IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Conversazione filosofica intorno al pensiero di Emanuele Severino (1929/2020)          

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Emanuele Severino

fonte: Wikipedia

di Vincenzo Fiaschitello

Un giorno d’estate, tornando in Sicilia dopo molti anni di assenza, decisi di raggiungere, dopo aver visitato Scicli la mia città del cuore dove sono nato, la vicina città di Rosolini per incontrare alcuni amici.

Due mi erano particolarmente cari: il primo, don Contarina, parroco della Chiesa Madre di Rosolini; il secondo, Carmelo Vigna, professore ordinario di Filosofia Morale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e Direttore del Dipartimento di filosofia e teorie delle scienze. Rimasto legato alla sua città natale, Vigna tornava regolarmente tutti gli anni, ma non mi era mai stato possibile accordare la mia visita alla città con il tempo della sua presenza, per cui i miei ricordi risalivano al periodo della nostra adolescenza, quando con tanti altri coetanei ci frequentavamo durante le varie attività organizzate dal giovane prete, don Contarina, allora segretario del vescovo di Noto.

Seduti al bar, don Contarina non mancava di ricordare, a me e agli altri amici che nel frattempo si erano uniti a noi, l’eccezionale carriera accademica di Carmelo, iniziata con una borsa di studio all’Università Cattolica di Milano, con la brillante laurea in filosofia e l’amicizia con il suo maestro Emanuele Severino. Questi lo aveva voluto con sé quando, dimessosi dalla Cattolica, passò all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Avevamo da poco finito di consumare la nostra granita di caffè, quando l’amico Carmelo ricevette una telefonata che lo obbligava a lasciarci per un improvviso impegno.

La speranza di farci spiegare il pensiero di Emanuele Severino da parte di un autorevole docente, suo allievo, svanì.

Fu così che don Contarina mi sollecitò: “Tu hai insegnato filosofia nei licei e so che hai avuto sempre un grande interesse per la filosofia contemporanea. Puoi aiutarci a riflettere su alcuni importanti aspetti del pensiero di Emanuele Severino che ormai è considerato uno dei maggiori filosofi del nostro tempo”.

-Farò del mio meglio, don Contarina. Non è facile esporre un pensiero molto complesso, qual è quello di Severino.

Vorrei accennare subito al motivo delle dimissioni di Severino dall’Università Cattolica di Milano. La commissione del Santo Uffizio, dopo un intenso dibattito, era giunta alla conclusione che il pensiero di Severino fosse gravemente fuori dalla ortodossia cattolica. Lo stesso filosofo ne era già consapevole, per cui non tardò a rassegnare le dimissioni e ad accettare nel 1970 l’incarico offertogli dalla Università di Venezia.

Io credo che tutta la prima parte del pensiero di Severino ruoti attorno alla parola “genesi” che lo porta ad allontanarsi dall’ortodossia cattolica. Il verbo “generare” è per lui un termine carico di mistero, un termine che racchiude un significato profondo, abissale. E’ un riferimento molto chiaro alla metafisica creazionista, dalla quale Severino comincia a prendere le distanze, perché intende partire dal concetto di Essere di Parmenide.

Questo concetto è il punto di partenza e sarà, dopo un lungo e straordinario percorso, il punto di arrivo con l’invito a tornare a Parmenide, se l’Occidente vuole uscire dalla alienazione nella quale fin qui si è intrappolato.

-Scusami, Vincenzo, interviene don Contarina, ma come è potuto accadere che Severino conoscendo bene il pensiero di San Tommaso sulla creazione del mondo possa essersi trovato in contrasto con l’atto del creare da parte di Dio?

-Ecco, il ragionamento di Severino è questo: Il Dio che chiamiamo Essere non può allo stesso tempo essere Non Essere. Il principio aristotelico di non contraddizione ci vieta di accogliere una affermazione che dice che una cosa è, e nello stesso tempo non è. L’Essere dunque esclude il nulla.

Ma noi abbiamo sotto gli occhi il mondo che diviene, cioè le cose passano dall’essere al nulla. Si dovrebbe dire che in prima battuta cominciano dal nulla e vanno verso il nulla.

-E allora come si risolve il problema? interviene un giovane amico.

-Occorre trarre un fondamento sottratto al divenire.

La teologia classica ha la sua risposta netta e chiara. Il fondamento è Dio, l’eterno presente, così come il Concilio di Nicea del 325 stabilì definitivamente nel Credo, dove appunto si dice del Verbo, Dio da Dio, generato non creato e sottolinea l’unità della natura tra generante e generato.

Solo Dio può trarre fuori dal nulla: è questa la creazione del mondo. In questo modo le cose non possiedono l’essere al pari di Dio, ma lo ricevono e ciò giustifica il mutamento, il divenire, il diventare altro, fino allo stato ultimo che chiamiamo morte.

Un punto fermo del pensiero di Severino è dunque che la dimensione del creato è posta in essere da Dio; in lui soltanto c’è una perfetta coincidenza di essenza e esistenza.

-Fin qui, dice don Contarina, mi sembra che l’allineamento della filosofia severiana sia perfetto con la teologia cattolica.

-Precisamente, aggiungo, ma a questo punto appare subito una fondamentale divergenza. Nell’atto del creare, Dio è coinvolto con il nulla, nel senso che è l’artefice, il promotore del passaggio dal non essere all’essere (il mondo e le cose). Ed è proprio qui che la strada si biforca. Severino lascia la metafisica classica per intraprendere la via che ha portato l’Occidente alla alienazione, la via cioè che ritiene possibile far coincidere l’essere con il nulla.

Ecco, tutto il pensiero di Severino da questo punto in poi è proteso a superare questa alienazione, mediante un geniale quanto culturalmente raffinato pensiero, che lo porta a immaginare una filosofia per il futuro.

Tenendo presente che in questo tentativo di superare l’alienazione Severino si muove nell’ottica dialettica hegeliana, egli ritiene che la creazione porti a una innegabile conseguenza: anche il Dio che crea da sempre diventa altro, perché se così non fosse sarebbe un Dio non creante. E’ come dire che Dio “inaugura” il divenire, che è qualcosa che ha una base drammatica.

-Anche Anassimandro, interviene l’amico Salvatore, mi pare che avesse un’idea simile quando affermava che la separazione dall’Uno comporta una profonda ingiustizia.

-Sì, è proprio così. Se andiamo ad esaminare che cosa effettivamente avviene nel divenire, nel diventare altro, ci rendiamo conto che c’è la presenza di una violenza, c’è l’invasione di un altro essere mentre ci si strappa dal proprio essere.

Per chiarire questa condizione, Severino ricorre spesso all’esempio della legna che brucia, per cui dall’essere legna diventa altro essere cioè cenere, invadendo l’essere di quest’ultima.

E allora se diciamo che il diventare altro è come un uccidersi, Dio si è “ucciso” con la creazione dell’uomo, il quale a sua volta vuole diventare altro e invadere la sfera del divino.

Al di là della simbologia della mela, del serpente, della disobbedienza a un ordine, il paradiso per l’uomo Adamo è un recinto, uno spazio chiuso, limitato, altro che luogo di delizia. L’uomo ha bisogno di affermarsi, di trovare spazio per respirare ed è così che entra in lotta con Dio.

Tutta la storia dell’umanità è contrassegnata da questa lotta: l’uomo, ostacolato da Dio, dall’ambiente, ha bisogno di frantumare la barriera che lo circonda e reprime.

La barriera rappresenta l’inflessibilità divina: una volta sfondata, Dio arretra e l’uomo si sente vincitore.

I frammenti della barriera: le acque, la terra, il vento, la luce, sono tutti necessari all’uomo per vivere, tuttavia verranno utilizzati sempre più in modo improprio e distruttivo.

-Mi pare, dice Salvatore, che è quello che accade nel nostro tempo con lo sperpero delle risorse e con il grave problema dell’inquinamento.

-Certo, ma quello che ora importa segnalare è che sin da subito l’uomo in questa operazione di arretramento imposta a Dio, si carica di un senso di colpa che lo spinge a celebrare quella forma straordinaria dell’esistenza che è il sacrificio. Per fare in modo che Dio non si vendichi, occorre approntare qualcosa che lo ripaghi dell’affronto subito. Se l’uomo ha offeso Dio e lo ha squartato, è necessaria una riparazione.

L’uomo capisce che comunque deve a Dio la propria sopravvivenza, grazie ai frammenti della barriera infranta, e allora costruisce il mito per sedare il senso di colpa: il divino, il sacro, la potenza assoluta chiedono rispetto, venerazione.

Questo senso di colpa, presente in tutti i miti della civiltà occidentale, compare sin dall’inizio, giungendo fino a Freud quando questi parla della uccisione degli antenati (la barriera), perché i discendenti possano vivere. E’ presente nella stessa religione cattolica con la figura di Cristo che uomo-Dio, crocifisso, squartato, nella celebrazione della messa si offre come corpo e sangue perché il mondo riceva il perdono e rinasca.

-Ora capisco, dice Salvatore, perché qualcuno ha definito il pensiero di Severino “pensiero biblico”.

-Sì, certo, siamo di fronte a una reinterpretazione della Genesi e oltre.

Questo quadro culturale, teologico, filosofico, da Anassimandro a Hegel, afferma Severino, è rimasto immutato e da esso si è fatto discendere tutto ciò che riguarda l’episteme, cioè quella certezza, quella stabilità, quella assolutezza nell’ordine della natura, della morale, dell’estetica, del diritto, del modo di vivere e di pensare del mondo occidentale.

Nei due secoli dopo Hegel si è andato formando un pensiero che via via è emerso dal sottosuolo (da Leopardi a Nietzsche, a Dostoevskij, a Gentile), caratterizzato da una precisa constatazione: se si ammette un Eterno, Dio, è impossibile il divenire. E’ esattamente il contrario di ciò che sosteneva l’antica tradizione occidentale e cioè: perché ci sia il divenire è necessario Dio.

E’ ben nota la dichiarazione esplicita di Nietzsche: Dio è morto.

L’alienazione dell’Occidente non può essere superata fino a quando non ci si libera dall’idea assurda di un Essere che coincida con il nulla.

La struttura del pensiero di Severino è radicale e innovativa: è giusto e evidentemente innegabile che esiste un divenire che sta sotto i nostri occhi (le cose mutano, diventano altro), ma è profondamente sbagliato (da qui l’alienazione) che l’Occidente abbia interpretato il divenire come l’evidenza del passaggio dall’essere al nulla. L’Occidente si è trovato per secoli immerso nelle sabbie mobili di un concetto di Essere (Dio creatore), lontano da quello di Parmenide. Ecco, dunque, l’invito di Severino a tornare a Parmenide.

Direi, pertanto, che l’accusa di ateismo nei confronti di Severino non ha alcun fondamento.

-Sono d’accordo con te, interviene don Contarina. So che questa accusa è stata mossa soprattutto dal teologo domenicano Giovanni Cavalcoli, che nel commentare il libro di Severino “Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia”, gli rinfaccia il rinnegamento della fede cristiana e il fatto che confonde l’essere metafisico con quello teologico.

-Ecco, volevo proprio ricordare questo aspetto. Severino va per la sua strada. Tenendo fermo il principio che l’essere esclude il nulla, va oltre la metafisica tradizionale: ogni ente esclude il suo nulla, esclude da sé il nulla, è eterno. Cade la differenza tra Dio e il mondo.

Tutto è eterno, tutto è da sempre: questo nostro conversare qui al bar, questo nostro modo di stare al mondo, questi nostri volti, questi eventi nei quali siamo coinvolti, sono da sempre. Noi sperimentiamo non il passaggio dall’essere al nulla e viceversa, ma soltanto l’apparire e il disparire dell’eterno.

E qui siamo in una struttura di pensiero tipica della fenomenologia.

Il primo nome che mi viene in mente è certamente Heidegger.

La tesi di laurea di Severino è su Heidegger. E non è da escludere che lo stesso Heidegger avesse letto qualche libro di Severino.

Tra i due filosofi ci sono certamente delle affinità, anche se parallele e varie divergenze, ma non certo dipendenza.

Per semplificare si può affermare che la differenza tra i due filosofi sta nel fatto che Heidegger fa una netta distinzione tra essere e ente: l’essere è per l’ente semplicemente la condizione grazie alla quale esso può venire in presenza. Heidegger non si interroga sull’essere, che così si sottrae alla nostra conoscenza, laddove invece Severino, respingendo questa dimensione dell’essere come semplice condizione che consente agli enti di manifestarsi, parla di eternità degli enti.

In ogni caso nella fenomenologia la manifestazione del mondo avviene in modo parziale, come in penombra, quasi a riportarci nella mitica caverna platonica delle ombre.

La coscienza non è quella cartesiana che realizza l’identità tra pensiero ed essere, tra cogito e sum, ma è, come dice Husserl, una intenzionalità da sempre rivolta al mondo, che ha una direzionalità verso qualcosa e che può sapere qualcosa solo perdendosi nel mondo.

Un orientamento simile si legge nel famoso esperimento dell’arto fantasma di Merleau Ponty come è spiegato nel suo famoso testo “Fenomenologia della percezione”: il soldato che ha perso un braccio avverte in certi momenti la presenza dell’arto mancante anche provando un dolore immaginario o con la sensazione di allungarlo per prendere un oggetto. Ciò significa che c’è da sempre nell’uomo una disposizione naturale a rivolgersi al mondo e a entrare in relazione con esso con tutto il corpo.

In questo gioco fenomenologico della percezione quel che resta fuori per Heidegger è l’essere distinto dall’ente e comunque dimenticato e connesso a ciò che si manifesta. Non così per Severino che eternizza tutto e parla di enti eterni, portandosi al di là della metafisica classica.

Se tutto è eterno, lo è anche la tecnica. E qui Severino apre un ampio e interessante discorso che non si limita al comune lamento della alienazione del proletariato di cui parlava Marx con l’avvento del capitalismo, ma di una disamina complessa e coerente che riguarda il contesto storico nel quale viviamo.

Ci troviamo in una fase storica in cui la tecnoscienza ha conquistato una tale potenza o, meglio, pre-potenza, che non ci lascia tranquilli per il futuro. In questa progressiva ascesa inarrestabile, sebbene sin dai primi decenni del secolo scorso la scienza sia stata in qualche modo frenata dalla consapevolezza che la verità scientifica non è come aveva fatto credere il Positivismo una verità assoluta, non ha assolutezza, ma è falsificabile (si pensi al principio di indeterminazione di Heisenberg, alle geometrie non euclidee, alla logica quantistica che mette in crisi il principio di causalità, ecc.), tuttavia, aiutata in questo dalla filosofia, ha appreso da quel pensiero del sottosuolo (Leopardi, Nietzsche, ecc.) che non c’è più alcun Eterno e quindi alcun limite inviolabile o vincolo etico-giuridico, ha abbattuto la barriera e si è scatenata nell’ambito del divenire, del produrre altro, del trasformare, del “creare” sempre più appetibili prodotti apprezzati dall’uomo.

-Ma com’è possibile, interviene Salvatore, che tutte le altre forze sociali, economia, capitalismo, democrazia, marxismo, cristianesimo, etica, ecc. si siano fatte soggiogare da quest’unica forza irresistibile?

-E’ una domanda che merita una risposta convincente. Il fatto è che ciascuna di quelle forze da te nominate dimentica i propri scopi, proiettandoli in quelli specifici della tecnologia. Ognuna di quelle forze all’inizio si è servita della tecnologia. Come avrebbe potuto non farlo volendo a sua volta potenziarsi con gli ultimi suoi prestigiosi ritrovati?

A poco a poco le forze che credono di dominare la tecnica non credono più ai loro valori e si fanno appunto fagocitare dalla tecnica.

La tecnoscienza, dunque, ha assorbito le finalità iniziali di ciascuna di quelle forze e ora si trova come super-forza in grado di dominare l’umanità, perché essa libera dalle malattie, salva dalle epidemie, aiuta a sconfiggere l’inquinamento, ricerca sempre nuove risorse e, insomma, promette il paradiso in terra.

La suprema follia del nostro tempo è l’alienazione dell’uomo nella potenza della tecnica che ha l’esclusiva del produrre. E il produrre è il passaggio da un nulla a un nulla. Come può allora questa tecnica, nuovo ultimo Dio, assicurare all’uomo il paradiso in terra? Come può promettergli la felicità?

Già il fatto stesso di dire “Uomo, ti prometto la felicità!” è il segno più evidente che egli non l’ha ancora. E se non la possiede, è evidente che dinanzi a una felicità ipotetica, carica di dubbio, l’uomo è avviluppato più di prima in una terribile angoscia, paura, proprio quella che i greci indicavano con la parola thauma.

Non è più tempo di affidarci al mito come nell’antica Grecia e neanche alla filosofia pre e post kantiana, ma ad una filosofia futura, oltre il dominio del divenire, “futura solo in quanto è prima del più lontano passato”.

Bibliografia

Emanuele Severino, La filosofia futura, Milano, Rizzoli, 2014

Emanuele Severino, Il mio ricordo degli eterni- Autobiografia, Milano, Rizzoli, 2011

Emanuele Severino, Capitalismo senza futuro, Milano, Rizzoli, 2012

Emanuele Severino, Intorno al senso del nulla, Milano, Adelphi, 2013

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