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Gran Tour della Sicilia: allora come oggi

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Gran-Tour-della-Sicilia

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Di Gianvito Pipitone

Ovvero, come attraversare l’isola in scioltezza, senza stress…

Quando prima di ogni viaggio, breve o lungo che fosse, mia nonna s’incaponiva a riempirci borse, borsoni e valigie di ogni ben di Dio, credo che avesse ben chiari scolpiti nella sua mente i primi due articoli del decalogo popolare siciliano: “Primu: amari a Diu supra ogni cosa; secunnu: ‘un caminari mai senza spisa“.

La saggezza popolare di uomini e donne che vissero a cavallo della seconda guerra mondiale, in una Sicilia remota e gravemente arretrata, imponeva la più classica delle precauzioni: portarsi sempre da casa la spesa durante un viaggio, qualsiasi fosse la distanza da coprire e il mezzo utilizzato. Non solo per far fronte a svariati imprevisti o ad incontrollabili attacchi di bulimia. Viaggiare armati di cibo a quei tempi pare che avesse strettamente a che fare con due cose in particolare: intanto con il pessimo stato delle vie di comunicazione, colpevoli spesso di rallentare a dismisura il percorso da completare, e poi con la scarsa o pressoché inesistente presenza di osterie e locande sull’isola.

Lo sapeva bene il grande filologo palermitano Giuseppe Pitrè che nel descrivere lo stato delle vie di comunicazione dell’Ottocento in Sicilia, con il suo gusto e la vena velatamente ironica e un po’ sorniona, riportava così il pensiero di un viaggiatore tedesco: “quello che gli inglesi chiamano comfort, si cercherebbe invano in Sicilia… È invece da maravigliare che non si stia peggio. Se non vi sono alberghi, è perché non vi sono viaggiatori: e come possono le osterie esser bene assestate, se esse vengono visitate di rado da viaggiatori, almeno da Siciliani?… E poi, quando un Siciliano si mette in viaggio, porta con sè quasi tutto l’occorrente…”.

Ecco condensate in poche righe le risposte alle domande circa lo stato dell’arte del Turismo interno in Sicilia all’alba dell’Unità d’Italia. Pressoché inesistente. Con l’eccezione dell’occasionale celebre presenza di viaggiatori inglesi, tedeschi e francesi per i quali,  la tappa giù in Sicilia rappresentava il completamento di quel famoso percorso artistico, culturale, nonché dell’anima che va sotto il nome di Grand Tour. Celebre a questo proposito la frase di Goethe: “L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto”.

Viaggio in Sicilia dunque come “tappa obbligata” per gli intellettuali stranieri di allora, un po’ come al giorno d’oggi, con i dovuti distinguo, potrebbe esserlo per una certa vulgata filosofica, un itinerario attraverso le città e i luoghi storici dell’India. Paradossalmente, tappa un po’ meno obbligata invece per i residenti siciliani di quei tempi. Appurata infatti l’esiguità numerica di coloro che potevano permettersi di intraprendere un viaggio interno, anche solo per questioni strettamente economiche, viene da chiedersi quante volte nel corso della propria esistenza era dato ad un siciliano medio della Sicilia Orientale di recarsi nella Capitale a Palermo? E un onesto lavoratore, mettiamo il caso trapanese, avrebbe mai potuto sperare di recarsi una volta nella vita in visita “di piacere” o per qualche altra ragione a Taormina, Catania oppure Ortigia? Raramente, nella maggior parte dei casi quasi mai, temo… A meno che non si fosse trattato di un mercante, un marinaio, un messo governativo, un predicatore o qualche altra figura insolitamente raminga. La stanzialità nell’Ottocento, in sostanza, si conferma regola ferrea.

E che il concetto di viaggio fosse collegato anche ad una certa pericolosità, lo si desume dall’ antico detto siciliano che raccomandava ai viandanti la recita di una precisa preghiera, prima di mettersi in cammino, al santo protettore dei viandanti, San Giuliano: “Si vuoi junciri sanu, Nun ti scurdari lu patrinnostru a Sanciulianu”. Nei primi dell’Ottocento, come ci ricorda sempre il Pitrè, un cittadino se vuole andare in carrozza da Palermo non può farlo oltre Monreale e Termini Imerese, uniche due vie adatte ad essere percorse dalle carrozze. Il resto delle strade sull’isola erano invece sentieri (trazzeri), dove non era improbabile affondare nel fango durante gli acquazzoni invernali, o soffocare tra fitte nuvole di polvere, durante le lunghe e ventose giornate di scirocco in estate.

Aspetto da non trascurare per i viandanti era poi la temibile presenza di briganti sguinzagliati fra le contrade più esterne che, non di rado assalivano i viaggiatori depredandoli o anche uccidendoli senza pietà dopo averli svaligiati. E lo spauracchio per la presenza di questi masnadieri era così diffuso fra i viaggiatori del tempo che i più ricchi fra loro non rinunciavano a farsi accompagnare dai cosiddetti “campieri”, né più né meno di una sorta di agenti di scorta privati dei giorni nostri. Che poi nella maggior parte dei casi i campieri stessi risultassero dei delinquenti al pari, se non peggio di quelli da cui difendevano i loro clienti, questo è solo un dettaglio: il loro servizio consisteva comunque nel riconsegnarli incolumi, senza che fosse torto loro un capello.

Per quanto riguarda il parco veicoli, i garage dei tempi erano abbastanza sguarniti: a parte lettiga e mula non restava altro al viaggiatore che il “cavallo di S. Francesco”, espressione idiomatica che designava l’andare a piedi (aiutandosi con il bastone). Per recarsi in certi posti, infine, era possibile utilizzare carretto e qualche volta anche la carrozza, mezzi di trasporto quest’ultimi che, insieme alla portantina, di cui abbiamo parlato abbondantemente altrove, erano più che altro utilizzati per le vie cittadine.

In condizioni ordinarie, i mulattieri, camminando a passo d’uomo, assicuravano una velocità di crociera di quattro miglia l’ora e, “tenuto conto della natura delle strade, che, in generale, erano una serie di rovine, di precipizi e di sentieri pieni di sassi, compivano davvero dei mezzi miracoli“. Cronometro alla mano, insomma, da Caltagirone a Catania, coprendo una distanza di circa 70 km, ci si impiegava dalle 9 alle 10 ore. Dalla 15 alle 16 ore effettive di viaggio per coprire la distanza di 100 km circa fra Palermo e Trapani. E in condizioni di tempo non avverse, non sarebbero comunque bastate 30 ore di viaggio effettivo per recarsi da Catania a Palermo.

Un mondo difficile quello borbonico, all’alba di un nuovo capitolo: lo Stato Unitario Italiano incombeva già e, ci si poteva giurare, non si sarebbe di certo lasciato sfuggire l’occasione di riammodernamento delle disastrate vie di comunicazioni interne della Sicilia e di tutto il sud Italia… o no?

Ma torniamo a mia nonna, alla sua “spisa” e perché no, visto che siamo in tema, a quel viaggio mitico ormai, effettuato a metà degli anni ‘70 alla guida di una spedizione che, come nell’Anabasi di Senofonte, la vide attraversare (con successo!) un territorio impervio e invalicabile dopo mille peripezie: il cuore della Sicilia. Andiamo per ordine. Quando i miei genitori decisero di convolare a nozze, non fu di certo uno scherzo riuscire ad organizzare logisticamente il transfer del 50 % degli invitati per il grande evento  Si trattava di spostare ad occhio e croce una cinquantina di persone (nonni, zii, nipoti, cugini, amici e una ciurma di bambini) dalle “campagne marsalesi” e di traslarle come se niente fosse nella “sperduta Randazzo”, bellissima cittadina medievale ai piedi dell’Etna, che aveva dato i natali alla stirpe di mia mamma. Più facile a dirlo che a farlo.

C’è una bella foto di un totale, con tutti i convenuti alle nozze, sulla scalinata della chiesa di Maria SS del Carmelo a Randazzo. Quando ero piccolo, impregnato dei tanti racconti ascoltati attorno a quel mitico viaggio, ho sempre guardato a quella foto cercando ammirato di passare in rassegna ad uno ad uno i valorosi componenti di quell’incredibile spedizione. Come fossero gli Argonauti reduci dalle mille avventure alla ricerca del vello d’oro, o gli Ebrei del Libro, scampati a mille peripezie in cerca della terra promessa.

Ancora oggi, a distanza di quasi 50 anni, di quel famoso viaggio collettivo circolano diverse versioni. Intanto, fra tempi morti e tempi vivi, non ci si è mai messi d’accordo sul totale delle ore impiegate per coprire la distanza Marsala-Randazzo. Si racconta di tre cambi di treno. Per quanto qualcuno sostenga ancora adesso che i treni fossero quattro. Si racconta di gente che alla stazione di Palermo, in quel torrido fine luglio del 1974, ha rischiato di perdere la coincidenza con il treno per Catania perché disperatamente alla ricerca di una toilet libera in città. Ad un certo punto dell’itinerario, dopo ore estenuanti trascorse a tagliare a fette una Sicilia che non voleva finire più, si racconta che il treno si fermò in una stazione sperduta nel cuore del cuore dell’isola.

Lì qualcuno ebbe il sospetto di essere finito nel cast di un film di Sergio Leone. Fu quando il treno si era dimenticato di ripartire. E nell’attesa di una coincidenza che non arrivava mai, ognuno dei viaggiatori si sentì libero di muoversi a proprio piacimento: chi si ritrovò con i piedi nelle chiare fresche dolci acque di un torrente che sbucava a due passi dai binari; chi per ingannare il tempo si accese il ceppo di un’agave imbevuto di olio di palma, a mo’ di canna; chi s’ingegnò a cercare un po’ d’ombra sulla banchina della stazione, stravaccato come i protagonisti di C’era una volta il West… Mentre mia nonna, nell’incertezza, aveva cominciato a smazzare piatti, con la speranza di riuscire a dare fondo una volta per tutte al residuo del pranzo, pregando i suoi commensali di sforzarsi a mangiare “almeno senza pane“.

Degno di nota nell’ultimo quarto di viaggio, l’interminabile cottura a fuoco lento, cui i viaggiatori furono esposti a bordo di una coloratissima littorina della Circumetnea, con l’aria dolciastra del vespro etneo, arroventata dall’ennesima colata lavica, mentre una pirotecnica esplosione di cenere e lapilli sembrava dare loro il benvenuto nel regno della “Muntagna”. Tutto. Anche la natura sembrava stringersi festosamente attorno alle nozze dell’anno!

E alla fine del viaggio il cronometro segnò 16 ore e 25 minuti … dalla fondazione di Roma… cioè, rettifico, dalla partenza da Marsala. Sebbene ci fosse qualcuno nella spedizione che non fosse d’accordo ad omologare il tempo record, imputando il gravoso ritardo a mia nonna Maretta, colpevole di aver distratto il macchinista della littorina, impiattandogli la cena (agneddu e sucu…) sotto il naso, giusto mentre il trenino era alle prese con gli ultimi faticosissimi tornanti prima di giungere in salvo alla stazione di Randazzo.

Una cosa è certa, da noi in Sicilia, fin dalla notte dei tempi viaggiare deve essere un’avventura. Altrimenti noi siciliani non ci divertiamo. E a discapito di fatidici ponti sullo stretto, di fantomatici locomotori, di Frecciarossa, Frecciabianca o Freccia alata … l’impressione è che nessuno ci toglierà mai quel particolare gusto e piacere di poterci sentire immersi nell’Ottocento, ogni qual volta lo vogliamo. Il Grand Tour per noi continua ancora oggi … e l’A 19 Palermo-Catania pare lì a ricordarcelo: sempre a completa disposizione per un salto indietro nel tempo.

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