IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Modesto nella testa dei ragazzi

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Le-sue-dita-come-stecchi-di-mandorlo

Le-sue-dita-come-stecchi-di-mandorlo

di Maurizio Mazzotta

I racconti  che presento sono tratti dal romanzo breve  Le sue dita come stecchi di mandorlo – essereuomo in Amazon. Regalo le poche copie rimaste a chi ha il piacere di leggere libri e vuole conoscere tutta questa storia, peraltro alcuni brani sono già apparsi in questa pagine. Nonno e nipote: scambio di emozioni. il nonno racconta due secoli del Salento e consegna al nipote le origini della famiglia intrise di gioie, dolori e incanti. 

Modesto nella testa dei ragazzi

I ragazzi crebbero inghiottendo questo gigante buonocattivo, a sua volta affamato di eguaglianza come lo era di grano e di montoni. Modesto era con loro nelle avventure. Io sono Modesto, gridava Marco e gli amici lo spernacchiavano; andavano ugual­mente all’assalto della capanna isolata, della masseria abbando­nata, e con audacia in pieno giorno nei campi abitati a rubare angurie e meloni, poi uva e fichi perché come diceva il nonno quannu rria l’ua e la fica lu milune se ‘bba ‘mpica. L’anguria prova il vuoto dell’esistenza e presa dallo sconforto per essere stata battuta in dolcezza dal grappolo maturo e dal fico lattigi­noso si impicca.

Modesto era con loro sopra i rami del noce, sotto le cupole di verde dei pampini della vigna vecchia. Era con loro ma aveva cominciato col Sergente Romano, pugliese di Gioia del Colle, ex  soldato dei Borboni, capo temuto della più grossa banda di bri­ganti che dettava legge sui territori di Bari e di Brindisi. Modesto disperato, bracciante sopraffatto dall’indigenza e dall’orgoglio, per non chiedere nulla al figlio di suo padre, dopo aver tentato per anni di dar da mangiare alla madre si reca ad Altamura, a piedi, senza nemmeno un sacco in spalla. Dove sa che può trovare il sergente Romano. Tanti come lui, contadini e briganti stagionali spinti dal bisogno, sostenuti dal diritto divino non umano di avere come gli altri essendo come gli altri, si davano alla macchia per togliere ai possidenti tutto quello che a loro serviva. Le bande si gonfiavano e si sgonfiavano a seconda delle stagioni. I rischi di delazione erano altissimi e la disciplina doveva essere rigida. Il Sergente Romano puniva ferocemente, ciononostante attirava masse di contadini. Trecento uomini a cavallo a quei tempi in Puglia erano una forza, un terremoto, una calamità, gli zoccoli di quei cavalli facevano tremare la terra attorno alle masserie dei benestanti. Io sono Modesto e tu sei il Sergente Romano. Tu vaffanculo io sono Mode­sto e tu sei il Sergente Romano. A me sta bene essere Pizzichic­chio. Cosimo Mazzeo era uno dei luogotenenti. Era chiamato Pizzichicchio perché pizzicava i ricchi con eufemismo ben inteso per dare ai poveri. Era un brigante terribile e buono come Mode­sto ma molto più importante. I due legarono e Pizzichicchio affascinò i ragazzi come aveva affascinato il nonno Vincenzo quando Modesto raccontava di prima mano. Curiosa avventura dei nomi che trascinano chi li possiede. Pizzichicchio si prestava come parola a essere pronunciata in un modo che poteva accrescere l’alone attorno a questo nome. Così fu pronunciata la prima volta da Modesto a Vincenzo che ascoltava e da Vincenzo a Marco e poi da Marco agli amici. Si litigavano l’immedesimazio­ne con Modesto e con Pizzichicchio, rifiutavano il sergente Romano col suo passato di soldato della monarchia.

Alla morte del Sergente Romano Pizzichicchio raccolse la maggior parte degli uomini, tra cui Modesto, e cominciò a spazzare il territorio di Lecce. Si era stabilito a Carosino, vicino Taranto. Si diceva che Salvatore doveva a Modesto se Pizzichicchio lo aveva rispettato. Quei cavalieri già superata Manduria si davano da fare e ogni volta, arrivati all’altezza di Nùvoli deviavano, o da una parte o dall’altra, e Le Torri non la sfioravano nemme­no. Forse l’unica masseria a essere lasciata in pace in quel periodo. Pizzichicchio fu catturato e Modesto passò con Melchiorre, poco convinto.

– Nel Sessantadue fu un autunno splendido; Modesto ebbe le miglio­ri soddisfazioni. La banda del Romano batté alla masseria S. Teresa le guardie nazionali di Cellino e S. Pietro Vernotico, invase Grottaglie, Carovigno, e attaccò Erchie! – raccontava il nonno con una punta di spavalderia che lo rendeva simile ai ragazzi. La risonanza di questi nomi, già alta per il nonno, era centuplicata per gli orecchi di Marco che la trasmetteva così ai compagni.

Il ragazzo riportava agli amici la storia delle disfatte: – Le disfatte subite non furono soltanto militari. Gioia del Colle con il Romano, alla Murgia di Belmonte con Pizzichicchio! Modesto si sentiva umiliato, bruciavano le sconfitte perché   dall’altra parte c’era la Guardia Nazionale, il vero nemico, che per legge era impastata di proprietari, fittaioli, coloni, pub­blici ufficiali, e poi artigiani, commercianti e professori. Dalla Guardia Nazionale erano esclusi i braccian­ti. Il nonno dice che era una vera e propria lotta di classe, la Guardia Nazionale era militarmente inferiore e quando vinceva era perché aveva al fianco i carabinieri o i cavalleggeri del Piemon­te.-

Quando si trattava di agire, ovviamente per gioco, per i ragazzi il chi dovesse essere Modesto e cosa si dovesse fare a volte diventava un problema; quando si trattava di raccontare, le cose cambiavano. Capo indiscusso era Marco, possedeva gli eventi, la sorgente della loro immaginazione. Rinaldo non era geloso del nonno né  invidiava Marco, il cuginetto che gli faceva quasi pena prigioniero nel palazzo di Nùvoli durante l’inverno, anzi era contento per il fatto che aveva cominciato a starsene alle Torri, e fu nell’atmosfera della masseria che i cugini legarono realmente. Il loro stare insieme era un impasto di presenze, alcune reali, un tantino remote come il nonno Vincenzo, altre immaginate, come Modesto, ma forti e dai contorni precisi, perché i racconti erano solo di seconda mano, altre fantasticate con i contorni diversi in ciascuno di loro. Il nonno era nello studio, nascosto ai loro sguardi, oppure sul ballatoio, se si affacciava per poco con le sue linee un po’ curve e i colori tenui del suo aspetto, accentuati dagli abiti, giacche camicie cravatte, celesti panna nocciola, persino rosa, che lo facevano diverso e distante, misterioso anche se di tanto in tan­to scendeva fino a loro a interrogarli sui loro giochi.

La nonna di Marco, la signora Lucia, distribuiva taralli con lo zucchero e mostaccioli con la cannella ma il nonno di Marco e Rinaldo, per Fabio, sapeva di lontananza e di mistero, faceva coppia con Modesto e fu il cemento della loro amicizia. Il binomio fu formidabile. Sapevano che gli ideali del nonno erano quelli di Modesto e che se Modesto aveva lottato con le armi e le mani, Vincenzo aveva lottato con le leggi e le parole.

– Ma come erano sti’ briganti, che fucili avevano! – sbottò Fabio, un pomeriggio caldissimo all’ombra di un pino maestoso, e Marco non seppe rispondere.

La sera lo chiese al nonno e il nonno raccontò:

– A caccia con Modesto, quando il territorio era del tutto scono­sciuto, ero a un passo da lui, pure se bisognava procedere a ventaglio per stanare la lepre. Succedeva che restavamo lontani dagli altri anche qualche centinaio di metri. Una volta – era l’annuncio dell’alba – andavamo per un terreno scoperto verso un’altura che si intravedeva assai folta di alberi e cespugli e ci trovammo in breve a percorrere un sentiero in salita. Una voce, bassa e imperiosa, pronunciò qualcosa per fermarci e scoprimmo una capanna ma non vedemmo altro. Modesto mise una mano sulla mia spalla. I miei sensi da quel momento furono vigili per registrare quanto accadeva. “Io sono Modesto, disse il gigante, e tu chi sei?”  Dal buio della capanna affiorarono voci ed emerse la figura di un uomo col fucile e subito con altro tono, invitan­te, si sentì: “Modesto, Modesto! Vieni avanti, e voi accendete il fuoco che ci beviamo un bicchiere con Modesto.”

– Ci sedemmo su grosse pietre, già abituati all’oscurità. Il fuoco colorò di rosso l’interno e io mi accorsi di cinque uomini incluso quello che parlava che doveva essere il capo. Avvolti in lunghi mantelli tre di loro erano in piedi e si muovevano con estrema lentezza. Si accovacciarono al loro turno per riempire il bic­chiere.

– ” Non tieni nessuno davanti, Modesto “, “E nemmeno dietro”, aggiunse un altro, l’unico seduto oltre al capo. Le espressioni dei volti mi suggerirono che erano complimenti.

– “Eh compare! Voi ora andate a caccia di lepri?”. La parola “ora” fu volutamente calcata.

– “Noi sempre di lupi. Voi pure ne avete scannati, compare!” e seguirono risate forti, rabbiose.

– Bevvero un altro bicchiere, e Modesto si alzò.  Il capo mi stava squadrando dopo avermi ignorato per tutto il tempo, non disse e non chiese nulla.

– Qualche minuto dopo, sul sentiero che avevamo ripreso, Modesto  rispose a domande che tenevo in testa. Disse  “Cacciatori, della Basilicata.”  Certo non era più  tempo di briganti, concluse il nonno, di quei briganti che avevano acceso la fantasia popolare, ma quelli non erano cacciatori, uastàsi sì, ed è sempre tempo per la gentaglia capace di soprusi e violenze sui deboli, ma intimidita dai forti. Io rimasi colpito dalla fama di Modesto ed ero fiero che lui così familiare a me avesse sugli estranei un tale ascendente che lo portava a passare indenne tra cinque malintenzionati col fucile. –

Marco invidiava la fortuna che il nonno aveva avuto di un tal maestro e di tante avventure. Si ritrovava distante, piccino, con la voglia assurda di essere il nonno.


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