un momento della sua vita in cui invece
avrebbe dovuto esprimere al massimo la sua creatività, per
meglio selezionare e motivare il personale, allo scopo di
raggiungere una maggiore efficacia ed efficienza nella attività
produttiva dell’azienda.
In tale stato d’animo, una mattina giunse in ufficio e si sedette
al suo tavolo di lavoro. Contrariamente al solito, non chiamò
neppure la sua segretaria per informarsi degli impegni della
giornata e con la testa fra le mani, chiuse gli occhi.
La piccola Miriam, seduta dinanzi a lui, lo guardava senza dire
niente. Quando alzò la testa e aprì gli occhi si accorse della sua
presenza.
-“Miriam! Oh, Miriam!” Non speravo più di rivederti, quanto
tempo è passato dall’ultima volta che sei venuta a trovarmi!”
-“Che cosa ti succede, Renato? Ti vedo così triste!”
Bastarono poche malinconiche parole di Renato e la vista del
suo stato fisico, per far capire a Miriam quale era la malattia del
suo amico.
-“Ti ricordi quando tu avevi la mia età? Eri malato, ti guarirono
i due cantastorie con la poesia e i racconti. Anche oggi hai
bisogno di queste medicine”.
-“Miriam, piccola mia, ma ora è diverso! Ho grandi
responsabilità, debbo guidare tante persone che sono alle mie
dipendenze. E’ un lavoro che mi impegna e mi opprime. Mi
vengono in mente i versi del Poeta: “Se voi sapeste!… via, non fo
per dire/ ma oggi sono una celebrità/. E so legger di greco e di
latino…O nonna, o nonna! deh com’era bella/ quand’ero
bimbo! ditemela ancor/ ditela a quest’uom savio la novella / di
lei che cerca il suo perduto amor!”(1)
“Si vede che ora ti manca il respiro”.
-“Il respiro o il tempo?”
-“Il respiro, il respiro! Prima di chiuderti dentro questa stanza,
quando vieni da casa e percorri a piedi quel bel viale di tigli
profumati, fermati un attimo, ascolta il cinguettio degli uccelli e
guarda le siepi fiorite”.
Renato accennò a un sorriso di compatimento. Ma a un tratto
come se nella sua mente fosse scattata una molla, disse:
-“Ma sì! Hai ragione tu, Miriam! E’ tutto un problema di
respiro. Io da qualche tempo non respiro più e dunque mi sento
senza energia alcuna, né emotiva, né fisica, né spirituale. Ho
bisogno di una sorta di allineamento globale, di un rilassamento
che subito dopo mi possa concedere entusiasmo e
concentrazione. Ecco perché le aziende concorrenti
suggeriscono ai loro manager di praticare lo yoga. Quando si è
ben rilassati, la nostra mente è come inondata di pensieri, di
emozioni, di immagini e di sensazioni”.
-“Ecco, Renato, è proprio così! Nei momenti difficili devi
provare a essere come un vaso vuoto, ma prezioso, dove con
calma mettere, scrutandole attentamente con gli occhi del cuore,
ogni aspetto della realtà con la quale ti misuri”.
-“Grazie Miriam, ho capito quel che vuoi dirmi. La strada è
quella di un tempo: la fiaba è la migliore forma di meditazione
che può aiutarci a riprendere la nostra interezza, frantumata da
mille problemi quotidiani, dalle ansie dell’aspettativa del
futuro, dalle incertezze che ci sovrastano. La fiaba è il respiro
che ci libera, che porta equilibrio e mette ordine dentro noi
stessi. E’ proprio vero quel che diceva un antico cantastorie: “la
verità è dove tu la vuoi, dentro di te! e forse meglio di lui il
grande santo filosofo dell’alto medioevo (2). Ora dunque devo
tirare le conseguenze: introdurre i cantastorie nell’azienda.
Spiegherò che l’energia nel gruppo aziendale si accresce
coltivando il sogno, presente nelle fiabe e nei miti. Per
immaginare il futuro, abbiamo bisogno di nutrirci di fantasia e
di elementi magici che ci aiutano a metabolizzare difficoltà e
problemi e a elaborare progetti innovativi, efficaci ed
efficienti”.
-“Addio, mio piccolo amico Renato. Ora finalmente ti
riconosco. Farò il cammino a ritroso, lascerò per sempre questo
vostro mondo reale! Sai dove trovarmi: sarò entro quella fiaba
che conoscevi da bambino!”
- G. Carducci: Davanti San Guido, in Rime Nuove, Bologna, Zanichelli, 1910
- Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habita veritas (Non uscire fuori, rientra in te stesso, nell’uomo interiore abita la verità): S.Agostino, De vera religione 39,72
Vincenzo Fiaschitello
Nato a Scicli nel1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola alla Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974, preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.
E’ autore di vari saggi sulla scuola, di opere di poesia e di narrativa.
Attualmente è redattore della Rivista culturale telematica “Il Pensiero Mediterraneo” (Redazione di Roma).
Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore Ordine al merito della Repubblica Italiana (1997).